Vinicio Capossela

Vinicio Capossela

Il menestrello onnivoro

Miglior cantautore italiano della sua generazione, Capossela è un menestrello onnivoro che ha assorbito suoni e culture di ogni angolo del mondo. Partito con ballate intimiste da piano bar e confessioni alcoliche alla Waits, ha arricchito il suo repertorio - letterario, oltre che musicale - di un'umanità chiassosa e colorata. Ritratto di uno spiazzante protagonista della musica d'autore contemporanea

di Claudio Fabretti

Vinicio Capossela è un onnivoro gourmet della canzone. Rabdomante senza requie - secondo la sua stessa definizione - insegue insaziabilmente suoni, storie, culture e personaggi di ogni epoca, riuscendo sempre a fagocitarne l'essenza, l'odore, il fascino, attraverso una sorta di bizzarra sospensione del tempo e dell'incredulità. Conte e Waits, i languori latinoamericani e la polvere dei Balcani, le polke e i rebetici, Louis Prima e il jazz, Weill e le feste paesane: tutto convive e si trasfigura per incanto in un canzoniere straripante e universale, eppure sempre inconfondibile, grazie anche alla qualità letteraria dei suoi geniali testi, che gli ha consentito di avviare una fortunata carriera parallela di scrittore. Pluri-premiato (quattro Targhe Tenco) e ormai venerato quasi incondizionatamente dalla critica, Capossela è il miglior cantautore italiano della sua generazione, ma soprattutto uno dei pochi artisti totali che la scena nazionale abbia espresso negli ultimi anni.

All'ultimo anno di superiori scoprii Tom Waits. Mi misi ad ascoltarlo in classe, con il walkman, e da quel momento terminò il mio flirt con la chitarra elettrica e i gruppi rock: il mio interesse si spostò sul contrabbasso, sul sassofono, ma non era semplice trovare gente interessata a battere questa strada, perché tutti seguivano il rock.
(Vinicio Capossela)


La gavetta dell'emigrante


Vinicio CaposselaTedesco di nascita (Hannover, 14 dicembre 1965), irpino d'origine (il padre, Vito, è di Calitri, la madre, Antonietta, di Andretta) ed emiliano d'adozione (tra Reggio, Parma e Modena), Vinicio Capossela ha conosciuto la dura gavetta dell'emigrante, facendo del randagismo una filosofia di vita. Anche se le sue radici sono ben piantate nella terra paterna, Calitri, valle dell'Ofanto, "Il paese dei Coppoloni", cui dedicherà un libro e un intero album (Canzoni della Cupa, 2016). "Un luogo d'epos omerico che per lui ha la stessa valenza di Macondo per Gabriel Garcia Marquez in Cent'anni di solitudine", come ricorda Massimo Padalino ("Il ballo di San Vinicio").
Nella fredda Hannover, invece, i Capossela sono una delle tante famiglie di katzelmacher, di fabbricanti di cazze (utensili in legno da cucina), come i tedeschi chiamavano spregiativamente i pangermanici, i "terroni italiani" approdati nella terra d'Odino. Il padre Vito, però, è il detentore del talento istrionico di famiglia: chiama il figlio Vinicio in omaggio al protagonista del kolossal "Quo vadis?" (Marco Vinicio) e al celebre fisarmonicista omonimo, autore di molti dischi per la Durium negli anni Sessanta. Un nome artistico, molto più di quello che inizialmente doveva toccargli in sorte: Vincenzo.
Vivrà solo un anno in Bassa Sassonia, il piccolo Capossela. Perché la sua terra d'adozione è qualche chilometro a sud, Scandiano, paesino dell'Appennino reggiano. Un'Emilia molto rurale e poco paranoica: è qui che si trasferisce con la famiglia dal 1966.

Talento istintivo fin da giovanissimo (a undici anni suona l'organo), Capossela junior frequenta per breve tempo il Conservatorio, quindi debutta sorprendentemente in una band hard-rock (gli Hurricane), prima della folgorazione che lo segnerà per sempre. Quella del messia Tom Waits, che gli appare tra i solchi di "Foreign Affairs", in particolare con "Burma Shave", una canzone-feticcio che lo ossessionerà come un mantra. L'orco di Pomona gli indica la via. E l'imberbe Vinicio la segue con convinzione. "Ero all'ultimo anno di superiori - racconterà - mi misi ad ascoltarlo in classe, con il walkman, e da quel momento terminò il mio flirt con la chitarra elettrica e i gruppi rock: il mio interesse si spostò sul contrabbasso, sul sassofono, ma non era semplice trovare gente interessata a battere questa strada, perché tutti i giovani seguivano il rock".
Terminate le superiori come perito chimico (titolo che gli servirà soprattutto per sperimentare le sue alchimie artistiche), si iscrive all'università e forma con la compagna dell'epoca il duo dei Blue Valentine (lui al piano, lei alla voce), esibendosi nei club per due anni (1986-'88) con una serie di standard internazionali, da Tenco a Gershwin. Prosegue poi in versione solista sulla riviera romagnola e, per un periodo, a New York, dove si trasferisce per assorbire le cento voci musicali della Grande Mela: il jazz, in primis, e poi i grandi interpreti. Ma più che ai crooner classici alla Frank Sinatra e Bing Crosby, lui guarda agli States italoamericani incarnati dal ruspante Louis Prima, a quello slang improbabile, figlio di migranti cafoni passati da Ellis Island e metabolizzati a fatica dal Nuovo Mondo. Il suo futuro Vic Damone ne sarà la naturale reincarnazione.

I modelli più evidenti delle sue prime canzoni sono naturalmente i blues aspri e deliranti di Waits, ma anche le fumose atmosfere jazzy di Paolo Conte e le ballate dolenti di Luigi Tenco, idolo del padre, insieme ad Adriano Celentano. Un miscuglio intrigante, che non sfugge alle orecchie attente di Francesco Guccini, incrociato da Vinicio al bar del Teatro Ariston, in occasione di un Premio Tenco. Il Maestrone lo invita a casa, a Bologna, in via Paolo Fabbri 43. Ascolta i suoi nastri e intuisce il talento che si nasconde dietro quelle cassettine gracchianti. Così mette Capossela nella mani dell'amico Renzo Fantini, che diverrà il suo produttore. Lo porta al Club Tenco e spiana la strada al debutto discografico di quel bizzarro menestrello al pianoforte.

Ritratto dell'artista da giovane

Vinicio CaposselaIngaggiato dalla Cgd, Capossela pubblica il suo primo Lp, All'una e trentacinque circa (1990), un titolo che è tutto un programma: è l'orario in cui cantava al Pjazza (storico club di Bellaria Igea Marina), mentre le cameriere rimettevano a posto il bar. Una specie di risposta ruspante a 'Round Midnight.
L'album mette subito in luce la peculiarità del suo stile e gli vale proprio il Premio Tenco come migliore opera prima. Il merito è anche degli arrangiamenti calibratissimi di Antonio Marangolo e di una pattuglia di musicisti del giro di Conte, che riescono a trapiantare quel mood indolente, sornione e swingante in canzoni sempre ben confezionate, pur nella loro semplicità. Seppur non ancora ricchi e geniali come nei lavori successivi, i testi evidenziano un approccio curioso e sagace, fortemente ispirato, all'epoca, dalle letture di Tondelli.
Colpiscono al cuore ballate esistenzialiste di disarmante sincerità e malinconia, in buona parte pennellate al piano, come "Resta con me", "Una giornata senza pretese" e "Stanco e perduto" (il suo primo brano, composto qualche anno prima), oltre al sontuoso tango per bandoneon di "Scivola vai via". Storie di notti insonni e di sbronze, di amori perduti e di solitudini, di bar e di strada. Istantanee fedeli dell'universo caposseliano dell'epoca.
Il lato più giocoso dell'istrione si esalta invece in numeri di contagioso swing ad alto tasso alcolico, come la demenziale "Pongo sbronzo" e la trascinante title track, che strizza l'occhio al Sergio Caputo di "Sabato italiano", con la sua incredibile orgia di cocktail: "Chimay, Bacardi Jamaican rhum/ White Lady, Beck's bier, tequila bum bum/ Dry gin, Charrington, Four Roses Bourbon". "The Piano Has Been Drinking (Not Me)", si sarebbe scagionato Tom Waits.
Nel complesso, un esordio coi fiocchi che segnala subito il nome del cantautore nato a Hannover tra le migliori promesse della nuova canzone d'autore italiana.

In un bar molto cattivo
luce verde sul bancone
lei ha i tacchi rossi e balla male
ma al cliente che la ronza
mostra lenta la patonza
ma si vede che ha la panza
("Notte newyorkese")


...e allora mambo!


Nel 1991 esce Modì, opera seconda intitolata con un gioco di parole che richiama sia il termine francese "maudit", sia (soprattutto) il nome del pittore livornese Amedeo Modigliani, al quale il lavoro è dedicato. "Modigliani è stato per me quello che Jim Morrison è stato per altri - rivelerà Capossela - Impersonava ai miei occhi un'idea di vita, oltre che di arte. E poi la bellezza con cui sublimava la tragicità delle figure ritratte. La bellezza in cui era sublimata la sua stessa vita".
Un disco di storie d'amore tragiche, che vanno oltre la morte, secondo lo stesso autore, che spiega così anche la scelta del nudo in copertina. Eppure a fare la fortuna di Modì saranno soprattutto brani scanzonati e infarciti di ritmo, come "La regina del Florida" (magnifico ritratto di femme fatale un po' stagionata), "Notte newyorkese" (ancora nel solco di Waits) e "... e allora mambo!", presentato nella trasmissione televisiva "Su la testa" di Paolo Rossi, in onda in quell'anno su Rai 3, e poi inserito nella colonna sonora dell'omonimo film di Lucio Pellegrini (1999).
Si conferma il talento di Capossela nel confezionare ballate autobiografiche, come la struggente title track posta in apertura, la toccante "Pasionaria" o la morbida e latineggiante "Ultimo amore", con le sue trombe messicane sugli scudi. Un idillio, quello con l'America Latina, che resterà e si consoliderà nelle produzioni successive.
Le canzoni di Modì sembrano uscite da qualche vaporoso piano-bar di provincia, intrise di sentimenti, poesia e humour. Anche l'estro del Capossela paroliere comincia ad affiorare sempre più prepotente, attingendo spesso, proprio come il maestro di Pomona, dalle storie notturne delle sue esperienze nei club: "In un bar molto cattivo/ luce verde sul bancone/ lei ha i tacchi rossi e balla male/ ma al cliente che la ronza/ mostra lenta la patonza/ ma si vede che ha la panza/ rughe cosce lifting trucco/ è una vecchia di sostanza", canta in "Notte newyorkese"; "I bagni son zeppi di fumi e ricordi/ che tornano strani e più vivi/ di lei che è lontana/ ma forse m'aspetta/ e vorrebbe qualcosa di più su tutto questo/ la Regina serve al bar/ sembrerebbe che non si possa toccar", racconta in "La regina del Florida" (dal nome dell'omonimo locale modenese). Ma il suo istrionismo oscuro e visionario resta ancora un po' ingabbiato negli arrangiamenti "puliti" di Marangolo e nella produzione del clan di Fantini, indubbiamente influenzata dallo stile di Conte.

Lo stesso Modì fornisce la colonna sonora per il film "Non chiamatemi Oscar" di Staino e Altan, in cui lo stesso Capossela si cimenta in una piccola parte. Il successivo impegno è rappresentato dalle musiche per lo spettacolo teatrale di Paolo Rossi "Pop e Rebelot" del 1993 (la collaborazione tra i due proseguirà con successo negli anni, tra teatro e tv).
Nello stesso anno partecipa al disco tributo, organizzato dal Club Tenco, e dedicato al grande chansonnier russo Vladimir Visotski, intitolato "Il volo di Volodja", con il brano "Il pugile sentimentale", destinato a diventare uno dei capisaldi del suo repertorio, grazie a una irresistibile combinazione tra struggente melodismo russo e ritmi vorticosi da brass-bandbalcanica.

Che cos'è l'amor
è la Ramona che entra in campo
e come una vaiassa a colpo grosso
te la muove e te la squassa
ha i tacchi alti e il culo basso
la panza nuda e si dimena
scuote la testa da invasata
col consesso dell'amica sua fidata
("Che coss'è l'amor")

Vinicio CaposselaLa definitiva consacrazione arriva però nel 1994, quando Capossela pubblica Camera a Sud, che è anche il suo ultimo disco arrangiato da Marangolo e il primo pubblicato all'estero, in Francia. Un lavoro in cui l'artista di origine irpina comincia a dare maggiore enfasi ai ritmi ubriacanti del suo Meridione, alle canzoni popolari apprese dal suo nume Matteo Salvatore (cui poi nel 2016 dedicherà un album intero), alle danze di paese (la spassosissima "Zampanò", che però già profuma di Balcani), così come ai riferimenti musicali latinoamericani, in numeri trascinanti come "Guiro" e la memorabile "Che coss'è l'amor", una metafora amara e dissacrante della vita sentimentale in tutti i suoi risvolti più bizzarri: diventerà uno dei suoi cavalli di battaglia grazie anche a un testo geniale, in cui brillano esilaranti squarci d'umanità: "Che cos'è l'amor/ è la Ramona che entra in campo/ e come una vaiassa a colpo grosso/ te la muove e te la squassa/ ha i tacchi alti e il culo basso/ la panza nuda e si dimena/ scuote la testa da invasata/ col consesso/ dell'amica sua fidata". A regalare ulteriore popolarità alla canzone sarà anche il suo inserimento nella colonna sonora di "Tre uomini e una gamba", film con Aldo Giovanni e Giacomo.
La musica di Vinicio continua a vivere d'euforiche contaminazioni, tra swing e mambo, tango e twist, marce e ballate. Ma i ritmi originali sono sempre stravolti e rielaborati, nel segno delle contaminazioni più trasversali e dello humor più dissacrante. Spinge l'acceleratore sul ritmo anche la funkeggiante "Il fantasma delle tre", mentre altri episodi mantengono l'impostazione più intimista e cantautorale degli esordi, dalla malinconica "Non è l'amor che va via" a "Il mio amico ingrato", da "Tornando a casa" alla struggente ballata della title track, una languida bossanova da lucciconi. E resta sullo sfondo il tema del viaggio, affrontato con sguardo quasi cinematografico (la nostalgica "Ma l'America") o con spunti autobiografici (il ritratto di "Amburgo", griffato dalla tromba di Paolo Fresu).
La liaisonfrancese non si limita alla pubblicazione dell'album: Capossela, infatti, si esibisce al Theatre de la Ville di Parigi, nel 1995. Un gran concerto, ma non gli basterà per sfondare oltralpe: dovrà scendere a Sud, per trovare il vero successo.

Mi venne il ballo di San Vito, non ebbi più fissa dimora e cercai di parlare del fuoco con la mano sinistra dentro un braciere. Erano tutte vicende personali, nel momento in cui accadevano.
(Vinicio Capossela)


Il crooner tarantolato

Vinicio CaposselaIl 1996 è un anno di lacerazioni e stravolgimenti. Capossela lo racconta così: "Fu un periodo in cui mi presi molti rischi e sfasciai tutto quello che avevo costruito fino ad allora. E questo perché ascoltai Jeff Buckley, lessi Sulla strada, distrussi un matrimonio, iniziai a frequentare Chinaski e Rastafari, cercai per una volta di essere giovane, nel momento in cui la gioventù è più feroce, il momento in cui sta morendo. Allora mi venne il ballo di San Vito, non ebbi più fissa dimora e cercai di parlare del fuoco con la mano sinistra dentro un braciere. Erano tutte vicende personali, nel momento in cui accadevano".
Con "Chinaski" (l'amico poeta e ispiratore Vincenzo Costantino), Capossela organizza anche un reading sullo scrittore italoamericano John Fante, che diventerà un altro suo riferimento cruciale. Seguirà un altro reading, stavolta solista, di nome "Accaniti nell'accolita".

Le turbolenze della vita privata si riflettono anche nelle scelte musicali. Capossela non rinuncia alla produzione di Fantini, ma cambia tutto il resto: congedato Marangolo, affida la direzione musicale a Luciano Titi, mentre al mixer viene chiamato Carlo Alberto Rossi, uno dei protagonisti della nuova scena torinese dei Murazzi, così come Davide Graziano e Cato Senatore. Ma la vera svolta è nei due ospiti americani: Evan Lurie, rinomato jazzista nonché fondatore dei Lounge Lizards, e l'immenso Marc Ribot, uno dei chitarristi più ricercati al mondo, che Vinicio aveva avuto modo di apprezzare anche al fianco di Waits.
Ne scaturisce un album potente e visionario, Il ballo di San Vito (1996), che consolida il suo repertorio, accentuando l'attenzione per le tradizioni della canzone popolare italiana e mediterranee in genere.
La melodia lascia spazio a toni aspri e dissonanti, ma soprattutto al ritmo, vero protagonista dell'album. In un clima di sagra paesana, tra balli e canti di antiche contrade, si ambienta anche il pandemonio della title track: una scarica di adrenalina vorticosa che si propaga in tutto il corpo, proprio come un fuoco, in un magistrale connubio di musica, modulazione della voce e testi, che si fondono e trasmettono la vibrazione della tarantola: è il "Ballo di San Vito", nome volgare attribuito a una malattia dagli effetti contagiosi.
Capossela si conferma ancora cantore delle storie di vita comune, di giornate "senza pretese", di giovani di periferia, di racconti in bilico tra dramma e ironia. "Al Veglione" è un delizioso quadretto di una festa di capodanno in un piccolo paese del Meridione, rimasto nella memoria di un bambino e rappresentato come fosse un'istantanea da un film di Federico Fellini; "Le case" suggella il ritorno alla piano-ballad; l'inesorabile "Pioggia di novembre" sprigiona umori mesti e malinconici.
Ma non mancano anche scampoli di reggae ("Body Guard"), distillati purissimi di struggente morna capoverdiana ("Morna"), quadretti d'irresistibile humor caustico (il ritratto dei vecchietti impuniti de "L'accolita dei rancorosi" e l'indimenticabile "Corvo torvo", i due episodi più waitsianidel disco) e un'altra pantomima paesana esilarante come "Contrada Chiavicone", sorretta da un ritmo sempre più nervoso e incalzante.

È stata una serata memorabile tanto che il giorno dopo nessuno riusciva più a ricordarla. È durata cinque ore: alla fine i netturbini avranno pensato di sognare vedendo uscire, nel cuore della notte, un corteo strombazzante con alla testa un cantante in colbacco.
(Vinicio Capossela su "Liveinvolvo")


La fama di questo impareggiabile narratore musicale cresce, così come l'interesse per il suo universo curioso ed eccentrico. "I suoni fanno da sfondo al mio mondo immaginario - spiega Capossela - Un mondo pieno di guai, affollato di guitti stralunati, strade chiassose e vecchie macchine". Con le quattro ruote, del resto, Capossela ha un rapporto intimo, nato negli anni in cui vagabondava lasciando come indirizzo il numero di targa e rifugiandosi in officine, pompe di benzina e, soprattutto, nella sua auto. "La macchina è il nostro transatlantico/ confortevole e familiare.../ è la nostra protesi", canterà in "Liveinvolvo", title track del suo primo disco dal vivo. Ed è proprio una di quelle vecchie Volvo con i sedili in cuoio a dare il titolo a Liveinvolvo (1998), straripante testimonianza di una notte di canzoni e follie. "È stata una serata memorabile - racconta il suo artefice - tanto che il giorno dopo nessuno riusciva più a ricordarla. È durata cinque ore: alla fine i netturbini avranno pensato di sognare vedendo uscire, nel cuore della notte, un corteo strombazzante con alla testa un cantante in colbacco".
Ma l'album segna anche un'ulteriore crescita di questo "guitto al pianoforte" che ora si fa chiamare Vic Damone e che sembra quasi la caricatura di un cantante di piano-bar. La sua musica si fa più febbrile e complessa, tra ballate liquide al piano (tra le quali anche le belle cover dell'evergreen "Estate" di Bruno Martino e della "Cristal" di João Gilberto), blues sporchi e pieni di clangori nel consueto stile di Waits e cupe progressioni sonore. In scaletta trova posto anche un inedito, "Scatà scatà (Scatafascio)", sigla dell'omonimo programma in cui Capossela farà il suo debutto televisivo.
La sua voce è sempre carica, ruvida come una grattugia. Ma la vera sorpresa è la fanfara di ottoni della macedone Kocani Orkestar, che infiamma cinque brani. La presenza della gypsy brass-band balcanica aggiunge un ulteriore tocco di fragore e sentimentalismo ai suoi brani. Una formula riproposta in un nuovo ubriacante tour, che frutta al cantautore nuovi consensi di pubblico e critica.
Griffato dal celebre gallinaccio in copertina, Liveinvolvoè sicuramente uno dei lavori imprescindibili nella discografia del cantautore nato a Hannover.

Un disco dedicato ai pionieri aerostatici, ai temerari, ai marinai in bottiglia, a Céline, al revolver di Jarry e in generale a tutti quelli che hanno avuto il coraggio di buttarsi.
(Vinicio Capossela su "Canzoni a manovella")


L'ultimo Capodanno del Novecento

Vinicio CaposselaCapossela trascorre i successivi due anni tra vicoli e bar di provincia, tra le storie semplici della vita comune e le grandi avventure musicali, come l'incontro con la musica di Jimmy Scott. Nel frattempo si cimenta anche in un'opera ambiziosa: la sonorizzazione di "Tempi moderni", il capolavoro di Charlie Chaplin.
Una maturazione artistica che giunge a compimento nel 2000, con un album monumentale: Canzoni a manovella. "È un disco di canzoni immaginarie - spiega Capossela - di cose che vengono dal profondo, che affiorano in scafandro e cilindro, un lavoro fabbricato con mezzi espressivi come le tecniche aerostatiche di cui vado molto fiero. Abbiamo usato una strumentazione composta di grancasse, orchestra sinfonica, piani chiodati, rullo, trombe, turbanti, sollevatori bulgari".
Canzoni a manovella è una di quelle opere che riescono a cogliere l'attimo e a cristallizzarlo per sempre. L'attimo in cui, come un moribondo, il Novecento riavvolge l'intero nastro del suo film prima che il sipario cali, portandosi via il suo campionario di personaggi, epoche, invenzioni, tradizioni e stili culturali. E, dietro le quinte, lui, il palombaro-Capossela, immerso nel suo scafandro a caricare la manovella di questa macchina del tempo che confonde passato e futuro in una epopea da "Ventimila leghe sotto i mari". Paradossale, per uno che voleva diventare solo un "cantante confidenziale".
Forse tutto era cominciato con la sbornia del Liveinvolvo, in compagnia dei mariachi gitani della Kočani Orkestar. Certo, c'erano già stati la vampa di Tom Waits a infiammare balli di San Vito e altri deliri, le pantomime paesane, i corvi torvi e le contrade Chiavicone. Ma è da quel live in poi che Capossela sposta definitivamente la barra verso l'etnomusicologia bulimica. Alle Canzoni a manovella giunge dopo un lungo girovagare in un piccolo mondo antico, che spazia dal Sud del Mediterraneo all'Est dell'Europa, dalla Macedonia di Milcho Manchevski (il regista di "Prima della pioggia") alla favolosa Istanbul, dai rebetici di Salonicco alle polke di Varsavia. Ma a far scoccare la scintilla è anche la lettura dei romanzi di Ferdinand Céline che, con il loro spaccato desolante e iperbolico della condizione umana, trascinano Capossela in quello zeitgeist oscuro di un'Europa lacerata dalle guerre, ma pervasa da un febbricitante anelito pionieristico. Proprio come l'ineffabile Courtial des Pereires, che in "Morte a credito" s'inventa un pallone aerostatico di nome Zelante; oppure Bardamù, il medico protagonista di "Viaggio al termine della notte", cui è dedicata l'omonima, splendida ballata con piano a rullo, archi, grancassa e il fatidico coup de canon finale, a evocare l'inizio di una nuova era: "La notte è passata e le nuvole/ gonfiano schiuma di Baltico e cenere". A un altro temerario della letteratura, Alfred Jarry, padre del ciclo di Ubu e della patafisica, è invece dedicata l'inquietante marcia del "Decervellamento", inno alla gogna meccanica del perfido Ubu con un arrangiamento straniante alla Brecht-Weill.
Ma il Novecento, si diceva, è anche secolo di guerre e di tragedie, come quella degli ebrei deportati ad Auschwitz, testimoniata da "Se questo è un uomo" di Primo Levi. Uno spettro che squarcia il clima apparentemente festoso di "Suona Rosamunda", in cui il celebre motivetto "Rosamunda" si tramuta nella tortura inflitta alla protagonista, prigioniera degli aguzzini nazisti e costretta a suonare e danzare in quella giostra degli orrori. Un brano che profuma di spezie yiddish, grazie al contributo dell'ebreo newyorkese Marc Ribot alla chitarra e al violino suonato da Edoardo De Angelis.
In principio era la Manovella, l'innescamotore, ma anche la necessaria carica di aggeggi ambulanti che bruciano l'aria di melodie familiari. Le canzoni si riempiono così di bottigliofoni, fisarmoniche giocattolo, grancasse sinfoniche, piani chiodati a rullo, trombe a grammofono, onde martenot, violini a tromba, sberleffi timbrici tra il circo e l'osteria. Ed ecco, allora, irrompere il più cialtronesco dei "Marajà", per un pandemonio balcanico in cui le "Mille e una notte" si trasformano in un film rocambolesco di Kusturica ("Si scompiscia si sganascia si oscureggia il Marajà/ raglia tutta la marmaglia quando raglia il Maraja/ sguaian forte i commensali/ versan gli otri ed i boccali"). Il circo è una delle attrazioni fatali di Capossela, affascinato dalla maschera imbrattata di cerone dei "Pagliacci", ritratti in una pantomima in ¾ condotta da un piano saltellante e da un harmonium a pompa.
Il piglio circense non scompare neanche negli episodi più cupi, riletti sempre attraverso uno humor caustico. Come nella delirante funeral song della "Marcia del camposanto", ode alla superstizione religiosa del Sud, affollata di un'inquietante umanità (i becchini, il sagrestano, la materdomina, la mammanonna, l'arciprete, la marescialla zoppa di guerra) e di una non meno sinistra compagnia di uccelli e animali notturni (in cui compare una delle future bestie selvatiche della Cupa, la malogna, sorta di grosso tasso che popola la valle dell'Ofanto). Un irresistibile antipasto noir per il futuro Paese dei Coppoloni, condito dagli ottoni inconfondibili di Roy Paci.
Lo spirito irridente marchia anche la prima infatuazione rebetika del "Contratto per Karelias" che si strugge nei fumi malinconici delle sigarette George Karelias and Sons prodotte a Kalamata, per una storia d'amor perduto adattata da una canzone del re del Pireo Markos Vamvakarias. Ma i Balcani sono anche terra di guerre, come quella che insanguina il Kosovo: Capossela la coglie attraverso un particolare, un treno nero che sfreccia tra le bombe, come quel soldato in fuga verso un'alba impossibile e una sposa dal velo squarciato che non tornerà (l'angosciosa "Corre il soldato", tutta giocata sul dialogo tra i soliti ottoni, l'assolo di Giancarlo Bianchetti alla chitarra e il banjo di Ribot).
La filastrocca marinata della title track segna invece il primo tuffo in quell'universo lessicale salmastro che diventerà un leit-motiv del Capossela a venire, con una serie di rime fulminanti: "Il tempo è un alambicco/ che piano piano ci cola a picco", "un lampo brillò a squame/ nell'abisso di verderame", "si butta il palombaro/ con la sua tuta da calamaro". Ma marinati sono anche i suoni, dalla "chitarra sirena" di Ribot, amplificata dall'e-bow, al fragore delle bottiglie usate come percussioni, dagli ottoni fatti ripassare in un tubo per ottenere un effetto subacqueo al sonar e agli altri effetti da sommergibile. E nella ciurma dei cori finali spunta finanche Manuel Agnelli degli Afterhours.
Poi, c'è l'immancabile capitolo delle ballate. La malia gitana del tango "Solo mia" nasce da un adattamento della macedone "Bilo cija" della Kočani Orkestar. Il valzer fiabesco dei "Pianoforti di Lubecca", allestito insieme a Pascal Comelade per piano, toy piano e rullo di Edison, si arricchisce del canto della soprano giapponese Mayumi Torikoshi, per raccontare l'incanto dei vecchi pianoforti abbandonati in una fabbrica di polvere da sparo, che una sera iniziano a parlare e a suonare vecchi notturni demodé. La serenata bluesy di "Signora luna" scaraventa le suggestioni leopardiane in un western metafisico alla "Dead Man", grazie alle chitarre spettrali di Ribot e al contrabbasso ossessivo di Ares Tavolazzi. Il valzer zuppo di malinconia e di archi di "Nella pioggia" è un'ode all'amatissima Milano, che "brilla di ferro e binari", con il viavai incessante dei suoi tram e dei suoi treni. La conclusiva "Resto qua" è invece l'istantanea da groppo in gola della fine di uno spettacolo, tra archi filtrati da un vecchio grammofono, suoni di giostra e fuochi d'artificio. Infine, la struggente rumba anni 50 di "Con una rosa" è in realtà un'outtake: non era una canzone a manovella, ma Capossela la aggiunge ugualmente in scaletta, rapito dalla sua grandeur melodica, che scivola maestosa tra congas, archi e chitarre jazzate.

Vinicio Capossela guarda il mondo da un oblò (vedasi copertina) e ne restituisce un'immagine di straripante creatività felliniana, assistito da una pattuglia di musicisti di lusso e dalla regia sapiente di Tommaso Vittorini, orchestratore e arrangiatore dell'album. Monumentale e certamente non facile, ma fabbricato con mezzi espressivi più leggeri dell'aria, Canzoni a manovella è il grimaldello con cui Capossela scardina le ultime resistenze di una critica che da qui in poi inizierà a venerarlo quasi incondizionatamente.

Nel 2003 esce anche la sua prima raccolta, L'Indispensabile. Un'iniziativa che il cantautore di Hannover mal digerisce: "Motivi oscuri governano le costellazioni discografiche - sottolinea -; io ho detto alla mia che avevo tre cd pronti, ma loro mi hanno risposto che era meglio far prima un riassunto del passato... Quando in seno alla casa discografica è nata l'esigenza di questa pubblicazione non l'ho presa bene, ho iniziato a toccarmi e fare scongiuri, insomma, la sentivo un po' prematura, ma alla fine me ne sono fatto una ragione, e, se proprio un'antologia deve uscire, mi sono detto, meglio che sia da vivi...".
Tra le diciotto tracce, classici come "Il ballo di San Vito", "Marajà", "Che cossè l'amor", "...e alllora mambo", "All'una e trentacinque circa", "Con una rosa", "Modì", "Scivola vai via", più un prezioso inedito: una bellissima cover di "Si è spento il sole", pezzo inciso nel 1958 da un giovanissimo Adriano Celentano e trasfigurato da Capossela in chiave quasi tex-mex alla Calexico.

Dov'è che siam restati soli Nutless
dov'è che i muri si sono chiusi addosso
muri che avevamo costruito nella sabbia e per la sabbia
forse per avere ancora a tiro l'onda
("Dove siamo rimasti a terra Nutless")


Mollare gli ormeggi

Vinicio CaposselaNel 2006 esce Ovunque proteggi, primo album di inediti in sei anni. Per celebrare l'evento, l'italiano di Hannover ha voluto passare anche in cabina di produzione e si è circondato di un supercast, con musicisti come Mario Brunello (violoncello), Roy Paci (tromba), Marc Ribot (chitarre), Stefano Nanni (piano), Ares Tavolazzi (ex-Area) al contrabbasso e Gak Sato all'elettronica.
Il circo di mastro Vinicio, dunque, riapre i battenti, e lo fa "Dalla parte di Spessotto" (un inno all'infanzia vissuta da "loser", se non proprio da lucignolo). Titolo bizzarro per un singolo che rinnova il motteggiare farsesco dell'album precedente con un testo - tanto per cambiare - esilarante. Capossela gigioneggia da par suo tra ritmi saltellanti e divertissement vari. Sembra quasi un'altra "canzone a manovella", ma affiorano anche i primi foschi presagi ("L'oscurità/ come un gendarme già/mi afferra l'anima") di ciò che seguirà. All'euforico affresco futurista delle Canzoni a manovella, succede infatti un viaggio oscuro e minaccioso, tra incubi e intemperie. Fin dalla terminologia usata è evidente il contrasto tra la dimensione fisica, corporea (sangue, carne, teste, mascellate, ossa, cosce, budella, cervella...), e uno slancio mistico (anime, benedizioni, crocefissi, sudari, rosari...) inedito nel canzoniere caposseliano. Le tredici tracce sono a loro volta un pellegrinaggio nello spazio-tempo, tra luoghi mitici (Troia, il Colosseo degli antichi romani) e reali (la Mosca post-socialista, l'Asia di "Lanterne Rosse"). Un percorso affannoso in cerca di requie e protezione, come traspare dal titolo stesso dell'album.
Si parte con "Non trattare", nenia arabeggiante che lambisce certo misticismo delirante alla Ferretti (la fonte è un salmo dalle Scritture), prima di sprofondare subito nel baratro di quella "Brucia Troia" che Vinicio voleva come singolo perché "avrebbe spopolato nei programmi di dediche radiofoniche" (!) e che è invece un deliquio orrorifico sul mito omerico, registrato nella Grotta Carsica di Ispinigoli in Sardegna, insieme a Ribot e a tre tenori sardi. Altrettanto truce è la rievocazione dei riti circensi romani di "Al Colosseo" (un omaggio all' "In The Colosseum" del maestro Waits, con il solito declamare farneticante di Capossela su un tappeto di trombette e rulli di tamburi alla "Ben Hur".
Tra le novità del disco, un uso più marcato dell'elettronica portato in dote dal guru Gak Sato, tangibile soprattutto in "Moskavalza", techno-souvenir della metropoli russa, affogato in fiumi di vodka e giocato su un divertente pastiche di assonanze testuali. Non mancano, comunque, tuffi nel passato più "godereccio" di Capossela, quello che vive di cazzeggi cha-cha-cha come quello della "Medusa", delle baldorie da festa paesana di "L'uomo vivo" e di fastosi music-hall alla Broadway ("Nel blu"). E resta - oltre alla stella polare-Waits - il baffo del Conte più jazzy a far capolino con la sua orchestrina dixieland tra le note della nostalgica (e deliziosa) "Dove siamo rimasti a terra Nutless", una riflessione sul tempo e su come lo viviamo, tra inerzia e azione, che omaggia "C'era una volta in America" di Sergio Leone, citando il personaggio di Noodles: "Dov’è che siam restati soli Nutless/ dov’è che i muri si sono chiusi addosso/ muri che avevamo costruito nella sabbia e per la sabbia/ forse per avere ancora a tiro l'onda". Versi che richiamano la scena in cui Noodles, in riva al mare insieme a Max, dice all'amico di considerare una pazzia il suo voler rischiare per arricchirsi ancora.

Melodicamente meno ispirato di Canzoni a manovella, Ovunque proteggi paga dazio soprattutto nelle ballate (il traditional messicano di "Pena da l'alma", la pianistica "Lanterne rosse" e la stessa title track finale), calando un po' alla distanza dopo l'avvio pirotecnico. Ma Capossela si è tenuto l'asso nella manica e se lo gioca alla penultima traccia, con "S.S. dei naufragati: climax drammatico dell'album, ispirato al "Moby Dick" di Melville e alla "Ballata del vecchio marinaio"di Coleridge (e già inciso in un disco della Banda Ionica). Una litania per violoncello, armonium, coro e theremin, che si leva in cielo dalla stiva di un vascello sommerso dai flutti, tra legni fradici e spiriti di morte.
Folle, disordinato, perfino sovraccarico di idee e di suoni, Ovunque proteggi è l'album più coraggioso che Capossela potesse fare dopo il botto di Canzoni a manovella. I pochi passaggi a vuoto si possono perdonare al cospetto di tanta creatività e intraprendenza.

Nel successivo Da solo (2008) Capossela immette ancor più varietà narrativa: a essere messa in musica è una ricchezza di gioie e dolori, l'amore e la guerra, il circo, il Natale e finanche i calzini perduti. Come a voler tirar fuori tutto quel che si ha dentro in quell'attimo. Che si cada in più di un momento di noioso deja vù è pertanto un effetto perverso: "In clandestinità" cita "Nutless", "Vetri appannati d'America" cita "Bardamù", "Il paradiso dei calzini" cita "Buonanotte fiorellino".
Quanto al suono, i tanti stili si limitano semplicemente a essere tali, non implementando i contenuti ma limitandosi a dargli un vestito. È il caso della ruspante big band di "Una giornata perfetta" o del noir pianistico di "Dall'altra parte della sera". A conferire più spessore sono magari gli ospiti, come i Calexico, che aggiungono colore a mezzo fiati a "La faccia della terra", o magari ancora la felice ispirazione da "Deserter's Song" di "Sante Nicola".
È l'infinito numero d'epica circense "Il gigante e il mago" a fotografare i problemi del disco, impantanandosi in fossi di stucchevolezza fanciullesca. Nuove vie apre, invece, "Parla piano", metà tenchiana e metà sanremese, che presenta l'inciso melodicamente più aperto dell'intero repertorio caposseliano.
Certo, come ogni disco incompleto che si rispetti, non mancano punte di alta levatura. Sono due elegie, due incroci di passione e disperazione: "Orfani ora" e "Lettere di soldati". Le morbide note della buona "Non c'è disaccordo nel cielo" non fanno altro che aumentare l'amarezza per ciò che poteva essere e non è.
Capossela s'è fermato a buttare uno sguardo sul mondo, interiorizzando ed esteriorizzando emozioni, mettendo un po' in cantina l'ironia per parlare in modo più diretto. Da solo è più il disco di un cantautore che di un musicista, un po' come fu per il Nick Cave di "No More Shall We Part": peccato che il risultato sia più un'involuzione che altro.

La frenetica attività dal vivo fornisce lo spunto per una documentazione filmata, come nel caso dei due live Nel niente sotto il sole (2007) e Solo show (2009).
E nel frattempo proseguono anche le attività extra-musicali, che acquisiscono un peso sempre maggiore nel suo percorso di artista senza frontiere. Già nel 2004 aveva pubblicato il suo primo romanzo, "Non si muore tutte le mattine", da cui aveva tratto uno spettacolo di teatro d'ombre e le Radiocapitolazioni trasmesse da Radio 3. Nel 2009, invece, fa uscire, sempre per Feltrinelli, "In clandestinità", firmato con l'amico-poeta Vincenzo Costantino "Cinaski", un libro che diventa poi un reading con un ring, un giudice, un pianoforte e loro due in scena, per un improbabile incontro di boxe, in cui parole e canzoni sostituiscono i pugni.

Nel 2010 esce The Story-Faced Man, un'antologia per il mercato internazionale, già pubblicata in Inghilterra e Irlanda dalla prestigiosa Nonesuch Records e negli Stati Uniti. La premessa a un tour che lo vedrà impegnato in Inghilterra, Stati Uniti e Canada. Uno sbarco internazionale in piena regola per Capossela che è stato già battezzato oltremanica, dal Sunday Times, come "Italy's greatest rock star" e dalla rivista Mojo come "Italy's most intriguing musical traveler".

E cosa atterrisce dell'aspetto dei morti
se non il pallore
Bianco sudario colore?
Spettri e fantasmi immersi in nebbie di latte...
E il mare nel suo richiamo abissale
Nell'Antartico, bianco sconfinato cimitero, il bianco
sogghigna nei suoi momenti di ghiaccio
Il pensiero del nulla si spalanca nella profondità lattea del cielo...
Bianca l'insonnia bianca, la morte bianca e bianca la paura è bianca
L'universo vacuo e senza colore
Ci sta davanti come un lebbroso
Anche questo è la bianchezza della balena
("La bianchezza della balena")


Caccia a Moby Dick

Vinicio CaposselaNel 2011, con Marinai, profeti e balene, Capossela torna alla sua forma migliore. Lasciato a riva ciò che restava del suo (già esiguo) senso della misura, l'ex-Corvo Torvo si imbarca addirittura in una "Marina Commedia". Opera epica, anzi "ciclopedica", suddivisa in due tomi-cd - "uno oceanico, l'altro omerico e mediterraneo" - in bilico tra musica e letteratura. Un musical teatrale, più che un album, lungo un'ora e mezzo e traboccante diciannove canzoni, intrise di miti, poesia e salsedine. Capossela, novello Ulisse, naviga tra vascelli fantasma, sirene, polpi, foche barbute, balene, squali bianchi, madonne delle conchiglie e serafini "con occhi di biglie". Un'odissea letteraria e, inevitabilmente, metafisica, a conferma dell'accresciuta vocazione spirituale del Capossela recente.
Il porto iniziale, allora, non può non essere il ventre de "Il Grande Leviatano", il terribile mostro marino descritto da Giobbe come "re su tutte le fiere più superbe" (Vecchio Testamento, 41, 1-20/ 24-27). Una declamazione lirica e solenne per piano, organo e coro, con testo tratto da un passo del "Moby Dick" di Herman Melville ("Ribs & Terrors in the Whale"), tradotto da Cesare Pavese.
Vinicio sembra essersi definitivamente votato a un music-hall universale, dove la canzone si fa teatro e viceversa. Così la recitazione e lo spoken word - inaugurati a partire da Ovunque proteggi - conquistano il proscenio. Con toni meno febbricitanti, salvo qualche ragguardevole eccezione, come l'apocalisse melvilliana di "I fuochi fatui" e soprattutto l'apologo maestoso e terrificante di "La bianchezza della balena", ispirato da un altro passo di "Moby Dick". È il capolavoro del disco, il suo climax lirico, con l'imponente coro delle voci bianche dei Mitici Angioletti ad acuire il pathos.
Più frequenti, invece, i momenti scanzonati: dalla filastrocca in "sirenese" di "Pryntil", una "In fondo al mar" uscita da un grammofono anni Trenta, con le Sorelle Marinetti sugli scudi (ma con l'ombra del Cèline di "Scandalo negli abissi" in agguato) al divertissement calibratissimo per xilofono e cori di "Lord Jim" (l'eroe fallibile di Conrad), dalla giga medievale di "L'oceano, Oilalà" alla ciondolante danza tra i tentacoli del "Polpo d'amor", distillato di nero inchiostro Calexico, passando attraverso i cori da taverna di "Billy Budd", un blues piratesco impreziosito dai ricami chitarristici di Marc Ribot, e il delirio noisy d'un Polifemo ubriaco, tradotto in geniale neologismo ("Vinocolo"), fino al liquido (e un po' scontato) "Calipso". Ma il baricentro del disco sta anche in episodi più scarni, piccole miniature melodiche rifinite a mano - l'elegia ancestrale di "Aedo", pizzicata sulle corde della lira a pochi passi dalla Grotta di Zeus (Creta), il carillon fatato della "Madonna delle conchiglie", protettrice dei marinai, la filigrana sottile di "Dimmi Tiresia", ode all'indovino imbevuta di dubbi amletici - a conferma del peculiare talento caposseliano nel lavorare di cesello.
Delude un po', invece, il lungo commiato di "Le Sirene", che si trascina stancamente tra piano, voce e violini, così come, in generale, tutti i pezzi che indulgono nella ballata, un formato nel quale Capossela da qualche tempo fa più fatica a eccellere.
Più del dettaglio conta l'insieme. Dopo il passo falso di Da solo, Capossela si riscatta con un'opera titanica e straripante, che l'ascolto su disco riesce solo parzialmente a restituire nella sua complessità: ancor più imperdibile, infatti, sarà la sua rappresentazione coreografica sui palcoscenici dei tanti teatri italiani dove la nave di Capossela attraccherà.

Con Marinai, profeti e balene, nell'ottobre 2011, Vinicio Capossela si aggiudica la sua quarta Targa Tenco, dopo quelle già conquistate per il debutto di All'una e trentacinque circa (1991), per Canzoni a manovella (2001) e Ovunque proteggi (2006). Praticamente un record, a conferma di un talento senza rivali nel panorama cantautorale contemporaneo.

Mentre il mondo guarda alla Grecia con il fiato sospeso per le note vicende legate alla crisi economica mondiale, Capossela le dedica un disco intero, che è molto più di un omaggio. È una ribellione interiore, la rivendicazione di una identità culturale che va oltre le contingenze dell'attualità. Un disco "suonato in greco", per debito nei confronti della terra che "ha donato al mondo la civiltà" e "una delle più straordinarie musiche urbane del mondo: il rebetiko". È propria questo genere, nato nella fiammeggiante Salonicco degli anni Trenta amalgamando la tradizione ellenica, bizantina e ottomana, l'ultima passione etnomusicale del gitano errante Capossela, ramingo dalle parti dell'Egeo in cerca di cetre, bouzuki e vecchi spartiti rimasti seppelliti sotto la polvere del tempo.
Registrato negli storici studi Sierra in Atene su nastro analogico, Rebetiko Gymnastas contiene quattro inediti, una ghost-track e otto classici caposseliani reinterpretati in chiave rebetika. Con un contorno di musicisti di tutto rispetto, con alcuni illustri rebetes greci, tra cui Manolis Pappos, gran maestro del bouzuki.
Convincono soprattutto gli inediti: "Rebetiko Mou" è un esercizio individuale di filosofia rebetika, con quelle indolenti cadenze tipiche anche del sirtaki, avviluppate in un suggestivo intrico di corde pizzicate; "Misirlou", affidata all'aspra voce di Kaiti Ntali, reinventa il più noto hit del genere, reso celebre in versione per chitarra elettrica nella colonna sonora di "Pulp Fiction"; "Abbandonato" è la libera interpretazione in lingua di un brano di Atahualpa Yupanqui, con il bouzouki sugli scudi; mentre "Cancion de las simples cosas" è una versione italiana dello struggente classico già interpretato da Mercedes Sosa e Chavela Vargas.
Scorrono via senza troppi sussulti, invece, i pezzi già editi, con la particolare eccezione di "Contratto per Karelias", che già nella versione originale attingeva all'immaginario rebetico rimodellando una canzone del greco Markos Vamvakarias e che qui si esalta nella cornice strumentale, perdendo però un po' di ritmo. La spiazzante ghost track, infine, è un inedito duetto italo-ellenico del brano "Come Prima" di Tony Dallara.
Dopo l'odissea di Marinai profeti e balene, l'approdo nel porto ellenico ha un sapore dolce e malinconico. Ma lo spread, per una volta, può attendere.

Alla Grecia dedicherà anche il film "Indebito" (2013) e il libro "Tefteri, taccuino dei conti in sospeso" (2013).

La Cupa è la contrada oscura, quella dove batte poco il sole, quella dove le cose si nascondono alla vista. Quella dove si consumano gli amori illeciti, quella dove si fanno vere le creature che si vogliono celare allo sguardo. Ad aprirgli la porta verranno a molestarvi, come hanno molestato me per tutti questi anni. A scavare la terra si arriva all’aurora del tempo. Fa paura, però anche incanta. Peggio per tutti.
(Vinicio Capossela su "Le canzoni della Cupa")


Un kolossal meridionale

Vinicio CaposselaNell'estate del 2013 Capossela presenta un nuovo spettacolo nel magnifico scenario di Villa Adriana, "Il Carnevale degli Animali e altre bestie d'amore", che lo vede protagonista insieme al Trio Amadei ed ai solisti della Vianiner Philarmoniker. Sempre nel 2013 debutta come produttore per il disco "Primo Ballo della Banda della Posta", un album di musiche per sposalizi con cui si esibisce in un tour di più di cinquanta date. Sul tema dello sposalizio, inoltre, incentra la prima edizione del Calitri Sponz Fest (2013), un festival da lui ideato e di cui è direttore artistico. Il festival viene riproposto anche nell'estate del 2014 con il tema "Mi sono sognato il treno" e nell'estate 2015 con il tema "Le vie dei muli i sentieri dei miti".
Nell'aprile del 2015 Feltrinelli pubblica il suo quarto libro, "Il paese dei Coppoloni", candidato al Premio Strega. A giugno 2015 risulta l'autore più votato del Dante al premio Strega. Il 29 agosto, nell'ambito dello Sponz fest, festeggia la Notte d'argento per i suoi venticinque anni in musica: un grande concerto con ospiti speciali, durato più di sette ore nella stazione di Conza in Alta Irpinia, preludio di un tour celebrativo intitolato "Qu'Art de Siècle", che lo vede esibirsi in Italia (Catania, Milano, Roma e Venezia) e nelle principali città europee (Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles, Zurigo, Berna, Salonicco) in una serie di concerti-atti unici per ospiti e repertorio.

Il libro "Il paese dei Coppoloni" porta in dote un documentario-viatico prodotto da LaEffe per la regia di Stefano Obino intitolato "Vinicio Capossela - Nel paese dei Coppoloni", presentato al cinema nel gennaio 2016 e la cui colonna sonora è tratta da quello che si annuncia come l'imminente nuovo album di studio. Il disco esce il 5 maggio ed è una nuova, temeraria scommessa.

Canzoni della Cupa (2016) è un album che nasce dalla terra. Una terra oscura, ancestrale, intrisa di miti rurali persi nei fumi del tempo. Ovvero, l'Alta Irpinia, la terra paterna, già messa in scena da Capossela nel Paese dei Coppoloni e nel suo Sponz Fest, e che ora diviene linfa vitale per un album diviso in due parti, "Polvere" e "Ombra", la prima registrata nel 2003, la seconda tra il 2014 e il 2015.
Un kolossal folclorico che non ha nulla di rassicurante, perché - come sosteneva Bob Dylan - "la musica tradizionale è fatta di spine, di creature notturne, di sangue, di cose misteriose". Un concetto che ben si adatta alla Cupa ("la contrada oscura"), quella parte del Meridione dove il sole non batte quasi mai e dove il bestiario popolare si nutre di spiriti diabolici e apparizioni misteriose. Come il demone meridiano de "La bestia nel grano", che appare a mezzogiorno ad ammonirci che il punto di massima luce è in realtà una feritoia sul mondo dell'ombra. Oppure, sono gli animali a incarnare il volto dell'insondabile, del sacro, magari camuffato sotto le sembianze mostruose del "Pumminale", il losco licantropo di Puglia celebrato da Salvatore, che Capossela sfrutta per scandagliare i dirupi dell'animo umano.
Ma anche il conflitto di classe reclama la sua parte, con le donne spesso protagoniste: dalle contadine nate "selvagge" alle "Femmine" che vanno a raccogliere il tabacco nei campi ("partite in due e tornate in quattro"), dalla devotissima "Maddalena la castellana" alla più disinvolta "Franceschina la calitrana", che se la fa con il capocantiere della ferrovia, dalla padrona della masseria ("La padrona mia"), inaccessibile oggetto del desiderio all'ineffabile "Pettarossa la puttanazza", novella Bocca di Rosa che "fa del bene ai suoi paesani".
La prima metà, "Polvere", è un lungo viaggio avviato a Cabras, in una Sardegna da western, e passato per l'incontro con il menestrello pugliese Matteo Salvatore e la sua lingua tagliente, affabulatrice di storie di varia umanità, di soprusi e ingiustizie, ma anche di un patrimonio innominato di canti della quotidianità: sonetti, ballate, serenate e cori militari. Sedici brani registrati nel 2003 per un suono asciutto, fedele all'ortodossia folk del Cantacronache e dei Dischi del Sole, cui però si aggiunge una congerie di strumenti etnici (accordion, cubba cubba, vihuela, tamburi ecc.).
La Cupa, qui, è ancora una dimensione distante, anche se evocata dall'ode mortifera de "Il lamento dei mendicanti". Ma la maggior parte delle storie si consuma sotto il sole del latifondo meridionale, tra piantagioni e ferrovia, in uno smisurato festival paesano. Ad alleggerire la traversata, la consueta ironia pungente e il timbro sempre sardonico dell'ex-Vic Damone. Ed è in fondo il suo marchio di interprete a rendere peculiare questo zibaldone antico di vetusti zumpa-zumpa ("Faccia di corno", "Zompa la rondinella", "Rapatatumpa"), di traditional universali (quante volte abbiamo già sentito il motivo de "L'acqua chiara alla fontana"?) e di ubriacanti balli di piazza, come l'irriverente "Pettarossa" o la picaresca "Nachecici", col suo messaggio prosaicamente fatalista ("Chi muore muore/ chi campa campa /e nu piatto di maccaruni cu' la carna").
Le due ballate notturne e intimiste che chiudono la prima parte ("La lontananza" e "La notte è bella da soli", in cui già si ode l'ululato del lupo mannaro) sono l'ideale ponte per addentrarsi nelle tenebre magiche di "Ombra", la seconda metà dell'album. Qui trovano posto le canzoni più cantautorali, registrate in uno studio mobile che ha accolto ospiti come Giovanna Marini, Calexico, Howe Gelb, Los Lobos e Flaco Jimenez. È la parte dell'album più vicina al Capossela recente, quello di "Marinai, profeti e balene". E, a dire il vero, alcuni brani sembrano outtake da quell'altra smisurata raccolta (il blues sfibrato di "Scorza di mulo", la litania sognante di "Le creature della Cupa", la preghiera laica de "L'angelo della luce"), ma riaffiorano anche sue melodie storiche, come quella di "Canzoni a manovella", aggiornata in salsa irpina nella novella "Maddalena la castellana".
Suggestivi gli squarci desertici che si aprono ne "La notte di San Giovanni" e nel mesto western alla Morricone de "Il treno", posto in chiusura, a portar via idealmente tutti i protagonisti, così come il miraggio mariachi di "Componidori", angolo di Messico ritagliato a Cabras, Sardegna profonda, per una sorta di rituale dionisiaco in cui un uomo, accerchiato dalle donne, capisce che "è meglio fottere che comandare". Ma funziona anche la ballata a lume di candela (anzi, di luna) di "Il Pumminale", primo singolo estratto.
Si arriva al traguardo un po' provati, ma felicemente ebbri, proprio come dopo la sbronza collettiva di "Lo sposalizio di Maloservizio". Un'avventura che è letteraria e (ancora una volta) teatrale, ancor prima che musicale. Anche se è indubbio lo sforzo di Capossela nel trasfigurare il materiale folclorico attraverso il suo estro di venerato maestro cantastorie. Dal punto di vista compositivo, le ventotto tracce non aggiungono granché al suo armamentario musicale, stabilizzatosi da alcuni anni in una sorta di folk-recital globale. Ma il Capossela d'oggi è così: prendere o lasciare. E noi, ancora una volta, convintamente prendiamo.

E all'obiezione che lo perseguiterà forse per sempre, lasciamo che sia lui stesso a rispondere: "Ho esagerato? Sì, è certamente vero. Ma la vita non esagera, forse?".

Nel 2019 Capossela torna con un disco, Ballate per uomini e bestie, nel quale sono i poveri cristi i protagonisti della storia. Figure dimenticate, oltraggiate, rese schiave da una condizione umana che nei secoli non ha saputo scrollarsi di dosso la propria bestialità, quel suo essere sempre e comunque carnefice di se stessa. Ed è proprio “Il povero Cristo” il primo singolo lanciato dal cantautore, il cui video è girato a Riace e vede come protagonista l’attore spagnolo Enrique Irazoqui nei panni di Gesù, ruolo già interpretato dall’iberico nel celebre film del 1964 di Pier Paolo Pasolini, "Il Vangelo secondo Matteo".
E’ una novella folk nella quale Capossela immagina il ritorno di Cristo che, una volta sceso dalla propria croce, rimane ancora una volta deluso dalla condizione umana, dall’incapacità congenita di vivere rispettando il prossimo. Un brano che mostra fin da subito l’umore del disco, con Capossela nelle vesti del predicatore pacato ma estremamente deluso da ciò che lo circonda. Ad aprire “Ballate per uomini e bestie” è però “Uro”, canzone che trae linfa dalle prime pitture rupestri nelle grotte di Lascaux. Un omaggio alla necessità secolare dell’uomo di comunicare con se stesso e con gli altri, per un brano dall’atmosfera cupa, scritto assieme all’amico 
Teho Teardo (alla chitarra), con Vincenzo Vasi alla marimba.
Tuttavia, tra una novella e l’altra (“Perfetta letizia” ispirata da San Francesco), uno sguardo al sacro e un altro al profano, Capossela riesce anche ad avvicinarsi al presente nel trotto incendiario de “La peste”, focalizzando la sua attenzione verso l’epoca moderna con il web visto come una malattia virale che ci colpisce tutti. Capossela canta di "rivolta inerte" e "fake news", scagliandosi contro lo scempio dei social sempre più in crescita esponenziale. Un rientro al presente che rende il disco tematicamente dinamico, così come appare versatile la struttura delle singole tracce, ciascuna con il proprio mood e il proprio ritmo. Tra struggenti ballate nelle quali scandagliare la sofferenza del peccatore (“Ma ogni uomo uccide quel che ama/ Questo sia bene udito/ Alcuni con sguardo amaro, altri con parlar forbito/ Il codardo lo fa con un bacio, con la spada lo fa l'ardito/ Con la spada lo fa l'ardito”, da “Ballata del carcere di Reading”) provando finanche a esorcizzarla, mentre la viola di Raffaele Tiseo e il flauto (magico) di Daniele Sepe puntano a consolare animo e corpo. Una meraviglia che si ripete nella splendida “La giraffa di Imola”, canzone che narra di una giraffa fuggita dal circo (“Cucciolo senza madre/ Perso nel circo dell’Europa Occidentale”) che si ritrova a correre tra strade di cemento, lamiere e strisce zebrate per terra.

Ballate per uomini e bestie ci consegna un cantautore per l’ennesima volta ispirato, lontano dai cliché, dai richiami del momento e da evasioni forzate. Un autore libero, che si ricollega all’uomo e al suo essere anche e soprattutto bestia attraverso canzoni che sorvolano il tempo e lo spazio con il pathos di chi ha ben presente la miseria di un Occidente sempre più incapace di ricordare la propria dimensione e di abbracciare la madre terra in quello che resterà per sempre l’unico amplesso realmente salvifico.

 

Vinicio CaposselaNel 2023 Capossela torna con un nuovo album, Tredici canzoni urgenti, in cui affronta altrettanti temi di stretta attualità.  Come un novello Virgilio, sprofonda insieme a noi nell’inferno quotidiano della gastronomia elevata a unica forma di socialità (“All You Can Eat”), nelle storture di un sistema di potere che si ritiene intoccabile (“Ariosto Governatore”), nella politica che non riesce più ad essere realmente rappresentativa (“Dalla parte del torto”), nella violenza esercitata a causa di una distorta  visione dell’amore e della sessualità (“La cattiva educazione”).
La canzone più urgente, “La crociata dei bambini”, uscita in anteprima rispetto al resto dell’album nel giorno in cui si ricordava il primo anniversario dell’invasione dell’Ucraina, affronta il tema della guerra. Lo fa attraverso gli occhi dei bambini e del cane che li accompagna raccontati nel romanzo di Bertolt Brecht.
In quasi tutti i brani Capossela riprende suggestioni e rifessioni di autori illustri della letteratura. Non si tratta di un mero citazionismo ma di gratitudine verso quell’immenso patrimonio culturale di chi ha già provato a indicarci una direzione verso la quale tendere.
Il rischio, in Tredici canzoni urgenti, è che l’urgenza di denunciare e raccontare possa sovrastare la parte musicale. Questo talvolta accade: nel primo singolo le cose da dire sono tante, troppe e il pianoforte e gli archi devono solo limitarsi ad accompagnare le avventure di questi ragazzi erranti nelle macerie di una Polonia divelta. L’idea alla base dell’album, tuttavia, permette di affrontare  ogni brano come un microcosmo a sé stante, concedendo all’autore una libertà assoluta nella struttura delle canzoni. Ecco allora ritrovare le atmosfere circensi di Canzoni a manovella nel pezzo “Il tempo dei regali”, con profusioni di fiati, organi e glockenspiel, e la follia festosa e strabordante di Ovunque proteggi in “Gloria all’archibugio”. E poi ancora un cha cha cha, ribattezzato onomatopeicamente cha cha chaf per celebrare la festa dei bambini che sguazzano nella pozzanghera; uno swing sgangherato con una satira caustica degna del miglior Tom Waits in “All You Can Eat”, una canzone di denuncia sociale in “Minorità” in cui affronta la drammatica situazione carceraria, il lirismo straordinario di “Staffette in bicicletta” cantata insieme Mara Rederghieri.
Le collaborazioni sono tantissime: oltre ai musicisti storici che spesso hanno accompagnato Capossela lascia a Margherita Vicario aprire la struggente “La cattiva educazione” dedicata alle donne vittime di femminicidio con la parafrasi dell’inno della Resistenza “Questa mattina non mi son svegliata/e l’invasore ce l’avevo in casa”. “Sul divano occidentale” troviamo Raiz, Oliver Skardy e Bunna ai cori e FiloQ ai synth. Quest’ultimo, che produce anche il brano, invita il cantautore di origini irpine a esplorare terre poco battute nelle sue passate esperienze come il dub e l’elettronica.
Non troveremo, in Tredici canzoni urgenti, facili slogan o formule magiche per risolvere le problematiche di cui si parla. Ma, come un paziente artigiano, Capossela cerca le parole, le smussa, le leviga e le mette al servizio della musica.

 

Contributi di Ciro Frattini ("Da solo"), Giuliano Delli Paoli ("Ballate per uomini e bestie"), Fabio Ferrara ("Tredici canzoni urgenti")

Breve bibliografia

Enrico Deregibus - Dizionario completo della canzone italiana (Giunti, 2006)

Massimo Padalino - Il ballo di San Vinicio (Arcana, 2009)
Laura Rizzo - Canzoni a manovella - Vinicio Capossela (Arcana, 2015)

Vinicio Capossela

Discografia

All'una e trentacinque circa (Cgd East West, 1990)

7

Modì (Cgd East West, 1991)

6,5

Camera a Sud (Cgd East West, 1994)

7

Il ballo di San Vito (Cgd East West, 1996)

7

Liveinvolvo (live, Cgd East West, 1998)

8

Canzoni a manovella (Cgd East West, 2000)

8

L'Indispensabile (antologia, Cgd East West, 2003)

Ovunque proteggi (Cgd East West, 2006)

7,5

Nel niente sotto il sole - Grand tour 2006 (live, Atlantic/Warner Music)
Da solo (Cgd East West, 2008)

5,5

Solo Show Alive (live, Atlantic/La Cùpa/Warner Music, 2009)
The Story-Faced Man (antologia, Nonesuch, 2010)

Marinai, profeti e balene (La Cùpa/Warner, 2011)

7,5

Rebetiko Gymnastas (La Cùpa/Warner, 2012)

6

Canzoni della Cupa (La Cùpa/Warner, 2016)

7,5

Ballate per uomini e bestie (Warner, 2019)

7,5

Tredici canzoni urgenti (Parlophon/Warner, 2023)

7,5

Pietra miliare
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Vinicio Capossela su OndaRock