Cat Power

Cat Power

Il bacio della donna-gatto

Una giovinezza vissuta da bohémien, girovagando per gli States. Poi, l'approdo nella New York underground e l'inizio di una carriera che l'ha portata nell'olimpo delle chanteuse dell'indie-rock. Tra atmosfere cupe e serenate malinconiche. Ritratto di Cat Power, fuoriclasse indiscussa del nuovo cantautorato americano al femminile

di Claudio Fabretti, Paolo Sforza

Cat Power sembrerebbe un perfetto nome d'arte per una cantante di pop commerciale in stile Sugababes, accompagnata da video con vestiti attillati, stivaloni e falsa sensualità finto sado-maso. Si tratta, invece, dello pseudonimo scelto da una graziosa ragazza americana, Charlyn Marie "Chan" Marshall, da cui non dobbiamo aspettarci niente del genere. In comune col carattere felino può avere forse un senso di solitudine, e l'ammaliante ambiguità di chi è a portata di mano ma mantiene un alone di mistero, analogie (o luoghi comuni) che si fermano lì. La sua musica è già stata definita dai critici d'oltreoceano "dark-folk". Sonorità acustiche dunque, rivestite da una patina oscura e da un onnipresente senso di malinconia. Le sue canzoni sono arrangiate in modo essenziale: soltanto un piano, oppure chitarra e batteria. Non serve altro alla sua voce rauca e seducente per arrivare al cuore dell'ascoltatore.

Quella di Cat Power è una storia americana fatta di nomadismo e passione. Figlia di genitori separati (il padre è un musicista) Chan vive l'adolescenza tra il North Carolina, la Georgia e New York. Sovente sola, di carattere schivo, coltiva una grande passione per la musica ascoltando i suoi miti: Otis Redding, Aretha Franklin, Bob Dylan. Inizia a suonare piano e chitarra a vent'anni ed esordisce con un'autoproduzione a 7" nel '93. Al termine di un lungo girovagare per gli States, approda nel sottobosco bohémien di Manhattan dove in occasione del concerto a fianco di Liz Phair, conosce il batterista dei Sonic Youth Steve Shelley e il chitarrista dei Two Dollar Guitars Tim Foljahn, che accettano immediatamente di unirsi a lei. Da quel momento in poi, Chan si fa chiamare Cat Power e inizia a prendere sul serio il suo lavoro. Resta tuttavia la sua timidezza cronica che la mette in difficoltà nelle esibizioni dal vivo. "Odio quando la gente applaude e tu devi dire 'grazie!' - racconta - È un momento imbarazzante. Preferirei che rimanessero buoni e zitti, e ascoltassero".

Prima di approdare alla Matador, una delle etichette indie più prestigiose degli Stati Uniti, Cat Power assembla due prove acerbe con Shelley e Tim Foljahn: l'Ep Dear Sir, sull'italiana Runt nel 1994, e Myra Lee su Smells Like Records (la label di Liz Phair e Solex) nello stesso anno. Il primo Ep, in particolare, rivela il suo talento nel raccontare feroci storie autobiografiche, all'insegna di un folk etereo, ma capace di impennate liriche alla Patti Smith. Canzoni come "3 Times" e "Headlights" si reggono sul suo caratteristico contralto stile Grace Slick, mentre brani come "Rockets" e "Itchyhead" mettono in mostra il chitarrismo spettrale di Foljahn e il drumming ossessivo di Shelley. L'umore cupo di Marshall conferisce un senso di gelo a queste delicate folk-song.

Il debutto con la Matador, What Would The Community Think? (1996), fa trasparire tutta l'emotività delle sue canzoni, alternando confessioni catartiche alla Nick Drake ("In This Hole") ad amare serenate nello stile di Laura Nyro ("Good Clean Fun", "King Rides By"), ballate mortifere ("The Fate of the Human Carbine") a elegie solenni ("Bathysphere"), mentre "Nude As The News" ed "Enough" possono contare anche sull'incedere incalzante del drumming.

Due anni più tardi è il turno di Moon Pix, registrato in Australia con la collaborazione di Jim White e Mick Turner, rispettivamente batteria e chitarra degli australiani Dirty Three. Il disco ripropone la musica rudimentale ed embrionale di Marshall, forte di una struttura melodica tanto scarna quanto enigmaticamente affascinante. Le canzoni di Cat Power sono trasposizioni di flussi di coscienza, trascrizioni in musica di una seduta psicanalitica o di una confessione a cuore aperto. I suoi gorgheggi sono lievi, ma penetranti, più vellutati delle corde aspre di Patti Smith, più cupi delle ninnananne di Hope Sandoval. Con "American Flag" si schiudono le porte di un mondo incantato e desolato al contempo; "Cross Bones Style" sembra quasi uscita da un disco di Van Morrison, tanto è intensa e magnetica; la chitarra sinuosa di "He Turns Down" si accompagna al flauto e alla ripetitività ipnotica del ritmo; l'irruzione del tuono nel valzer funereo di "Say" inaugura il rito iniziatico che prosegue con l'incalzante "Back Of Your Head", cupo ritratto di uno spacciatore, per culminare nell'urlo disperato di "Moonshiner", confessione di un contrabbandiere di whisky, che preannuncia la progressiva discesa negli Inferi, appena stemperata dalle note misticheggianti di "You May Know Him" e dall'invocazione ai bambini della dolente "Colors And The Kids", che riecheggia i momenti più teneri di Joni Mitchell. Ma i modelli sono anche le autoanalisi thriller di Lisa Germano, le odi appassionate di Sinéad O'Connor, gli episodi più scabri di Carole King. "Quando suono la chitarra e faccio una nota - racconta la cantautrice nata a New York - quella nota la sento vibrare sulle mie braccia e sul mio corpo, nelle ossa, nel cuore. E nella mente vedo dei colori e riaffiorano dei ricordi, delle atmosfere. Così, quando mi metto alla chitarra è quello che mi tengo dentro a portarmi ad esprimermi e a cercare di comunicare queste immagini, queste speranze, il mio dolore o la mia gioia, insomma tutto quello che sento in quel momento".

The Covers Record (2000) rivisita in modo assai personale classici e "oddities" del rock come "(I Can't Get No) Satisfaction" dei Rolling Stones, "Paths Of Victory" di Bob Dylan, "Wild Is The Wind" (uno standard che fu di Nina Simone e David Bowie), "Kingsport Town" (un traditional interpretato ancora una volta da Dylan), "Sea Of Love" di Phil Phillips (anno 1959), "I Found A Reason" dei Velvet Underground e "Salty Dog", cavallo di battaglia dei Procol Harum."Red Apples" di Smog è invece l'unico brano "contemporaneo". Una prova eccentrica, che dimostra tutto il talento di Marshall sia come (ri)arrangiatrice sia come interprete, pur senza aggiungere nulla al suo repertorio.

Ma è nel 2003, con You Are Free, che Cat Power, a 31 anni, perviene al suo classico "disco della maturità". Sbaglia chi teme di trovare nella produzione di Adam Kasper (Queen Of The Stone Age, Foo Fighters, Pearl Jam) un'introduzione di Marshall a suoni più commerciali, così come è vero che qualsiasi timore svanisce già dalle prime, sommesse, note di piano di "I Don't Blame you". E anche le altre, prestigiose, collaborazioni non fanno altro che impreziosire le struggenti ballate della Marshall:sia Dave Grohl (Nirvana) alla batteria nei pezzi più rock del disco, sia Warren Ellis (Dirty Three) al violino, ed Eddie Vedder (Pearl Jam) che, misurato come non mai, offre il suo controcanto in un paio di brani, sono ospiti che sembrano entrare quasi timidamente, in punta di piedi, nel rispetto dell'aura magica e vagamente onirica in cui sono sospese le canzoni di Cat Power, che per sensibilità può ricordare certe immersioni nei sogni di Kate Bush, o anche Joni Mitchell e Carole King, mentre tra le contemporanee i brani più movimentati strumentalmente rimandano alla prima PJ Harvey (nel potenziale singolo "Speak For me" e in "He War").

Dunque, se brani più corposi negli arrangiamenti non hanno celato l'espressività di Chan Marshall, e se si fa attenzione, sono tutt'altro che banali rock-song. Non abbiamo perso neanche la cantautrice delicata, malinconica e libera, appunto, di raccontare la sua fragilità così come la sua passione e i suoi desideri, tramite ballate scarne che sembrano stare in piedi per un miracolo, che si ripete, fortunatamente, molto spesso all'interno di You Are Free. Sono tanti i gioielli contenuti in questo disco, a cominciare dall'abile rilettura di brani altrui, "Werewolf" del cantante country-blues Michael Hurley, e "Crawlin' Black Spider" di Johnny Lee Hooker ribattezzata "Keep On Runnin", o nelle sue composizioni, il duetto meraviglioso con Eddie Vedder nella conclusiva "Evolution", o nel country-folk struggente di "Good Woman", splendidamente arricchita dal violino di Warren Ellis.

Con la sua voce fragile, che a volte sembra essere sul punto di spezzarsi, ma sa essere anche affascinante e misteriosa, con le sue canzoni tese e asciutte, Cat Power racconta storie che possono far piangere, come "Names", in cui elenca in maniera breve e incredibilmente commovente storie di bambini vittime di violenze. "Durante la mia infanzia - racconta - molti ragazzini mi raccontavano tante cose e presto ho realizzato che c'erano tanti di loro che erano stati oggetto di abuso, avevano perso la loro innocenza, subendo violenze sessuali o percosse. E la cosa assurda è che sembrava così normale. Mi dispiace di non essere stata all'epoca una persona più forte, non sapevo come reagire di fronte mia amica che mi raccontava che suo padre faceva sesso con lei fin da quando era piccola. E ora che sono adulta mi rendo conto che queste cose succedono continuamente, anche se nessuno ne parla". Ma il canzoniere di Marshall fa fede anche al titolo dell'album: "Don't you want to be free?" chiede in "Baby Doll", e ancora "We can all be free" in uno dei punti più alti dell'album: "Maybe Not", due ballate ridotte all'osso musicalmente, ma dove Cat Power ci chiede di unirci come possiamo ("Maybe not with words, maybe not with a look but with your mind...") al suo atto di libertà, grazie al quale ci regala questo disco così pieno di vita in tanti suoi aspetti. Chan Marshall si rivela a noi completamente, si mette a nudo. Eppure c'è qualcosa nella sua musica che ci sfugge, qualcosa di inafferrabile; forse è quella parte dell'altra metà del cielo che gli uomini non riusciranno mai a cogliere. O forse è questo il segreto di un capolavoro.

La popolarità raggiunta con You Are Free, tuttavia, può diventare un problema: "Non sono spaventata, semplicemente non la voglio e non mi piace - racconta Cat Power in un'intervista a Mtv - Ti ricordi le persone popolari al liceo? Ecco, generalmente erano le più crudeli. E lo stesso meccanismo lo si ritrova nella società: la ricerca della popolarità, il tentativo di ottenere soldi, potere e avanzamento sociale. È tutto una bugia e io non la voglio nella mia vita". 

Su The Greatest (2006) Sembra che la nostra bella Cat abbia voluto rifilarci un divertissement. Si è inventata un'anima vagamente soul, ha giochicchiato con archi, pianoforti scalcinati e chitarre from Memphis, non disdegnando certo quel suo delicato folk-blues per cui il mondo ha imparato ad amarla.
Circondata, tra gli altri, da musicisti del calibro di Teenie Hodges (chitarra), Leroy Hodges (basso, già alle prese con Al Green e Hi Rhythm Section) e dal batterista Steve Potts, la ragazza della Georgia apre le danze con la ballatona della title track, pregna di delicata emotività e con la voce adagiata in un letto di archi, mentre tutto plana su dolci accordi pianistici. Si lascia inebriare, poi, dal ciondolare di "Could We", con quei fiati gigioni che escono e rientrano come lame da un muro di gomma.
Alternandosi con fare disinibito, ballate e slanci vibranti vanno a costituire un equilibrio francamente precario. Si susseguono, quindi, "Lived In Bars" (mood moderatamente disperato in chiave soul-jazz), la vellutata elegia di "Islands" e le svagatezze in punta di piedi con tanto di piano honky-tonk di "After It All". Tutto nella norma, tutto sotto controllo. Neppure "The Moon", con i suoi toni dimessi, distillati con sapienza da piccoli accenti di organo e da un chitarrismo levigato ma deciso, alza troppo il tiro.
Ma certo, il folk corretto col blues di "Living Proof" e quello più spiccatamente rock di "Love & Communication" non sono forse capolavori? E che dire della ballata di "Empty Shell", dei sapori autunnali di "Willie" e dello scheletro valzer di "Hate" o di "Where Is My Love", colpo di classe finalmente supportato da un'ispirazione degna del passato: un abisso di solitudine ricoperto maldestramente dal drappo nero della malinconia.
The Greatest non è un disco brutto tout court, ma resterà tra i lavori minori della cantautrice georgiana.

Trascorrono due anni e Cat Power, per la seconda volta nella sua carriera si cimenta con un disco composto quasi esclusivamente da cover, questa volta scelte e interpretate secondo una sensibilità non distante da quella di The Greatest e quindi inevitabilmente influenzata dalla predilezione per sonorità bluesy, classiche e dall'impatto diretto.
Tuttavia Jukebox non è un mero esercizio di stile, ma un lavoro che nella scelta dei brani e degli autori da reinterpretare si dimostra tutt'altro che banale e anzi testimonia una ricerca approfondita e in linea con gli approcci sonori dell'ultimo periodo.
Se si eccettuano, infatti, l'interpretazione vellutata di "New York" e la declinazione al femminile del classico di Hank Williams "Ramblin' (Wo)Man", Cat Power si cimenta qui con originali impegnativi, che in alcuni brani la riportano alle origini della tradizione nera americana. È questo il caso della parte centrale del lavoro, che passa dal cuore soul di "Aretha, Sing One For Me", agli omaggi a due icone nere recentemente scomparse, James Brown ("Lost Someone") e la pioniera del "Mississippi Blues" Jessie Mae Hemphill ("Lord, Help The Poor And Needy"). Proprio in questi brani si avverte in maniera più netta la svolta sonora della Marshall, che li fa risultare un po' troppo ruvidi e polverosi per le sue qualità vocali, al contrario di quanto avviene, ad esempio, nella soffusa rilettura pianistica di "Don't Explain" di Billie Holiday. È in brani come questo che alla forma, sempre impeccabile, si unisce l'intensità interpretativa, fornendo risultati davvero ragguardevoli, come avviene, soprattutto, nei due brani da lei stessa firmati, ovvero l'auto-cover di "Metal Heart" e l'inedito "Song To Bobby", entrambi caratterizzati da ammalianti tocchi di pianoforte e ritmiche più smorzate. In simili contesti strumentali e compositivi si esalta lo splendore di un'interprete che continua a temere pochi paragoni ma che anche in Jukebox regala solo sprazzi incostanti della sua classe, alternati a passaggi meno convincenti e nel complesso tali da confermare Cat Power ancora al di sotto dei veritci della sua carriera, eppure ormai a proprio agio nel nuovo ruolo di consumata blueswoman, adesso rivestito con la grazia espressiva di sempre e in maniera lievemente più misurata rispetto all'album precedente.

A Jukebox tiene dietro di pochi mesi un'appenidce di altre sei cover, Dark End Of The Street, ove sono ancora il soul e il blues più classici il playground entro cui Cat Power si diverte ad esercitare le sue ben note doti interpretative, adesso tanto mature da trasformare la sua stessa immagine da quella di "ragazza con la chitarra" in "signora di gran classe", consapevole del suo charme e capace di dosarlo con sapienza, misurandosi anche con originali impegnativi e in buona parte alieni dalla sua originaria impronta artistica.
Non desta più sorpresa alcuna vederla cimentarsi in interpretazioni dai contorni notturni e fumosi di brani di Aretha Franklin (la title track e "It Ain't Far") o di Otis Redding - "I've Been Loving You Too Long (To Stop Now)" - né tanto meno abbandonarsi con movenze vellutate a un'obliqua ed elegantissima "Fortunate Son" dei Creedence Clearwater Revival.

L'avvenuta transizione stilistica è dimostrata in maniera ancora più evidente laddove riesce a piegare alla nuova fisionomia originali provenienti da tradizioni musicali ben diverse, come nel caso di "Ye Auld Triangle" dei Pogues, qui ammantata di un'aura desertica e alcolica, il cui incedere jazzy trova adeguato contrappunto in un cantato serico e in compassate note di pianoforte.
Sono proprio i passaggi al pianoforte a risultare in definitiva i più convincenti, o quanto meno quelli nei quali si riconosce maggiormente l'abituale personalità di Cat Power, che, in parte sovrastata dalla complessiva impostazione roots, emerge invece in primo piano nel soffuso ed intensissimo omaggio a Sandy Denny di "Who Knows Where The Time Goes".

Al culmine di sei anni privi di produzioni originali, inframezzati dall'ennesima tempesta sentimentale, Cat Power fugge nuovamente da se stessa, stavolta per suggellare nell'immagine e nel suono un momento che tra l'altro corrisponde al giro di boa dei suoi quarant'anni. Scappa a Parigi, si taglia di netto i capelli e in soli tre giorni dà forma alle canzoni scritte e rimuginate per tanto tempo, affidandole alle cure di Philippe Zdar (Cassius), che vi aggiunge un'imprevedibile patina sintetica, ritmi elettronici e sincopi funky.

Si tratta, fin dal primo superficiale impatto, della principale novità di Sun, che avviluppa le movenze della Marshall in un involucro teso a un'attualizzazione talora forzata, che finisce spesso per ridurne l'inconfondibile timbrica suadente a declamazioni ieratiche e sostanzialmente algide, piuttosto che pacificate. Qua e là, è ancora percettibile in filigrana la firma riconoscibile della sua scrittura, ma la parte preponderante del disco è tutto un pullulare di tastiere disorganiche e profluvi sintetici in bilico tra nostalgie eighties e tentativi di comprensibile svecchiamento di quanto realizzato in ormai oltre quindici anni di carriera. Comprensibile e giustificato, appunto, ma non per questo particolarmente riuscito, se il risultato appare troppo spesso asfittico, come se i nuovi abiti sonori di Cat Power le stessero un po' troppo stretti per poter essere indossati con disinvoltura.

Sun appare tuttavia come un nuovo inizio, una cesura netta col passato e, forse, l'apertura di un capitolo completamente diverso dell'esperienza artistica di Cat Power, che se non altro è tornata dopo tanto tempo a essere animata dalla voglia di raccontare se stessa in musica.

Sei anni dopo la gatta torna in scena dopo aver girato in lungo e in largo gli States e diversi luoghi del pianeta. Da questo suo “vagabondare” nasce il suo decimo disco, Wanderer. Un titolo che ben esplica lo spirito che pervade l’opera, con il folk, il blues del Delta e un ritorno sporadico ma eloquente a quelli che erano gli andazzi acustici del capolavoro del 2003, You Are Free frullati e strizzati in un secchio al solito colmo di malinconia, inquietudine, ma anche tanta voglia di rinascere e reinventarsi interiormente. Undici tracce che narrano dei suoi viaggi, dei suoi tanti incontri con i musicisti di fortuna per le strade polverose del sud degli States, laccate al meglio da Rob Schnapf (co-produttore con Tom Rothrock di diversi album del rimpianto Elliot Smith), produttore di lungo corso che fornisce quel calore necessario al mood inquieto della Marshall.
La cantautrice di Atlanta, dopo il mezzo passo falso di Sun, ritrova in buona parte la giusta consapevolezza e il proprio stile inimitabile, apparendo decisamente più serena fin dal video del singolo di lancio, “Woman”, in compagnia di quella che per certi versi potrebbe essere definita una delle sue tante “eredi”, Lana Del Rey, quantomeno sul piano della strafottenza artistica, il tutto senza contare la comune venerazione per gli stilemi dell’America del ventennio post ’45, tra Mustang, camicie a quadroni, stivaloni da cowboy, e bandiere a stelle e strisce praticamente ovunque. Un brano che però appare di gran lunga il più debole del lotto, con un refrain sempliciotto e versi sciatti che nulla aggiungono al diario di viaggio. 
Dopo un intro sussurrato con l’intento di condurre l’ascoltatore nei meandri di un album che si configura come un continuo raccontarsi attraverso istantanee di vita, prende quota la bellissima “in Your Face”, sostanzialmente la prima traccia del disco, sospesa su poche intense note al piano, la chitarra della Marshall riconoscibilissima anche dalla Luna, e parole che brn esternano un sentimento di rivalsa nei riguardi di un America che ha smarrito la propria identità, che continua a specchiarsi senza alzare lo sguardo, e senza muovere le chiappe, iniziando finalmente a conoscere il resto mondo per quello che è: “Your feel so above the hunger of the streets/ With your safe and your document in its place/ Your money, your gun, your conscience we like/ You forbid you a certain things/ See where you are as you begin to sink in your mirror/ In your mirror, in your mirror, in your face”. Un paese dunque seduto, incapace di ascoltare. L’invito a rialzarsi, a scendere per le strade e sintonizzarsi concretamente con il prossimo, è evidenziato dalle parole della successiva “You Get”, che nel passo acustico, e nella melodia centrale, riporta a galla alcune delle soluzioni adottate nel sopracitato “You Are Free”. Le emozioni decollano ulteriormente sulle note evocative al pianoforte di “Horizon”, nuova ballata ispirata, tra orizzonti perduti e sguardi lontani. 
La risaputa abilità di Cat Power di stravolgere le canzoni degli altri, mediante cover irriconoscibili e totalmente stravolte secondo i suoi canoni, riaffiora in “Stay”, presa in prestito niente popo' di meno che da Rihanna e cullata con pochi accordi al piano e un crescendo dolcissimo a cui è difficile resistere.

Con questo suo atteso ritorno, Chan Marshall rimette in moto un cuore selvaggio per troppi anni rimasto in soffitta, tra uscite poco illuminanti, concerti finiti male e look discutibili. Di certo, non è la gatta degli anni migliori, ma in certi momenti torna in auge quella capacità di graffiare le corde dell’anima che ben conosciamo e che mai smetteremo di amare.


Arriva periodicamente un tempo nella parabola del talento adamantino di Chan Marshall in cui la cantautrice di Atlanta deve ritornare a se stessa. Il modo in cui si ritrova e ritrova la strada del suo tormentato percorso tra arte e vita è reinterpretando le canzoni da lei più amate, che spuntano qua e là nei suoi album originali, come una crooner da club – quei locali dove l’ha immortalata il filmmaker Jem Cohen nell’intenso ritratto “From Fur City” (2002) – o un’interprete accesa di passione come Nina Simone, di cui in passato aveva magistralmente reinterpretato “Wild Is The Wind”. Così Chan veste i panni di Cat Power e diventa tutte le vite e tutte le voci delle canzoni che sente sue, per quel potere unico delle canzoni di diventare patrimonio di tutti.

Pronta a registrare canzoni nuove con la band, Cat Power scombina tutto e autoproduce Covers a Los Angeles con Rob Schnapf (Elliott Smith, Steve Gunn, Kurt Vile, M Ward), realizzando dodici reinterpretazioni originali di brani introiettati e fatti propri che compongono un repertorio a gradi diversi di passato, brani rinnovati dal suo arrangiamento attraverso una strumentazione rock e folk classica.
Incontriamo il presente con Frank Ocean (“Bad Religion”) e Lana Del Rey (“White Mustang”) – con cui aveva duettato nel precedente “Wanderer” (Domino, 2018) – ma anche i Dead Man’s Bones di Ryan Goslin (“Pa Pa Power”). Cat reinterpreta anche se stessa: dal brano “Hate” in “The Greatest”, di cui non aveva mai accettato la visione così cupa, trae “Unhate” ritornando in quiete: “We all have shit, trauma, something. There are times when you feel like that. But I needed to make it right”.
Ritroviamo anche la tradizione legata a doppio filo con gli affetti: la splendida elegia per voci e organo di “A Pair Of Brown Eyes” dei Pogues, in ricordo di una perdita dolorosa, e la forza rock che innerva in maniera inedita “Against The Wind” di Bob Seger per guarire la ferita di un’altra morte.

“Endless Love” di Iggy Pop, ascoltata nel film “Dogs In Space” (1986) con Michael Hutchence degli INXS, apre idealmente la seconda, vibrante parte del disco. L’asticella emozionale si alza sempre più, conducendoci dentro l’anima inquieta di Chan: tra lo scarno folk-rock di “These Days” di Nico (e Jackson Browne), anche questa vocalmente ripensata, e il country di “It Wasn’t God Who Made Honky Tonk Angels” di Kitty Wells – canzone scoperta da adolescente in alcune cassette trovate – per salire lungo i bordi del baratro con “I Had A Dream Joe” di Nick Cave & The Bad Seeds.
Chiude una doppietta da pelle d’oca: “Here Comes A Regular” dei Replacements, a ricordare quell’ultimo dollaro in tasca a New York infilato dentro il juke-box, e “I’ll Be Seeing You” di Billie Holiday, in memoria della nonna. Brani riproposti nella loro essenza.

Cat Power compone il songbook degli ultimi trovando l’equilibrio ideale tra The Covers Record e Jukebox. Ma soprattutto riesce a essere tutte le voci che evoca, insieme ai suoi fantasmi, e sempre immancabilmente se stessa, col suo stile, il suo eterno sgomento e la consapevolezza di essere sopravvissuta ai traumi, alle dipendenze, al dolore e al destino senza essersi persa come altri fragili con quel maledetto dono di verità e assolutezza. Oggi non abbiamo più Elliott Smith, Mark Linkous, Jeff Buckley e Vic Chesnutt, ma ci teniamo stretta una delle ultime cantautrici che riesce a farci sentire emozionati e vulnerabili.

Contributi di Francesco Nunziata ("The Greatest"), Raffaello Russo ("Jukebox", "Dark End Of The Street" e "Sun"), Giuliano Delli Paoli ("Wanderer"), Maria Teresa Soldani ("Covers")