Elvis Perkins

Elvis Perkins

Serenate per il giorno del giudizio

Figlio del protagonista di "Psycho" e di una celebre fotografa, Elvis Perkins è tutto tranne che il classico rampollo di una coppia celebre: rimasto orfano alla morte della madre negli attentati dell'11 settembre, è arrivato al debutto discografico solo dopo la trentina e ha sempre preferito centellinare nel tempo le sue canzoni. Dando vita a un cantautorato personale e visionario, in cui i fantasmi del passato evaporano nella luce dell'alba

di Gabriele Benzing

It’s a sad world after all

Sarebbe perfetto come nome d’arte: Elvis Perkins. Una sorta di omaggio ai giorni del “Million Dollar Quartet”. Ma non si tratta di niente del genere: Elvis è proprio il figlio di Anthony Perkins, volto indimenticabile di “Psycho”, morto di Aids nel 1992. La madre, Berry Berenson, famosa fotografa per riviste come “Life” e “Vogue”, era a bordo dell’aereo che si schiantò per primo contro la Torre Nord del World Trade Center la mattina dell’11 settembre. Una concatenazione di sventure degna della biografia di Mr. E, che non ha potuto fare a meno di segnare profondamente la personalità artistica di Elvis Perkins.
Cresciuto tra New York e Los Angeles, il giovane Elvis impara a suonare il sax e la chitarra prendendo lezioni da Prescott Niles degli Knack (sì, proprio quelli di “My Sharona”…) e si fa conoscere andando in tour con gente come Okkervil River, Pernice Brothers, My Morning Jacket e Cold War Kids. Il passaparola virtuale e l’inserimento di un paio di sue canzoni nella colonna sonora di “Fast Food Nation” di Richard Linklater e in un episodio del telefilm “The O.C.” fanno il resto.

Così, superata da poco la trentina, Perkins arriva all’esordio discografico nel 2007 con Ash Wednesday, raccogliendo un pugno di brani dalla lunga gestazione, scritti per metà prima della morte della madre (cui il disco è dedicato) e per l’altra metà nel periodo successivo. Registrate a Burbank e Los Angeles, le composizioni di Ash Wednesday prendono forma con l’aiuto dell’amico Ethan Gold alla produzione (anche lui songwriter in cerca di fortuna), oltre che di una multiforme orchestra di collaboratori, che annovera tra le proprie file anche il fratello Oz Perkins, attore come il padre.
Insomma, ce ne sarebbe già abbastanza per creare un personaggio indie da manuale: ma la musica di Elvis Perkins riesce a cancellare subito ogni possibile ombra di scetticismo, con il suo repertorio di canzoni dall’impronta classica e dalle nobili ascendenze, vibranti di carne e sangue e di ombre di fantasmi.

Ash Wednesday mette in mostra le proprie credenziali sin dall’incipit di “While You Were Sleeping”, invitando il raffinato eloquio di Leonard Cohen a trascorrere una notte in bianco con il torrenziale sonnambulismo dei Destroyer. Ed ecco la chitarra acustica e la tonalità nasale di Elvis Perkins accompagnarsi agli sbuffi della batteria e al luccichio degli ottoni, come in una triste cavalcata verso la polvere del tramonto.
Le movenze gitane del violino di “All The Night Without Love” danzano sugli accenti fumosi del contrabbasso. Poi, uno sprazzo di elettricità concede un’isolata svagatezza pop alla cantilena alla Neutral Milk Hotel di “May Day!”, facendo da contraltare al funereo violoncello del valzer folk di “The Night & The Liquor”.
I Decemberists di “Castaways And Cutouts” osservano compiaciuti, candidandosi come pietra di paragone più immediata per le atmosfere di Ash Wednesday. Il Dylan dei tardi anni Settanta è lì accanto, pronto a rivendicare la paternità di brani come “Emile’s Vietnam In The Sky”, il cui violino riporta in vita le scorribande dei tempi di “Desire”. E la tromba jazzistica di “Sleep Sandwich”, con le sue sottolineature di timpani, non sembra forse appartenere ad un Rufus Wainwright spogliato di magniloquenza?
Ma non basta snocciolare un elenco di modelli e rimandi per catturare l’essenza di Ash Wednesday. Pur scontando le comprensibili esitazioni di un esordio, Elvis Perkins rivela tutta la propria personalità quando non ha timore di mostrarsi nudo, come nei sofferti volteggi e nei drammatici fremiti di archi della title track. “All this life is Ash Wednesday”, annuncia solennemente Perkins. Polvere come quella delle macerie sparse sull’alba di mercoledì 12 settembre, A.D. 2001, quando il nuovo millennio conobbe il proprio terribile Mercoledì delle Ceneri. “No one will survive Ash Wednesday alive/ No soldier, no lover, no father, no mother/ Not a lonely child”.
L’interrogativo di “Emile’s Vietnam In The Sky” aleggia come cenere nel vento: “Do you ever wonder where you go when you die?”. E la tristezza di cui mormora dolcemente Perkins in “It’s A Sad World After All”, accompagnato dall’eco impalpabile della voce di Ariana Lenarsky, non è che il riverbero di quella stessa domanda.
Da “Ash Wednesday” all’epilogo pianistico di “Good Friday”, Perkins sembra allora suggerire che la vita si dipana in una misteriosa traiettoria tra Mercoledì delle Ceneri e Venerdì Santo, tra la coscienza della propria fragilità e la realtà del sacrificio come legge dell’amore. “Come lay here beside me/ And I’ll fear no death”, è la preghiera che ispira i versi di “Good Friday”. Come un grumo di polvere che non smette di esigere l’eternità.

 

On any given doomsday

Elvis PerkinsA due anni dal suo Mercoledì delle Ceneri, Elvis Perkins si riscopre a capo di una banda di musicanti dallo spirito nomade in Elvis Perkins In Dearland. Più una famiglia, in realtà: Wyndham Boylan-Garnett, alle tastiere, è come un fratello per lui, fin da quando le loro madri hanno fatto l’una all’altro da madrina; Nick Kinsey, alla batteria, è da sempre il migliore amico di Garnett; Brigham Bough, al contrabbasso, è un vecchio compagno di scuola di entrambi. “Elvis Perkins In Dearland”, così hanno deciso di battezzarsi: un nome che sembra il titolo di un racconto fantastico, la destinazione di un viaggio immaginario. Insieme a loro, l’intimismo del folgorante esordio del songwriter americano si veste di una nuova visceralità, lasciandosi alle spalle le sofferenze del passato senza rinunciare alla propria cognizione del dolore.
“Non amo il termine folk-rock”, afferma Perkins a proposito della musica cresciuta per mesi sul palco al fianco dei propri compagni d’avventura. “Preferisco parlare di folk and roll, descrive meglio l’esperienza della band”. Ed ecco allora la sua voce ondeggiare sugli impasti di organo e armonica di “Shampoo”, danzando con l’eco della classica “Black Is The Color (Of My True Love’s Hair)” su un ritmo risoluto e sinuoso: “Black is the color of my true love’s arrow, just the color of my blood”.
L’incalzare delle percussioni di “Hey”, con Becky Stark dei Lavender Diamond ad accompagnare il canto di Perkins, acquista il sapore arrembante dei Beirut; l’ardore febbrile di “I Heard Your Voice in Dresden” assume le sembianze di un gospel declinato alla maniera degli Okkervil River; ma è la trascinante sagra di “Doomsday” a segnare in maniera indelebile lo spartiacque rispetto al passato, affidandosi a una fanfara da funeral band e al vibrare serrato del contrabbasso.
Il suono della banda di Perkins si arricchisce di spessore con l’ausilio della produzione di Chris Shaw, già al fianco di Jeff Buckley, Wilco e Bob Dylan (con cui ha vinto un Grammy per “Love And Theft”). “C’è uno spettro sonoro ed emotivo più ampio”, riconosce Perkins stesso. Dall’intensità melodica di “Chains, Chains, Chains” sembra così quasi naturale passare al blues spigoloso dalle reminiscenze waitsiane di “I’ll Be Arriving”, tra un addensarsi d’organo e un colare di ottoni marchiati dal timbro tagliente della voce.
Per ritrovare i chiaroscuri di Ash Wednesday bisogna rivolgersi alla cullante “Hours Last Stand” o al pellegrinaggio solitario di “Send My Fond Regards To Lonelyville”, con un violino zingaresco e uno sbocciare di fiati a condurre attraverso strade popolate di lingue biforcute, sovrani ciechi, inni silenziosi e prismi di lacrime.
Lo spettro della fine dei tempi aleggia sui versi di Perkins come un segno della mortalità umana, dalla fervida danza finale di “Doomsday” fino alle visioni escatologiche di “I’ll Be Arriving”: “I’ll be arriving ‘til the day I die, when the golden chair it comes down from the sky”. Il destino della storia è il destino dell’istante presente: a dargli significato è la scintilla di eternità che anima l’epilogo di “How’s Forever Been Baby”: “I would bury it in ice for all of eternity to see how’s forever been baby”.
La vita è un soffio fugace, appena il tempo di contare fino a tre e sussurrare un addio. “123 goodbye, I love you more in death than I ever could in life”. Quella scintilla non si arrende nemmeno di fronte al calare della notte: sembra sopraffatta dall’oscurità, ma il suo riverbero è già l’inizio dell’alba.

All’album Elvis Perkins In Dearland fa da corollario sempre nel 2009 The Doomsday Ep, che prosegue (e approfondisce) l’immersione nelle radici dell’Americana, a partire dalla spettrale rilettura della tradizionale “Gypsy Davy”. Le coordinate si spostano verso gli anni Cinquanta con il luccichio vintage di “Stay Zombie Stay” e “Stop Drop Rock And Roll”, per poi lasciarsi trascinare dal gospel di “Weeping Mary” e della versione rallentata di “Doomsday”.
Da lì in poi, diventano sempre più rare le occasioni di sentire la voce di Perkins: nel 2010 offre alla compilation “Sweetheart” di Starbucks la sua cover di “Teneme En Tu Corazon (Keep Me In Your Heart)”, nel 2014 interpreta “Congratulations” (firmata da Dylan per i Traveling Wilburys) nella raccolta “Bob Dylan In The 80s”. Nell’era dei social media, la sua non è una semplice lontananza dai riflettori: è in pratica un esilio volontario dalla vita digitale, destinato a durare quasi sei anni.

 

I came for fire, I stay for love

I AubadeFiltra appena la luce dell’alba, timida come un sussurro. Scopre gli amanti ancora abbracciati, mentre l’affacciarsi del giorno li chiama. Un addio, una promessa. I poeti la chiamano aubade: è un canto di separazione, è un canto di speranza. È una serenata all’aurora.
Per Elvis Perkins, il gioco delle assonanze associa misteriosamente aubade a obbedire: “Mi ha indotto a considerare a chi e a che cosa ho obbedito, invece che alla legge naturale e a quella sovrannaturale”. Proprio per questo il suo terzo disco, che vede la luce nel 2015, si intitola I Aubade. “Per me è più un verbo al tempo presente che non un antico sostantivo: è tutto quello a cui rivolgo aspirazioni e speranze, offrire all’accrescersi della notte una suggestione di alba”.
I Aubade riflette lo stesso approccio del lungo silenzio di Perkins: “Mi sono misurato con la realtà”, spiega lui stesso. “Nei miei panni, nella mia vita, vivendo e basta. Le cose richiedono tempo, e il tempo è relativo”. Un disco che segna una cesura netta con il passato: i compagni di band, Wyndham Boylan-Garnett e Nick Kinsey, stavolta restano sullo sfondo, in mezzo a una lunga e variegata lista di collaboratori (in cui spicca tra i tanti il nome di John Congleton). Gli studi professionali lasciano il posto a un registratore a quattro tracce, pronto a catturare suoni e rumori tra le mura di casa, a New York, oppure in una vecchia roulotte o in qualche camera d’albergo in giro per l’America. E dalle certezze di un contratto discografico si passa all’avventura di un’etichetta autoprodotta, battezzata MIR.
Un pulviscolo di fruscii, schegge di arpeggi, l’eco di una voce: “On Rotation Moses” detta subito il clima del nuovo inizio musicale di Perkins. È un suono sgranato, opalescente, fatto di melodie frammentarie e di continue interferenze. All’inizio Perkins aveva pensato di intitolare l'album “Waves”: e in effetti gli inserti che vanno a distorcere l’intelaiatura acustica dei brani sembrano onde radio provenienti da luoghi sconosciuti.
L’elegia di “& Eveline” si fa cullare dal canto di Cornelia Livingston, il carosello di “AM” si disgrega in brandelli di rumore bianco. Ci sono ballate coheniane in incognito (“I Came For Fire”), ci sono cori pronti a sbocciare inattesi (“My 2$”, con l’ausilio di Becky Stark dei Lavender Diamond). Eppure, tra refoli di flauto, tintinii di xilofono e tremolii analogici di minimoog, la suggestione delle atmosfere non basta a colmare la mancanza nel disco di canzoni davvero compiute, all’altezza del songwriting dei precedenti lavori di Perkins.
Spose in parata e veleni a marchio Monsanto si intrecciano nei versi onirici di “It’s Now Or Never Loves”, mentre in “Hogus Pogus” un cuore suino trapiantato nel petto di un uomo offre una sorta di sarcastico ribaltamento del “Cuore di cane” bulgakoviano.
I Aubade è un inno alla riscoperta delle leggi naturali del vivere, ai tempi dilatati dell’attesa. Un’attesa tratteggiata sull’aura lattiginosa di “My Kind” con un falsetto che sa di Devendra Banhart: “Come outnumber the days I have waited/ So many suns erased them/ So grey-faced I have faced them/ League upon league I have turned them/ Awaiting my kind”. Per aspettare qualcosa occorre sapere ancora che cos’è la speranza. Ed essere pronti a vegliare fino allo spuntare del giorno.

Due anni dopo, Perkins torna a farsi sentire con la sarcastica invettiva politica di “There Go The Nightmericans”, incubo satirico che sembra emergere dai “Basement Tapes” dylaniani. Nel frattempo, la collaborazione con il fratello Oz frutta le colonne sonore (quasi interamente strumentali) per due pellicole all’insegna di un horror atmosferico e spettrale, “The Blackcoat’s Daughter” (successivamente ribattezzato “February”) e “I Am The Pretty Thing That Lives In The House”. La voce di Elvis fa capolino solo sui titoli di coda del primo film, con la sinistra nenia in falsetto di “Outcantation (The Blackcoat’s Daughter)”.
Bisogna aspettare l'anno pandemico 2020 per ritrovarlo però in un album vero e proprio. Durante i mesi del lockdown, Perkins dedica proprio all’Italia un videomessaggio di solidarietà: “Ciao amici in Italia, questo è Elvis Perkins che scrive dalla California con questo antico amplificatore italiano e questo antico sangue italiano. Mando grandi onde d'amore e luce da qui a lì”. 

 

Why can’t you be closer to me?

Creation MythsIn principio era Marilyn, o forse la Grande Madre. Nel 2020, per il suo album numero quattro, Elvis Perkins invoca fin dal titolo la mitologia della creazione. Ma la cosmogonia rappresentata in copertina sembra più una visione partorita dalla mente di David Lynch: una divinità arcaica che regge uno specchio, un uovo cosmico che svela una giovane Marilyn Monroe, la spirale di un serpente, la volta celeste… Un sogno alchemico sull’inizio di tutto.
I miti delle origini, insegna Mircea Eliade, sono il modello di tutte le azioni umane. Sono il riflesso di ogni nostra rinascita, potremmo dire. E infatti, Elvis Perkins mette in scena la genesi dell’universo per parlare di se stesso, di quello che era e di quello che è diventato.
“Sono tutte canzoni scritte tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana”, confessa Perkins a proposito dei nove brani di Creation Myths: un reperto del suo affacciarsi al mondo come artista, agli albori del millennio. Perché allora registrarle vent'anni dopo? “Le ho portate con me sin dalla loro genesi e ho sempre sospettato che a un certo punto sarebbero state documentate. Ma non si sa mai quando arriva finalmente il momento giusto”. Il momento giusto, appunto: il momento di guardarsi allo specchio, di cercare sul proprio volto i segni della strada percorsa.
Tutt’altro che una raccolta di fondi del cassetto, insomma. Piuttosto, una riscrittura del passato che riesce a prendere la forma di un nuovo punto di partenza: “a volte fai le cose migliori quando non sai ancora che cosa stai facendo”. In Creation Myths c’è tutta la vena cantautorale degli inizi, intatta come non la si sentiva dai tempi di Ash Wednesday. Ma c’è anche l’impronta della ricerca intrapresa con il precedente I Aubade, che fa capolino nell’elaborazione più obliqua dei brani. E, su tutto, c’è la voce di Perkins, più affilata e sinuosa che mai nel condurre la danza.

 

Ritmo rotondo e melodia discendente, “Sing Sing” si destreggia tra grattacieli di carta e astrologi hollywoodiani su un’aura tremolante di miraggi. Poi, i fiati di “See Monkey” ricreano l’incanto della banda di Elvis Perkins In Dearland, tratteggiando i confini impossibili di un’Americana balcanica e meticcia. Archi e tastiere fluttuano sulle note di “Iris” con un senso di nostalgia vagamente beckiano (vedi alla voce “Sea Change”), mentre la brezza country-folk di “Mrs. & Mr. E” scivola con una spensieratezza inusitata per il songwriter americano.
Tra ballate dolcemente passatiste (“See Through”) e sagre di organetti e ottoni (“Promo”), al cuore di Creation Myths c’è lo struggimento per la ricerca di una connessione con gli altri, e al tempo stesso la consapevolezza di un’estraneità che sembra non poter essere colmata. “Does anyone/ Ever know another?”, si chiede Perkins tra il pianoforte e la pedal steel di “I Know You Know”. “What does anyone want/ From another/ Other than the time/ And the secret number?”. Nel sistema copernicano dell’io, il tu non è che un satellite: “Are we heliocentrics/ Like the summer?”.
Ma è una mezza vita, quella in cui gli altri sono solo proiezioni di noi stessi. “The Half Life” ha il passo caracollante di un Townes Van Zandt che si reincarna sotto le spoglie di Andrew Bird: il piano si srotola lieve, il violino sa di campi appena tagliati. Forse la sola unità possibile è proprio quella con ciò che resta totalmente altro: “Do you think that maybe/ We could make one of two?”. Un io e un tu, l’asse misterioso del cosmo. “Would it ever do/ A me and you?”.

Elvis Perkins

Discografia

Ash Wednesday (XL, 2006)

7,5

Elvis Perkins In Dearland (XL, 2009)

7,5

The Doomsday Ep (XL, 2009)

7

I Aubade (MIR, 2015)

6,5

Creation Myths (MIR / Petaluma, 2020)

7,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

All The Night Without Love
(da "Ash Wednesday", 2006)

While You Were Sleeping
(live, da "Ash Wednesday", 2006) 
Doomsday
(live, da "Elvis Perkins In Dearland", 2009)
Shampoo
(live, da "Elvis Perkins In Dearland", 2009)
Chains, Chains, Chains
(da "Elvis Perkins In Dearland", 2009)
I Came For Fire
(live, da "I Aubade", 2015)  
Anonymous
(da "Creation Myths", 2020) 

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