Bark Psychosis

Bark Psychosis

Allucinazioni ai confini della notte

Graham Sutton e compagni possono vantare una serie di primati incontestabili, tra i quali l’aver ispirato al critico Simon Reynolds l’etichetta più abusata del decennio Novanta: il "post-rock". Una manciata di Ep e due soli album sono bastati a prefigurare un nuovo modo di concepire il rock, dall'abbrivio shoegaze a un'elettronica scura e visionaria, che disegna paesaggi post-industriali

di Martino Lorusso

Every day and every night streets leave their mark on my skin/ This city breaks you down/ Reach inside, it’s upside down/ I can’t find any way out.
Ogni giorno e ogni notte le strade lasciano un’impronta sulla mia pelle/ Questa città ti frantuma/ Addentrati/ E’ tutto sottosopra/ Non riesco a trovare una via d’uscita.
("Fingerspit")

Quella dei Bark Psychosis è una storia di grandi promesse e ambizioni, ansiose attese e crolli nervosi, inaspettate ribalte e lunghi silenzi; ha il volto della Notte & della Metropoli, della Strada e dei corpi che ne portano addosso i segni. E’ animata da cambiamenti camaleontici, piccole rivincite e ritrovati equilibri. Sospinta dal pendolo del Caso, oscilla tra sogno & incubo, assumendo i tratti di una vicenda profondamente umana, ancor prima che artistica.

Quando Graham Sutton e l’amico John Ling, imberbi ragazzini ancora in età scolare, danno vita ai Bark Psychosis, in una grigia giornata della metropoli più grigia d’Europa, di sicuro non possono immaginare il curioso destino che li attende. Così bizzarro da rendere una manciata di singoli e un album, tasselli fondamentali del variegato mosaico che avrebbe prefigurato il nuovo (modo di concepire il) rock, dopo la new wave. Allo stesso tempo, talmente ingrato da tramutare l’estrema ambizione che muove il gruppo nella sua personale strategia d’implosione.

I Bark possono vantare una serie di primati incontestabili tra cui il più ambiguo è sicuramente l’aver ispirato a Mr. Simon Reynolds (nella recensione di Hex comparsa su "Mojo" del marzo 1994), l’etichetta più abusata dell’ultimo decennio: quel "post-rock" che, in tutta probabilità, l’autorevole giornalista inglese non avrebbe mai messo nero su bianco, prevedendone il (mal)trattamento da parte dei molti colleghi scribacchini, in cerca del nuovo fenomeno da vendere dopo il grunge. Si potrebbe pure speculare sugli effetti collaterali indotti da una simile operazione d’inscatolamento su una generazione di giovani musicisti, partiti con mirabili intenzioni e finiti in buona parte per sintetizzare depressioni "in vitro", non meno impalpabili del finto ribellismo generalmente associato a certo rock di retroguardia. Al centro della nostra piccola (grande) storia, intricata come un classico film noir, ci sono però i Bark Psychosis e da loro ripartiamo, azzerando il contatore agli ultimi mesi del 1987.

Graham e John sono due adolescenti attratti dal noise allora in voga (nell’underground) di Sonic Youth, Big Black e Napalm Death, di cui provano a imitare le sgraziate movenze negli scantinati di Brighton, sobborgo Est di Londra, finché Sutton non intuisce - nel tumulto sempre più esasperato della metropoli - il suono del silenzio e le sue possibilità di applicazione al tessuto elastico del rock. A svelarne una larga parte, con qualche anno d’anticipo, ci pensano due dischi e una band che attraverseranno il corpo dei Bark da parte a parte: "Laughing Stock" e "Spirit Of Eden", firmati Talk Talk, oltre a suonare come l’oggetto più alieno i(ni)mmaginabile nel rock di fine 80, sanciscono il suicidio commerciale (e la liberazione di un Io represso) della popstar Mark Hollis.

Non ha ancora superato i sedici anni Sutton che si ritrova a incidere la prima composizione accreditata ai Bark Psychosis, poco dopo aver conosciuto a una fermata della metropolitana il discografico di turno, che in questo caso risponde al nome di Nick Allport della Cheree Records, abile nel riconoscerne un talento "so fuckin’ brilliant". Registrato in un pugno di minuti con l’imperizia della prima volta, Clawhammer va ricordato solo in quanto parte di un flexi-disc che annovera la presenza dei Fury Things e - soprattutto - degli Spacemen 3. Non c’è da meravigliarsi quindi, se i risultati di vendita siano incoraggianti al punto di indurre l'etichetta a rinnovare la fiducia al gruppo, questa volta per un 12" senza ospiti - più o meno illustri - di sorta.

Si avvia con All Different Things la processione (si direbbe, a giudicare dalla scansione temporale) dei singoli che insieme all’album d’esordio consegneranno ai Bark Psychosis una stima e notorietà destinate paradossalmente a irrobustirsi solo dopo anni di inattività, e sempre entro certi limiti. Con un organico completato da Mark Simnett (batteria) e Sue Anderson (voce) il gruppo dà un primo (as)saggio della sua capacità di scrittura in due lunghi brani che alternano momenti di dolcezza disarmante (il canto della Anderson) e algida introspezione a esplosioni rumoristiche da sconquasso naturale. L’entusiasmo che porta il gruppo a svelare con noncuranza le carte (di una buona mano) e il piglio naive a cui si può ricondurre una certa approssimazione in fase di produzione possono far sorridere e bollare l’Ep come "acerbo" - solita prassi, insomma - ma uno sguardo attento presterebbe maggiore attenzione ai luccichii che traspaiono in filigrana: la cura nelle scelte timbriche, gli incastri delle parti strumentali concepite come layer, la disinvoltura nell’alternanza dinamica piano/forte. Gli ingredienti, si diceva, son tutti sul tavolo a far bella mostra in All Different Things, dall’indolenza oppiacea del cantato shoegaze ai flutti chitarristici dei migliori A.R. Kane - il cui "69" fertilizzerà abbondantemente l’humus musicale britannico dei primi 90 -, dalle ritmiche jazzy in punta di ride a una struttura compositiva dilatata nella tradizione della migliore (neo)psichedelia. "By Blow" è la visione acida di un geyser sfrigolante, un flashback delle krauterie più selvagge di Can e Amon Duul aggiornate all’epoca dei sampler, o un flashforward del "Von" di altrettanto giovani Sigur Rós (e curiosamente lo studio in cui vede la luce il singolo si chiama proprio Von).

Occorre un anno per la pubblicazione del secondo 12" su Cheree, Nothing Feels: il passaggio alla maggiore età di buona parte del gruppo pare portare un vento di maturità che, contrastando le spinte rumoristiche iniziali, plasma due ballate incorporee. "I Know" si solleva da profondità inaccessibili come (in)canto di sirena e fluttua libera nel folk degli Slowdive più confidenziali, per poi adagiarsi sui riverberi che lambiscono "Nothing Feels", rassicurante approdo ai lidi del pop-jazz a venire.

Non si può parlare in toni similmente poetici per ciò che accade tra questo e il successivo singolo: un contratto firmato con leggerezza e già di per sé vincolante con la Cheree si trasforma in un incubo, quando nel management della label si insediano due loschi uomini d’affari, evidentemente intenzionati a spillar sterline ai loro giovani e ingenui clienti. Se l’amico Rudy Tambala, metà degli A.R. Kane, aiuta il gruppo a divincolarsi dai tentacoli contrattuali della Cheree, è la 3rd Stone Records che si assume la responsabilità di pubblicare un nuovo 12" a nome Bark Psychosis.

Delle tre tracce che compongono Manman, solo "Blood Rush" segue le morbide linee tracciate sulla battigia dal singolo precedente, le restanti due spostando l’accento su un’elettronica incalzante, infarcita di dub e campionamenti (la title track), anticipatrice delle derive drum and bass che spingeranno Sutton a fondare il progetto Boymerang.
Inevitabilmente segnato dal periodo di turbolenza del suo concepimento, Manman è importante nella misura in cui rivela ai suoi artefici le possibilità e i limiti legati a un uso creativo e tecnologicamente consapevole dello studio. Al punto che per il successivo singolo, il gruppo noleggia una folta strumentazione, pur non avendo nulla di concreto per le mani e nemmeno le idee chiare sul da farsi. La jam session è una scelta quasi necessaria e il suo parto - bypassando l’ovvietà di ogni clichè - è un archetipo della "suite" del rock anni 90 (senza andare a scomodare i teutonici avi): ventuno minuti e ventiquattro secondi di schiumosa psichedelia urbana.

Scum è la città che parla ai Bark Psychosis, racconta di sé e conseguentemente di loro. Un groviglio di cellule che interagiscono in modo caotico, ora rapide e convulse, ora silenziose e impercettibili nei suoi "interiors" di cemento & acciao; un corpo attorcigliato intorno al suo core pulsante, che per dieci lunghe notti diventa una sala prove allestita nei sotterranei della chiesa battista di St. John a Stratford, Londra Est. Tanto basta per dar vita all’opera che meglio racchiude l’arte di Sutton & soci, difficilmente traducibile a parole in quanto cucita sui dettagli: le registrazioni ambientali del luogo (dall’eco delle sale ai canti di un coro gospel rubati attraverso una porta), la pienezza di un basso in anticipo sui trip di Bristol, chitarre come tremuli miraggi che bruciano in feedback e ancora nera pece di jazz ad avvolgere le movenze delle bacchette.
Dare coerenza alla materia grezza di Scum è compito di una produzione in grado di lasciare miracolosamente intatta la naturale spazialità del suono, arricchendola di opalescenti sfumature: le lievi sovraincisioni di electronics, voci, chitarre ambient e un pianoforte.

La curiosità della stampa britannica per l’oggetto non ben identificato (singolo della settimana su Melody Maker) concepito da quattro (poco più che) bambini-prodigio accresce l’attesa per un album d’esordio che vedrà la luce dopo quasi due anni per la Circa Records.
Quattordici mesi è il lasso di tempo che occorre per ultimare un progetto talmente ambizioso da compromettere profondamente l’equilibrio e il futuro del gruppo: Daniel Gish dà forfait durante le registrazioni, John Ling si dichiara "cotto" e abbandona giusto una settimana prima dell’inizio del tour inglese… quasi che l’incantesimo invocato da Hex - in italiano malocchio - sortisca i suoi effetti direttamente sui propri cerimonieri. Il 10" che lo precede, A Street Scene/ Reserve Shotgun Man, mostra ancora una volta audacia e volontà di spiazzare l’ascoltatore: se la prima traccia vira nella direzione di un pop-jazz vivacizzato dal funk, che levita in improvvisi panning di melodia/rumore, prima di inabissarsi in soundscape ambientali, il lato B ritorna sul luogo del delitto di Manman per mettere a tacere il testimone, privandolo della voce, mentre il suo corpo rantola ossessioni di basso-batteria.

Hex è una trappola. Si dispiega in tutta la sua vis ammaliatrice attraverso sette lunghi brani in cui è facile perdere ogni riferimento spazio-temporale, similmente al girovagare notturno per le vie di una città che si pensa di conoscere, ma la cui percezione muta continuamente, svelando angoli e anfratti mai immaginati prima, eppur esistenti da sempre. Un luogo da cui si vorrebbero prendere le distanze, come suggerisce la copertina del Lp, ritraente uno scorcio di metropoli - proprio l’inquietante chiesa di St. John - visto dai binari prossimi alla stazione di Straftord, ma che esercita un magnetismo cui è impossibile resistere (le sagome dei quattro che vi si protendono).
La musica di Hex è inaudita soprattutto nella misura in cui è abile a plasmare le materie prime utilizzate. La lezione dei Talk Talk di "Spirit of Eden" e "Laughing Stock" viene tradotta in una dimensione più terrena, intrecciata a un vissuto quotidiano divergente dalla tensione spirituale hollisiana. Persino nelle sublimazioni di "Pendulum Man", la stasi è ripiegamento in sé stessi e momento di ritrovata quiete piuttosto che (tentativo di) ascesi mistica.
Se i Blue Nile rispecchiano la sofisticazione di un jazz-club con i suoi spazi interni accoglienti e illuminati da luci soffuse, i Bark Psychosis evocano la più cruda visione dei vicoli all’esterno, di neon così decrepiti e pulsanti da disturbare la vista. Di occhi abituati a confidarsi con l’asfalto in oscurità rigate da aghi di pioggia & freddo, nelle solitarie transizioni verso la prossima meta.
E’ curioso notare la perfetta corrispondenza tra il concept di Hex e la sua struttura interna: proprio come le percezioni del notturno vagare si fanno via via più sfocate al trascorrere dei minuti, per poi esalare nella narcosi, allo stesso modo la forma canzone si va sempre più sfilacciando, dal blue-pop riconoscibile di "The Loom", alle textures pure di "Pendulum Man", passando per le terre-di-mezzo ECM di "Eyes and Smiles", che raggiunge il climax nell’invito rabbioso di Sutton a non arrendersi. Sono questi due brani, con la straniante "Fingerspit", a costituire il miglior lascito di Hex: le trame più dilatate e la voce più tesa, fragile e sciolta da una malcelata riverenza a David Sylvian - di cui non possiede la stessa potenza, controllo e fascinazione - meglio si prestano allo svolgimento dei saliscendi emotivi che hanno da subito distinto il gruppo.

Difficile da intuirsi all’ascolto, l’album (che vanta la presenza di altri undici orchestrali) fa un ampio uso di software, campionatori & sequencer, come dichiara nelle interviste dell’epoca un Graham sempre più desideroso di sperimentarsi con i nuovi idiomi dell’elettronica. Siamo in un periodo cruciale in tal senso, primi anni 90: la tecnologia inarrestabile sta per aprire nuove frontiere alla musica con la diffusione su larga scala di laptop e relativi software audio, diponibili a prezzi sempre più contenuti. Una mentalità do it yourself, non molto dissimile da quella che ha animato il punk poco più di un decennio prima, darà un nuovo scossone al mercato discografico. Non è un caso se i Bark Psychosis suoneranno nell’estate del ’94 al Britronica Festival di Mosca, insieme a nomi come Aphex Twin, Autechre e Seefeel.

Alcuni mesi prima, il gruppo, riavutosi dal collasso interno e ridotto a duo, si imbarca nel tour promozionale di Hex con una formazione rimaneggiata (ci sono Del Crabtree alla tromba e Paul Thomas alla seconda chitarra), chiuso in bellezza con una trionfale serata allo Shaw Theater di Londra.

La spinta centrifuga che porterà Sutton ad abbracciare la causa della musica sintetica, enucleando il progetto solista Boymerang dal corpo mutante della band, inizia a rivelarsi nell’Ep Blue, pubblicato a due mesi di distanza dall’album. Costruita intorno a pattern ritmici di derivazione techno, la title track, con i suoi quattro minuti scarsi, è una canzone pop a tutti gli effetti, raffinata e piacevole ma lontana anni luce dal sound psychotico (per quanto l’approccio "in divenire", costantemente perseguito dal gruppo, renda vacua la ricerca di un’identità sonora). Questi fa capolino nella cortina di rumore bianco generata dalle macchine di Hex, prima di dileguarsi nel remix di "Big Shot", con Rudi Tambala a titillare un sintetizzatore Roland, saggiando Martini Dry, olive & stuzzichini.

Le perplessità suscitate da Blue accrescono l’attesa per un secondo album che vedrà la luce soltanto dopo vent’anni e in tutt’altro contesto. Le pressioni esterne acuiscono quelle già esistenti tra i musicisti, decretando in breve tempo uno strappo irricucibile e quindi lo scioglimento dei Bark Psychosis.
I passi successivi sono quelli di Sutton che balla al ritmo della jungle cerebrale e roteante dei Boymerang, per cinque lunghi anni. Un periodo in cui il nome dei Bark pare scomparire progressivamente tra i consumatori di musica - salvo essere ripescato di tanto in tanto dai giornalisti più illuminati e dagli avant-rocker che a loro si ispirano - sino a quando, nel ’99, Graham non decide di sollevare la puntina dai suoi turntable e cambiare le corde alla chitarra. Nel frattempo sono state pubblicate due raccolte, di cui una ufficiale, Indipendency (3rd Stone, 1994), e l’altra non autorizzata dal gruppo, Game Over (1997), contenenti i primi preziosi singoli. Mentre nel 2004 sarà la volta di Replay (3rd Stone), che aggiunge al lotto cinque brani dal vivo registrati nella chiesa di St. John - qualità "bootleg", fate un po’ voi.

I lavori per il futuro ///Codename: Dustsucker iniziano a fine millennio per chiudersi - alla maniera di Mr. "perfettino" Sutton - nel 2004, quando il disco raggiunge gli scaffali dei negozi, e dopo che vari suoi fake hanno fatto il giro del mondo lungo le arterie della Rete in formato compresso, tra i ghigni beffardi di Graham e le scodinzolate divertite del suo bastardino - il quadrupede delle foto promozionali! Nell’epoca delle strategie di marketing per ogni esigenza, non ci si può meravigliare se la sigla Bark Psychosis venga rispolverata anche per quel che a conti fatti è un progetto solista di Sutton, guarnito di collaboratori esterni. Tra i vari ospiti compaiono Pete Beresford (all’immancabile vibrafono), Rachel Dreyer (piano & flauto) e soprattutto Lee Harris, l’uomo delle (a)simmetrie ritmiche talktalkiane, a cui Simnett deve più di una buona pinta.
Le arie si fanno più distese e filiformi: la tensione claustrofobica di Hex è un fantasma che si materializza per pochi, brevi istanti, mentre a prevalere è solo il torpore del dormiveglia, la coscienza brumosa e surrealmente random dell’insonne, in attesa di una nuova alba purificatrice.
Complice anche la presenza di Harris in sala macchine, Dustsucker getta un ponte verso il dream-folk di "I Know", un capitolo lasciato a metà, osservandolo con la lente divergente di Hex e alla luce della parentesi Boymerang (si ascolti "Shapeshifting").
Ancor più fine è la grana sonora, plasmata dalle mani di un Sutton che nel frattempo ha fondato la Fire Records ed è diventato uno stimato produttore. Il senso di deja ecoute è sempre in agguato (anche perché di suoni psychotici, nel frattempo, ne abbiamo ascoltati parecchi), e parimenti a quello di "operazione nostalgia" lascia un retrogusto amaro, difficile da mandar via. E’ pur vero che di fronte a composizioni carezzevoli come "400 Winters" e "The Black Meat", ogni intervallo temporale viene istantaneamente annullato e si viene di colpo proiettati nei primi anni 90, quando i suoni da seguire con gli occhi erano frutti spontanei del (sotto)bosco britannico.
Il ritorno di Graham viene accolto senza mezze misure, con lodi sperticate (specie in patria) o stroncature inappellabili: la verità, probabilmente anche in questo caso, sta nel mezzo.

La verità sui Bark Psychosis, invece, non è molto diversa da quella relativa ad altri gruppi, passati quasi inosservati tra i contemporanei e/o svaniti prematuramente, eppur capaci di lasciare un segno indelebile sulla pelle delle generazioni a venire (giusto per restare in tema: gli Slint sono chiamati a testimoniare!). La forza creatrice del "genio", del "nuovo", del "diverso" contiene in sé il principio attivo di un rapido disfacimento, agevolmente innescato poi dai condizionamenti esterni. Vecchia storia, dirà qualcuno. Beh, se tanto mi dà tanto, speriamo di raccontarla ancora… piuttosto che studiare ai raggi X le carriere di molti mammut che da anni si trascinano stancamente, senza guizzi e vitalità verso la prossima inutile apparizione.

Bark Psychosis

Discografia

Clawhammer - (7" Flexi, Cheree, 1988)

6

All Different Things (12" Ep, Cheree, 1989)

7

Nothing Feels (12" & Ep, Cheree, 1990)

7

Manman (12" & Ep, 3rd Stone, 1991)

6

Scum (12" & cd, 3rd Stone, 1992)

8

A Street Scene (10" & Ep, Circa, 1994)
7
Hex (Circa, 1994)
8
Blue (12" & Ep, Circa, 1994)
6
Independency (Compilation, 3rd Stone, 1994)
8,5
///Codename:DustSucker (Fire, 2004)
6,5
400 Winters (Ep, Fire, 2004)
6
Pietra miliare
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