Oneida

Oneida

Il succo acido della Grande Mela

A cavallo tra fine dei 90 e inizio del nuovo decennio, riesplode la scena di New York. E gli Oneida da Brooklyn sono in prima fila. Con una serie di dischi al fulmicotone che impongono un nuovo stile. Esuberanza garage, potenza hard-rock, scorie kraut e acidissimi germi psichedelici convivono in un repertorio unico, divenuto ormai un trademark degli anni Duemila

di Claudio Fabretti, Paolo Sforza, Francesco Nunziata

Gli Oneida sono tra i protagonisti della grande riscossa newyorkese del Duemila. Originari di Brooklyn come i Liars e gli Yeah Yeah Yeahs!, hanno resuscitato la violenza liberatoria del garage-rock dei 60, rimescolandola con acidi trip psichedelici, detonazioni hard/stoner-rock, germi di wave sintetica ed effervescenze kraut. E' musica che schiuma un’elettronica ossessiva e metallica, in cui al basso sono riservati pattern elementari e ripetitivi, mentre le chitarre imperversano, tra accenni di garage e noise, e la batteria viene lanciata in esplosioni di violenza allo stato brado. Alla voce è affidato il compito di riflettere in uno specchio deformante questa musica, già di per sé non univoca: distante, distorta, filtrata in vari modi, spesso cantilenante in maniera demenziale. Una voce che rappresenta anch'essa, a modo suo, il Dna di questa band, che ha iniziato a suonare nei magazzini abbandonati di Brooklyn e non ha lasciato dietro le serrande l'energia, ma fa i conti con il fatto che, negli anni Duemila, il background di un musicista dev’essere sempre più stratificato ed è normale trovare nello scaffale di casa affiancati, MC5 e Suicide, o i Faust e i Kyuss.

Il nucleo originario del gruppo - che prende il nome da una tribù indiana - è formato dal chitarrista e cantante Papa Crazy (aka PCRZ), dal tastierista Bobby Matador (aka Fat Bobby), dal batterista Kid Millions e dal bassista e chitarrista Hanoi Jane (aka Baby Jane). Quattro nerd dall'aria rassicurante, che però sul palco fanno sfracelli, conquistandosi subito una preziosa nicchia nell'underground newyorkese.

Nel 1997 la piccola etichetta Turnbuckle offre loro la possibilità del debutto, con l'album A Place Called El Shaddai's. E' un disco ancora confuso, perso troppo spesso dietro sballi acidi e sperimentalismi lo-fi, ma con già impresso il marchio di fabbrica di questi hooligan psichedelici, capaci di inscenare una jam selvaggiamente "freak" nei dodici minuti di "Ballad Of Vaurice", ma anche di aprirsi a ipnotiche ballate spacey ("Salad Days") e a improvvisazioni free-jazz à-la Zorn ("Medium Cool") o di arroventare le loro chitarre nelle dissonanze dell'iniziale "Hieronymus" e nel fragore funkeggiante di "Ghandi For Now". Il tutto nel solco di quella nobile tradizione newyorkese che fa capo ai Velvet Underground prima e ai Sonic Youth dopo.

Due anni dopo, sempre su Turnbuckle esce Enemy Hogs (ristampato poi dalla Jagjaguwar, a suggello del nuovo sodalizio con la band di Brooklyn).
Dodici schegge abrasive, suonate con foga concisa degna dei migliori Wire e Husker Du. Si aprono già ampi squarci sulla lucida follia che ispirerà i lavori più maturi dei newyorkesi, decisi più che mai a portare il caos al centro della loro musica. Detriti rock'n'roll, garage, punk e new wave si mescolano con le frasi convulse dell'hammond e con fiati free-jazz, mentre tappeti morbosi alla Suicide contribuiscono ad alimentare un senso di paranoia. Dietro l'immediatezza dei brani, si cela un'attitudine quasi "art-rock", alla ricerca maniacale di ogni sfumatura di suono per ogni strumento, che siano i fiati, gli archi o l'organo.
Se l'iniziale "Whitey Fortress" indulge un po' troppo in virtuosismi fini a sé stessi, non mancano momenti di palpitante tensione, come il pandemonio percussivo di "Primanti Bros.", l'allucinazione acida di "Hard Working Man", i riff sudici di "Ginger (Bein' Free)", i sibili elettronici di "Turn It: Up (Load)" e "Gettin' It On", o ancora le asprezze metalliche di "Quest For Two" e l'urgenza punk di "Little Red Dolls".
Ma i veri e propri tour de force del disco sono due: "Bombay Fraud", esotica piece avant-rock che si snoda su cadenze morbose, tra fiati ossessivi, rumori, riverberi e voci stranianti, e la conclusiva "O.L.B.", "ripescata" nella ristampa Jagjugawar: una snervante jam "free" composta dalla band dopo l'assassinio di Old Dirty Bastard del Wu Tang Clan, nel 1998.

I singoli "Best Friends" (1999) e "Steel Rod" (2000) alimentano l'attesa del terzo album, Come On Everybody Let's Rock (2000), questa volta direttamente su Jagjaguwar. E' un appassionato tributo alle radici rock della band, che pesca soprattutto nel passato, in una frenetica opera di riciclaggio che centrifuga le asprezze heavy di Deep Purple e Blue Cheer, gli hook di Humble Pie e Foghat, la frenesia degli Mc5 e persino il rumorismo agrodolce di Jesus and Mary Chain. Il tutto supportato da robuste dosi di autoironia, come nell'iniziale "I Love Rock", neurodelirio punk tutto giocato sui vocalizzi distorti e demenziali, o nell'andamento esuberante di "Major Havoc" (un riferimento alla "Sergeant Rock" degli Xtc?).
La scienza del riff, di cui la band di Brooklyn è maestra, continua a dare frutti ("Legion Of Scags", "Doin' Business In Japan") e si sposa alla capacità di colpire dritto al bersaglio col minimo degli orpelli ("Pure Light Invasion", "Fat Bobby's Black Thumb"). Ma c'è anche spazio per atmosfere morbosamente wave ("Snow Machine") e per un omaggio psichedelico ai 13th Floor Elevator (la cover di "Slip Inside This House").
Nel complesso, un disco più derivativo dei precedenti, ma forse anche più maturo, nel suono e negli arrangiamenti.

Il successivo Anthem Of The Moon (Jagjaguwar, 2001) è l'ultimo atto con Papa Crazy, che si separerà dalla band alla fine dell'anno. Un disco vibrante, registrato "in the stones", in un'unità mobile dislocata tra le rovine dell'era coloniale nel New England. Scenari che evocano una natura arcana e misteriosa, catturata anche attraverso numerosi field recordings di rumori, voci umane e versi di animali. E si rinnova la fascinazione della band per l’energia, usata come strumento per l'esplorazione della coscienza. Ne scaturisce un sound stavolta più psichedelico e paranoico, che fa leva su improvvisazioni acide ("Double Lock Your Mind", "To Seed and Flower"), ritmiche sghembe ("Geometry", tutta giocata sui contrasti tra consonanze e dissonanze, ma anche l’ipnotica "The Wooded World") e "buchi neri" di abulia cosmica ("People Of The North"), mentre "Almagest" condensa tutta l'atmosfera misteriosa dei luoghi in cui il disco è stato concepito, tra fantasmi, versi di gufi e paranoie kraut-rock. La psichedelia degli Oneida è intimamente legata alle visioni individuali dell’universo, e si nutre di ogni esperienza umana (paura, alienazione, rifiuto, ma anche grazia e estasi) in un caleidoscopio ad ampio spettro.
Ma i guastatori newyorkesi si confermano, tutto sommato, anche abili melodisti. Ascoltare per credere l'iniziale "New Head", la traccia più marcatamente wave, con un synth ossessivo e un riff distorto a spezzare la linearità del chorus, l’ancor più accattivante "All Arounder", con i vocalizzi catchy a far da contraltare al caos degli strumenti, e l'ipnotica ballad "Rose And Licorice". Tornano anche le derive noise ("Still Rememberin Hidin In The Stones") e i pastiche demenziali ("Ballad Of Impervium"), mentre "Double Lock Your Mind" si lancia in un'orgia di dissonanze che lascia già intuire l'approdo "parossista" di Each One Teach One.
Tanta carne al fuoco, dunque, per un'opera che, pur non brillando per compattezza e scontando ancora una certa piattezza nelle parti vocali, offre già un campionario esaustivo di quell'Oneida-sound destinato a divenire uno dei trademark più creativi del decennio.

OneidaPer la Grande Mela sono anni di grande fermento, che culmineranno nell'esplosione di gruppi come Interpol, Liars, Yeah Yeah Yeahs!, Rapture e - sul fronte più mainstream - Strokes. Per gli Oneida il "botto" si chiama Each One Teach One (2002), uno dei pochi dischi che sopravviverà alla spirale bulimica di un decennio che consuma e dimentica tutto in fretta.
Eppure, a dare il la all’album è uno dei loro pezzi più assurdi e provocatori: "Sheets Of Easter", 14 minuti dove i nostri eseguono la stessa identica battuta (interrotta da due break di numero!) di una ipotetica potentissima canzone garage-rock, un parossismo più prossimo allo sberleffo che alla sperimentazione, ma di sicuro divertimento. Nell’episodio successivo, che poi occupa l'altra metà del primo cd, gli Oneida però dimostrano che possono fare sul serio: "Antibiotics" è un brano diviso in due parti, un delirio di hard-rock psichedelico che si propone come una "Sister Ray" del nuovo millennio per i primi 10 minuti, grazie a un'ossessiva frase d'organo, e che sa unire all'epilessia di una ritmica spezzata la violenza delle chitarre e del basso, martoriati senza pietà. Il tutto fino a quando l'organo va a sbriciolarsi in una polvere di noise e feedback, attraversato da una recitato straniante che pare una filastrocca per bambini, fino a scemare nel puro rumore.
Il secondo cd si mostra più convenzionale, quantomeno nella durata dei brani. E anche la musica mostra aspetti differenti. Irruenza garage, allora, ma impregnata di elettronica alla Suicide, contrasti di matrice Chrome, così come del kraut-rock alla Faust. Qualcosa di non troppo distante dal contemporaneo debutto di un’altra band-rivelazione: gli Xiu Xiu. Gli Oneida non sono troppo semplicemente rock per cadere nella banalità, e non sono troppo cervellotici per finire nell'onanismo musicale. Partoriscono in questa maniera brani come la filastrocca acida "Number Nine", il synth pulsante alla Suicide di "People Of The North" (ripresa dal disco precedente), la giostra malata e un po' dub di "No Label", ma anche la tiratissima title track, che libera un riff da hard-rock anni 70.

A celebrare il rinascimento dell’underground newyorkese provvede nello stesso anno lo split con i Liars Atheists Reconsider. Una sorta di incontro-scontro dove un gruppo gioca a rifare (a pezzi) i brani dell’altro, con l’appendice di alcuni inediti a testa, per un totale di 26 minuti di musica. Gli Oneida sfornano un paio di pezzi tiratissimi in chiave garage-punk ("Privilege", "Fantasy Morgue") e si accaniscono sul cadavere di "Every Day Is A Child With Teeth" dei Liars. Di questi, invece, brilla una strampalata versione pop di "Rose & Licorice".

Alimentata da una serie di infuocate performance live, cresce l’attesa per il nuovo album degli Oneida, Secret Wars, che esce puntuale nel 2004. Nessuna stramba provocazione alla "Sheets Of Easter", ma la continuazione del progetto iniziato su Anthem Of The Moon e proseguito nel secondo cd del fortunato seguito. I brani, ben collaudati dalle esibizioni live, non possiedono l'irruenza e le sbavature, in senso buono, tipiche di queste; non troviamo nemmeno la quantità di acide e kraute distorsioni che arricchivano Each One Teach One. Tutti i pezzi sono cantati, ad eccezione della lunga jam finale; voce che, in tutti e tre i componenti, di certo non è mai stato un punto di forza, piatta e banale come è.
La pigra psichedelia dell’iniziale "Treasure Plane" è il biglietto da visita del disco: una melodia circolare ben riuscita, la voce quieta e distante, interrotta da un ponte psichedelico e sbilenco. Prosegue bene la più ritmata "Ceasar's Column", con il batterista Kid Millions in grande evidenza, e un vortice psichedelico che risucchia gli strumenti quasi fondendoli tra loro. "Capt. Bo Dignifies The Allegations With A Response" è una breve incursione nel garage ornata dallo stridulo battere della tastiera di Hanoi Jane.
Sono brani che non aggiungono nulla a ciò che già si conosceva degli Oneida, che addirittura si lanciano in un curioso, quanto inutile, omaggio al grunge con "Wild Horses". Molto meglio ritrovarsi con il siluretto "$50 Tea", tiratissimo e ossessivo, impreziosito pure da un bridge hard-blues che sa di stoner-rock fatto con maestria. Peccato però che quando provano un curioso brano country-psichedelico, "The Last Act, Every Time", i nostri non lasciano il segno, e farlo seguire da un altro brano come "The Winter Snake", basato sulla reiterazione di un accordo di chitarra, rende il tutto più interlocutorio. Risolleva parzialmente le sorti dell'album, infine, la lunga cavalcata psichedelica "Changes In The City", dove l'organo di Hanoi Jane incontra quello di Ray Manzarek.
Un disco senza direzione, insomma, dove con essa si sottintende appunto un movimento verso qualcosa. Semplicemente un ritratto piacevole, chiaro, sincero.

All’incessante produzione si aggiunge un nuovo Ep, Nice. Splittin' Peaches (2004). Quattro tracce che non cambiano le sorti del loro corso, ma ne ribadiscono le forti connotazioni kraut (la liturgia delirante di "Summerland"), wave (la stravolta "Inside My Head") e psichedeliche (i 15 minuti di dilatazioni lisergiche di "Hakuna Matata").

Ma le sorprese sono dietro l’angolo. Anzi, dentro la "music box più grande della East Coast". Una collezione di diavolerie d'ogni sorta allestita dal gruppo in un magazzino di New York: tavole di compensato, pezzi di vecchi marchingegni industriali, ingranaggi navali abbandonati e più di 70 lame di sega da sfrigolare su una varietà di chiodi e spuntoni metallici solo azionando la manovella di una macchina.
Ma - come si diceva - la "scatola" contiene sorprese. Nonostante il minaccioso armamentario, infatti, gli hooligan psichedelici di Each One Teach One sterzano inaspettatamente verso la melodia, sfoderando persino una sezione d'archi, arrangiata da Brian Coughlin (musicista d'avanguardia e leader dei Fireworks Ensemble).

Ecco allora The Wedding, il fatidico "capolavoro pop barocco" annunciato dalla band fin dal 2001. "Un disco fatto di ritornelli che fanno bene al cuore". Fatto sta che le loro jam epilettiche si sono di colpo "ristrette" in canzoni brevi (salvo i 7 minuti di delirio space-blues di "The Beginning Is Nigh"), seppur sempre attraversate da lampi d'allucinazioni.
Parte "The Eiger" e sembra quasi di ascoltare Hanoi Jane declamare un sonetto shakespeariano accompagnato da una orchestra da camera. Uno scherzo? Forse sì, perché arriva subito "Lavender" a riportare in scena i "soliti" Oneida: i riff aggressivi di chitarra, gli assalti del drumming, il barrage di tastiere e il canto sgraziato danno forma a un incubo nel solco della migliore new wave. Ma c'è qualcosa di ancora più "antico" nella musica dei quattro garage-rocker newyorkesi. Qualcosa che assume i contorni della liturgia orientaleggiante di "Spirits", con il suo andamento lento da cerimoniale velvettiano tra minacciose volute d'organo, tintinnii di campanelli e un cupo mantra chitarristico, o della ancor più solenne "Heavenly Choir", scandita dal drumming squadrato e dai riff acuminati di chitarra.
Quando è poi il registro surreale a prendere il sopravvento, ci si può imbattere nel videogame per synth e organetti impazziti di "High Life" o nella marcetta ubriaca per archi di "Know". E, al culmine della tensione, si finisce invischiati nel pastiche sulfureo di "Did I Die", che parte Black Sabbath, con le chitarre che grattano i nervi, e deraglia in un imprevedibile epilogo krauto.
Sono episodi dal fascino ipnotico, costruiti su epilessie (dis)armonie fosche e malate, che fanno del barocchismo delle intenzioni più un'esasperazione grottesca che un fatuo orpello. Ascoltare per credere anche la gag folktronica di "Run Through My Air", coi suoi tronfi arpeggi acustici. Altre volte, però, sembra che gli Oneida non sappiano ancora maneggiare con padronanza la nuova materia, come quando tentano di clonare i tardi Mercury Rev ("You're Drifting", intonata da Jane in un registro trasognato alla Donahue su un sottofondo di gorgoglii elettronici, e "Charlemagne", con una vocina psichedelica in una giostra di synth e violini) o si producono in abulici bozzetti folk (la conclusiva "August Morning Haze").
Non sarà "un capolavoro pop barocco" e resterà probabilmente un episodio isolato nella loro discografia, ma The Wedding conferma che gli Oneida sono una band di valore.

OneidaMa anche il traguardo di The Wedding va superato. Perché la band newyorkese continua a scompaginare generi e stili. La solita scatola magica, insomma. Una scatola capace di tutto, di mischiare le carte in tavola con nonchalance.
Nelle undici tracce di Happy New Year (2006) gli Oneida si mostrano sperimentali ma estremamente comunicativi. Che New York si stia, poco a poco, liberando dai suo fantasmi più recenti? Sembrerebbe di sì, tanto che l’aura medievaleggiante e quasi arcana di "Distress" potrebbe quasi rappresentare il presagio di nuovi mondi "paralleli". Folk e psichedelia, ma come venivano declinati negli anni 60. Out-folk, per l’esattezza, e con tanto di scale mediorientali in "Busy Little Bee" e voci "acquatiche", dilatate e attraversate da droni evanescenti nella ballata in punta di piedi di "Reckoning". Ma questo è solo l’altra metà del cielo. E ce lo ricorda, per prima, la stessa title track: appiccicoso-sintetico-circolare midtempo, organo distorto, vaneggiamenti pianistici nell’aria. Il tutto a recintare un campo di paranoia flower-power. Ma non lo manda di certo a dire anche "The Adversary", trionfalistica fanfara distesa lungo un groove scintillante, para-robotico ma poliritmico. Insomma, un discorso "carnevalesco" sul corpo mai agonizzante del rock. E come potrebbe esserlo, se si pensa a "Up With People": fisicità urbana, emotività stellare. Un giocattolo funky-krautrockedelico.
E' un trip dancey, un’allucinazione, al solito, post-moderna, chiassosa, ma in preda all'ebbrezza del panico. E quando la chitarra deraglia acida, è un gran bel rovinare di sensi. Zucchero filato elettronico e voci darkish ("Pointing Fingers"), sintetizzatori come flipper di minimali melodie pianistiche, rumorini, screzi armonici ("History’s Great Navigators", ovvero esiste anche il lato più gioviale dei cerimoniali lisergici dei Liars) e un gioco sornione di specchi, torpore vocale, piccole rifrazioni soniche (la marziale "You Can Never Tell"). E se per "The Misfit" si può parlare ancora di scorza pop, si tratta pur sempre di un pop che nasce, miracoloso, all’incrocio tra motorik, psichedelia indianeggiante (l'organo distorto, molto Pink Floyd prima maniera) e contrappunti come palpitazioni inesorabili. Che poi la conclusiva "Thank Your Parents" sia "solo" una marcia annoiata con semplice motivetto pianistico cambia poco.
Il cerchio si chiude, come è giusto che sia. E ben fatto pure. C’è di che accontentarsi.

L’antologia Seeds Of Contemplation (2007) racchiude alcuni loro brani, parzialmente riarrangiati e rivisitati.

Nell’estate 2008, dopo tre anni di lavorazione, esce Preteen Weaponry, annunciato come prima parte di una trilogia denominata “Thank Your Parents”. E' un disco di kraut-rock come se ne facevano una volta, una sorta di Hawkwind meets Suicide meets Neu, che poi è la cifra stilistica del gruppo.
Qui però è la monotonia a farla da padrona, una monotonia ancor più pronunziata e ipnotica, come nella prima parte della suite (“Preeten Weaponry Part 1”), dove la batteria scandisce una ritmica robotica su cui è costruita un’intricata texture di synth e chitarra. Il suono è ciclico e minimale, ma ordinato e sistematico. Il paragone con pezzi come “Sheets Of Easter“ o “Antibiotics” ha infatti poco senso. Laddove, in quel caso, gli Oneida davano sfogo alla loro dirompente fisicità, qui c’è controllo, quasi che la tensione sia implosa o addirittura trattenuta.
La seconda "Preeten Weaponry" è però il pezzo forte del disco. Immaginate un gigantesco moloch krautedelico che avanza lentamente senza lasciare scampo all’ascoltatore. Quando poi entra in gioco la voce, la suite prende quota andando a raggiungere le vertigini cosmiche degli Ash Ra Tempel. La terza parte è invece quella più debole. Qui infatti il drumming alienante di Kid Millions mal si amalgama alla foggia da stasi psichedelica della tessitura, e questa discrasia rende il suono parecchio confusionario. Ciò non inficia, comunque la validità complessiva del disco.

Seconda parte della trilogia, il triplo Rated O(2009) permette alla band di confrontarsi, con esiti altalenanti, con tre diverse attitudini musicali. Nessun filo conduttore, nessuna coerenza interna, solo il gioco delle anime che si sovrappongono, al massimo, nella mente e nel cuore dell’ascoltatore. L’effetto è, dispiace ammetterlo, quello risaputo della montagna che partorisce il topolino. Eppure, il primo disco, lasciava ben sperare...
Una dietro l’altra, ecco scorrere, infatti, una danza sciamanica tra ombre kraut-dub e astrattismi digitali in ghirigori sparsi (“Brownout in Lagos”), tavolozze minimal-electro (“What’s Up Jackal”), ipnosi techno-cosmiche in circolo opprimente e futuristico (“10:30 at the Oasis”), uno sghembo panzer kraut-wave (“Story of O”) e uno psicodramma allucinato che profetizza l’avvento prossimo venturo di un’umanità androide (“The Human Factor”). Un gran bel sentire. Peccato, però, che, da questo punto in avanti, la tensione creativa vada scemando. Hard-rock inzuppato di acido, allora, (“The River”), trip a zonzo tra caterve di distorsioni e fornaci ribollenti (“I Will Haunt You”, “Luxury Travel”), filastrocche scodinzolanti (“The Life You Preferred”), perversioni sfiancanti e rocciose (“Ghost In The Room”), echi Pink Floyd e spavalde fattezze garage (“Saturday”, “It Was a Wall”). Niente, comunque, che possa competere con i fuochi del loro passato.
Ancora meno convincente, la terza parte si crogiola nell’amore per la dilatazione raga-lisergica, mettendo sul piatto, con una certa indolenza, la tensione metafisica e l’istinto carnale di “O” ed “End Of Time” oltre che la lunghissima “Folk Wisdom”, scontata nel suo ripetere il cliché della cavalcata space-delica, tutta protesa verso un punto non specificato del cosmo, senza avere molto carburante (leggi: idee) a bordo.

A completare la trilogia, arriva nel 2011 Absolute II, epilogo oscuro e monolitico, fatto di lunghe, spettrali dissertazioni in bilico tra musica post-industriale e ambient inacidita, a confermare un periodo di costante metamorfosi per la formazione newyorkese.
Minimalismo sfiancante ed esoterico, pronto a raccogliersi dentro sinistre oasi post-atomiche (“Pre_Human”) o tra le pieghe di una concret-music gassosa, dove la voce è ormai ridotta ad un  cigoloio androide, oltre che pregna di un terrore occulto (“Horizon”), il suono di “Absolute II” vira decisamente verso lidi non-rock, esaltando la possibilità di lavorare materia informe e, a suo modo, scostante. In tal senso, la trilogia non ha fatto altro che evidenziare un progressivo allontanamento dalle loro originarie forme musicali e, almeno in questo, i Nostri dimostrano di voler continuare a sperimentare, accettando anche il rischio di risultati incerti.
Chiudono il cerchio, l’ermetica e glaciale “Gray Area” (in cui le rade esplosioni chitarristiche e un’atmosfera complessivamente impenetrabile sembrano voler mediare tra “Suffer Bomb Damage” dei Dead C e una qualsiasi cartolina dall’inferno dei Winter) e una funerea title-track, ultimo avamposto della disperazione.

Nel solco di un sound libero e inquieto si muove anche A List of the Burning Mountains (2012), lavoro diviso in due lunghe jam di musica visionaria che solo raramente riesce a ricordare i loro momenti migliori, perché tutta sospesa in un limbo di synth granulosi, feedback ruvidi, sfasature noise e gorgheggi spaziali che sembrano essere stati assemblati senza una direzione precisa. Leggermente più calibrato, il secondo movimento aumenta il tasso di opalescenza psichedelica, strutturando un timido volo pinkfloydiano che cresce a dismisura fino a sfiorare, nel finale, la catastrofe (anch’essa di maniera…).

Dopo una non proprio esaltante collaborazione, a base di free-rock, con l’eminenza grigia del rock d’avanguardia newyorkese Rhys Chatham (What’s Your Sign? del 2016), gli Oneida tornano in pista con Romance, disco in cui quel rock sperimentale a base di psichedelia, krautrock, rumore e quant’altro, che aveva caratterizzato i dischi precedenti del quintetto, vive di alti (pochissimi) e bassi (tanti), assestandosi su posizioni marginali. Il momento migliore del disco è probabilmente racchiuso negli oltre diciotto minuti di “Shepherd’s Axe”, in cui la band, distaccandosi in modo più deciso dalle sonorità che da sempre la contraddistinguono, prova a rimasticare le traiettorie più dilatate della propria musica, producendosi in una sorta di trip mentale in cui convivono cosmiche elucubrazioni, vampe impro-rock, miraggi d’Oriente e batterismo free-form.

Quattro anni dopo, la band farà meglio con Success, che alla formula base aggiunge, come ricorda il batterista Kid Millions, echi di Jonathan Richman e Velvet Underground, nonché discrete dosi di quel pop chitarristico neozelandese che, tra gli anni Ottanta e il decennio successivo, trovò riparo all’ombra della mitica Flying Nun. L’ascolto delle sette tracce qui raccolte è godurioso, a cominciare da una "Beat Me To The Punch” il cui scampanellare chitarristico (che sembra evocare una variante jangle-pop dei Ramones) si trasforma in un’infuocata distorsione che si trascina come un drone schizofrenico praticamente fino all’ultimo solco. Anche l’abrasiva “Opportunities” e lo scoppiettante singolo di lancio “I Wanna Hold Your Electric Hand” scivolano via che è un piacere, la prima scortata da tutta una serie di ghirigori elettronici che fanno pensare a un brano dei Chrome seconda maniera, pur se con meno angoscia esistenziale nello specchietto retrovisore, la seconda una catchy love-song che corre verso orizzonti imprendibili.Con “Low Tide”, che dura quasi nove minuti, si entra in quel tunnel krautrock in cui ripetizione, ipnosi e ossessione vanno di pari passo. Un tunnel che gli Oneida conoscono benissimo e che, infatti, percorrono con grande convinzione dei propri mezzi, aiutati dalle tastiere di Fat Bobby, che nella seconda parte spingono il brano verso una rumorosissima conflagrazione al largo di galassie lontanissime.L’eco della grande stagione musicale tedesca, quella di CanFaust e Neu!, per intenderci, torna a farsi prepotentemente sentire nei quasi undici minuti di “Paralyzed”, dove sintetizzatori e chitarre filtrate trovano in un ritmo incessante lo sfondo contro cui proiettare il loro instabile duello fatto di fraseggi obliqui, coloriture astratte, pennellate vigorose e vagiti alieni.
Success è un continuo alternarsi di colpi “terreni” ben assestati e sguardi gettati oltre l’esosfera, come dimostra anche la doppietta finale costituita da “Rotten” e “Solid”, punk spedito tra le stelle, la prima, torrida jam heavy-psych, la seconda.




Contributi di Francesco Nunziata ("Happy New Year", "Rated O", "Absolute II", "A List Of The Burning Mountains", "Romance". "Success") e Antonio Ciarletta ("Preteen Weaponry")

Oneida

Discografia

ONEIDA

A Place Called El Shaddai's (Turnbuckle, 1997)

6,5

Enemy Hogs (Turnbuckle, 1999)

6,5

Steel Rod (Ep, Jagjaguwar, 2000)
Come On Everybody Let's Rock (Jagjaguwar, 2000)

6

Anthem Of The Moon (Jagjaguwar, 2001)

7

Each One Teach One (Jagjaguwar, 2002)

8

Secret Wars (Jagjaguwar, 2004)

6

Nice: Splittin' Peaches (Ace Fu, 2005)

6

The Wedding (Jagjaguwar, 2005)

7

Happy New Year (Jagjaguwar, 2006)

6,5

Seeds Of Contemplation (antologia, Jagjaguwar, 2007)

Preteen Weaponry (Jagjaguwar, 2008)

7

Rated O (Jagjaguwar, 2009)

6

Absolute II (Jagjaguwar, 2011)

6

A List of the Burning Mountains (Jagjaguwar, 2012)

5

Romance (Joyful Noise, 2018)

6

Success (Joyful Noise, 2022)

6,5

ONEIDA & LIARS

Atheists, Reconsider (Arena Rock Recording Co., 2002)

6,5

ONEIDA & RHYS CHATHAM
What's Your Sign? (Nothern-Spy, 2016)6
Pietra miliare
Consigliato da OR

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Live Report: Oneida a Parigi (Nouveau Casino)
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The Adversary (videoclip da Happy New Year, 2006)