Matt Elliott

Matt Elliott

Mutazioni folk di un manipolatore di suoni

Nella sua carriera solista l'ex-leader dei bristoliani Third Eye Foundation si è indirizzato verso atmosfere che, partendo da uno sghembo cantautorato post-rock, si sono fatte sempre più rarefatte, oscure e intimiste. Un percorso all'insegna di uno spleen depresso, quasi rassegnato alla follia del mondo. Ecco il racconto di tutte le sue trasformazioni

di Raffaello Russo

Flussi e riflussi, trasformazioni stilistiche, destrutturazioni e rideclinazioni sonore hanno costantemente caratterizzato l'espressione artistica musicale nel tormentato passaggio tra i due secoli, nella sua tensione al futuro e nel cosciente recupero del passato. Certamente rappresentativa di tali transizioni è la figura di Matt Elliott, artista nato musicalmente nell'inquieta Bristol di metà anni 90 e recentemente trasferitosi in Francia, ove in un pacifico e volontario isolamento si è lasciato alle spalle sperimentazioni industriali ed elettroniche, solo latamente ascrivibili al post-rock, per trasformarsi in un colto e impegnato compositore moderno, affascinato dal cantautorato francese, dalla musica classica e dal folk mitteleuropeo. Le opere uscite sotto il suo nome negli ultimi tre anni sono il frutto del suo soggiorno francese, ma la sua storia viene appunto da lontano, precisamente dalle esperienze bristoliane al fianco di band quali Amp, Crescent Movietone e Flying Saucer Attack e da quella, già personalissima, di Third Eye Foundation.

Tra il 1995 e il 2001, Third Eye Foundation pubblica sei album, comprese le collaborazioni di In Version e i remix di I Poo Poo On Your Juju: l'esperienza artistica di Third Eye Foundation è varia e mutante, a cominciare dall'alienante rumorismo post-industriale del debutto Semtex, sei lunghi e ostici brani tra distorsioni, clangori e palpitazioni sinistre, appena attutite dall'eterea voce di Debbie Parsons (in seguito protagonista del progetto Foehn) su "Dreams On His Fingers" e dalle fosche dilatazioni ambientali di "Next Of Kin" e "Rain". Sulla ruvida cupezza elettrica dell'esordio e su quella, ancora più devastata e inquietante, dell'album di remix In Version, Elliott innesta ben presto austeri battiti elettronici, dando luogo, nel successivo Ghost e nell'Ep Sound Of Violence (usciti entrambi nel 1997), a una sorta di obliquo jungle-dub industriale, fatto di suoni disarmonici, rumorosi e rabbiosamente destrutturati, intervallati, tuttavia, da più dilatati episodi di sinistra psichedelia ambientale, come "The Star's Gone Out" e "The Out Sound From Way Out", nei quali il rumore si trasforma in impalpabili drone che plasmano spettrali composizioni, accostabili a quelle di Aphex Twin e in parte anche ad alcune delle coeve produzioni di Piano Magic, pur decisamente più lievi e aggraziate.

Nella musica di Elliott, in questo periodo, si riscontra un intento palesemente distruttivo e, ancora represso a fatica, quel disagio profondo nei confronti del mondo esterno che ne caratterizzerà in chiave profondamente diversa le produzioni più recenti. Tracce oscure e atmosfere poco rassicuranti segnano anche il successivo You Guys Kill Me, nel quale però la furia dei lavori precedenti inizia a placarsi, temperata da una ricerca compositiva tutta incentrata sulla manipolazione dei suoni e sull'intreccio tra elemento sintetico e reale, della quale sono perfettamente rappresentavi gli oltre otto minuti di "An Even Harder Shade Of Dark", brano che termina con percussioni jazzate e con un suono di pianoforte appena accennato. Si tratta per ora solo di esperimenti, frammenti tra i tanti dispersi in un brodo primordiale ancora fondamentalmente rumoroso e confuso, sezionato da un prevalente incedere jungle.

Nel successivo Little Lost Soul, gli angoli della musica di Third Eye Foundation si smussano ulteriormente e inizia a emergere una maggiore raffinatezza nelle ambientazioni sonore, pur sempre riconducibili a uno stile destrutturato, nel quale l'uso dell'elettronica diventa gradualmente funzionale a una dilatazione ricercata e dai tratti quasi ambientali. Le composizioni mantengono intatte e anzi accentuano i loro connotati spettrali, ma sulle stesse si innesta sempre più netta, soprattutto negli ultimi tre brani dell'album, quella vena malinconica che poi caratterizzerà la produzione "solista" di Elliott. A ciò si aggiunge inoltre, nella prima parte del lungo brano "Lost", l'emersione del gusto per l'elegante intersezione tra loop, suoni acustici e melodia, altresì riscontrabile nell'album di remix I Poo Poo On Your Juju (comprendente rimaneggiamenti di brani, tra gli altri, di Blonde Redhead, Yann Tiersen, Tarwater, Remote Viewer), nel quale inoltre l'elemento vocale, già presente in prevalente forma campionata nell'album precedente, si affaccia in maniera più compiuta, diventando parte integrante di un approccio "dal volto umano" all'elettronica, discendente da un lato dall'oscuro retroterra wave del suo autore e dall'altro da un crescente interesse per la declinazione armonica e organica di quanto fino ad allora soltanto destrutturato.
Ma, per quanto col senno di poi si possano qua e là riscontrare i prodromi della sua trasformazione artistica in alcuni dei lavori precedenti, la cesura nel percorso artistico di Matt Elliott coincide col suo trasferimento in Francia e con il correlativo abbandono del moniker Third Eye Foundation (che pure farà ancora una fugace comparsa nel 2004, nell'ulteriore, interessante album di remix OuMuPo #1).

Quasi contemporaneamente al dieci pollici dai perduranti tratti elettronici e sperimentali Borderline Schizophrenic (tre brani da ascoltare alternativamente a 33 o 45 giri), Elliott licenzia infatti nel 2003 il primo album a suo nome: The Mess We Made, opera dedicata alla confusione dei sentimenti dell'animo umano, che segna altresì la prima esplicazione della sua profonda riflessione, personale e politica, sulla contemporaneità.
Nonostante la perdurante presenza di elementi elettronici - tuttavia ben più discreti e sfumati che in passato - l'album presenta un approccio quasi "classico", non così distante dalle composizioni di autori francesi quali Yann Tiersen e Sylvain Chauveau, ed è incentrato in prevalenza su una strumentazione rural-orchestrale, dominata da esili melodie pianistiche, supportate di volta in volta da archi, fisarmoniche e innesti acustici. A ciò si aggiungono, in una forma canzone indolente e spesso appena accennata, le dimesse interpretazioni di Elliott o quelle, evocative o allucinate, di inafferrabili voci corali, presenti ad esempio nell'iniziale "Let Us Break" e in "The Sinking Ship Song".
Le strutture musicali sono ridotte all'osso, fragili armonie guidate dal pianoforte sulle quali la quasi naturale tendenza di Elliott alla manipolazione dei suoni innesta passaggi acustici dalle sonnolente tinte folk (in particolare nella conclusiva "Forty Days") e soprattutto copiosi loop elettronici, che sporcano e aggiungono un'aura sinistra a quasi tutti i brani. L'utilizzo dell'elettronica si manifesta per lo più con discrezione, a incorniciare e conferire torbidità da brivido anche a una composizione di limpida classicità come "Cotard's Syndrome", nella quale il suono cadenzato e romantico del pianoforte si affianca a pochi accordi acustici che quasi giocano a intersecarsi con sottili loop in reverse. Invece, in "Also Ran" e "The Mess We Made", il battito elettronico, per quanto ovattato, si fa febbrile, squarciando col suo irrompere sincopato e quasi danzereccio melodie eteree e inafferrabili. Inoltre, in un disco impostato sui contrasti, stridente è quello tra la modernità incarnata da beat e trattamenti elettronici e lo spirito fuori dal tempo di un folk ricercato e intenso, che si esprime con ricchezza di suoni nelle due vere e proprie ballate "The Dog Beneath The Sun" e "Forty Days".
L'effetto dell'opera è nel complesso straniante, nel suo ben riuscito intento di combinare passato e presente, classicità e modernità, dando luogo a un toccante quadro di sottile disperazione. Il disegno artistico ad essa sotteso è definito e senza dubbio ambizioso, pur risentendo inevitabilmente almeno in parte del retroterra più aspro e ostico di Matt Elliott, il quale tuttavia dimostrerà ben presto che un album complesso ed efficace come The Mess We Made è per lui non un punto d'arrivo, ma soltanto il primo passaggio verso un'evoluzione ulteriore.

Nel successivo Drinking Songs, le atmosfere si fanno infatti ancora più rarefatte, oscure e intimiste, con il quasi totale abbandono dell'elettronica e l'apertura di composizioni "classiche" a una pluralità di contaminazioni, prime tra tutte quelle del folk e della musica tradizionale europea.
Oltre a una lunghissima rivisitazione dell'album precedente (la finale "The Maid We Mess", oltre 20 minuti di miscellanea variamente decostruita di brani colà editi), Drinking Songs presenta sette composizioni dai toni foschi e decadenti, evocativi di uno spleen che nemmeno l'oblio alcolico richiamato dal titolo riesce a lenire. Elliott continua qui a comunicare in musica la propria visione drammatica e fatalista del mondo contemporaneo, del quale non può far altro che constatare impotente l'irrimediabile e tragico destino, segnato dalla follia della guerra e della corsa agli armamenti in genere. A tale pessimistica weltanschauung sono esplicitamente ispirati molti dei brani: "The Kursk" rievoca la tragedia del sottomarino nucleare russo, a partire da oltre un minuto di clangori e stridori inquietanti, che poi lasciano pian piano il campo a una lunga elegia funebre dai toni solenni e opprimenti, fino ad arrivare alla dissolvenza e all'assordante silenzio finale, chiaro ed efficace invito alla riflessione.
I medesimi toni e la stessa pregnanza di significati permeano "A Waste Of Blood" - dedicata, come recitano le note di copertina, a tutte le vittime della scellerata politica estera statunitense - nella quale il pianoforte di Elliott richiama in maniera cospicua il minimalismo e l'iterazione compositiva di Sylvain Chauveau, caratteristiche sulle quali viene qui innestato un canto lamentoso e sinistro, destinato a involgersi su se stesso in atmosfere decisamente spettrali, anche grazie alla manipolazione dell'elemento vocale.
Eppure, l'incipit dell'album sembra atto a destare sensazioni poi smentite dalla restante parte del suo contenuto, perché l'iniziale "C.F. Bundy" presenta dapprima una trama complessa e strutturata, attraverso la quale si intravede addirittura una deriva verso suoni vicini ai paesaggi sonori sognanti descritti da Savoy Grand o Piano Magic (che qua e là, tuttavia, riaffiora), ben presto sovrastata dall'ormai abituale cantato tetro e da un piano dalla ritmica cadenzata, che rimane poi ad accompagnare fisarmoniche e violoncelli striduli, in una piccola sinfonia folk da "casa degli spiriti" baroccheggiante, prima di dissolversi in un sempre più lento carillon finale. Simile tema portante di piano è proprio anche della minimale e cinematica "The Guilty Party", il cui andamento ben poco ricorda l'eccitata ed effimera euforia successiva a un'allegra sbornia, quanto piuttosto la disperazione e la percezione di vacuità successiva a una solitaria serata alcolica trascorsa in qualche umido e malandato bistrot di periferia, ormai prossimo all'orario di chiusura.
Toni in parte più lievi emergono laddove Elliott esprime compiutamente la sua predilezione per il recupero di una dimensione folk e acustica: così, in "Whats Wrong" il ritmo diventa meno cupo, elevandosi in una ballata rurale obliqua e dondolante, suonata da una stravagante orchestrina capace di trascinare l'uditorio raccontando filastrocche con il preponderante accompagnamento di una fisarmonica; mentre l'apparentemente placida - ma non per questo meno sofferta - "What The Fuck Am I Doing On This Battlefield?" riporta a calde atmosfere introspettive attraverso il semplice dialogo tra l'onnipresente pianoforte e una chitarra latineggiante.
Drinking Songs è soprattutto un album di spiccata intensità drammatica, la cui complessa varietà estetica riesce in definitiva a catturare, nonostante in esso permangano taluni elementi irrisolti nella dimensione artistica di Elliott, ormai manifestamente avviato verso un'interpretazione colta e personalissima del moderno cantautorato, ma ancora senza dubbio debitore nei confronti della sua esperienza nell'assemblaggio di suoni acustici ed elettronici che, a ben vedere, continua tuttora a perpetuarsi, benché secondo un registro espressivo profondamente mutato.

La trasformazione cantautorale di Matt Elliott trova poi la sua consacrazione in Failing Songs, album nel quale, a margine delle sue disperate considerazioni sulla fragilità e l'inevitabile fallacia umana, l'autore mette definitivamente da parte gli ultimi postumi elettronici, votando la sua incredibile capacità di rielaborazione sonora all'equilibrata combinazione tra radici culturali europee, componenti classiche e sensibilità sostanzialmente "post". La stretta relazione che lega Failing Songs all'album precedente è evidente, oltre che nelle atmosfere e nel mood, già all'ascolto del coro e delle prime note di chitarra della spettrale ballata di disillusione umana e politica "Our Weight In Oil", che riecheggiano palesemente quelle di pianoforte di "The Guilty Party".
Ma Failing Songs non può essere semplicisticamente liquidato come una sorta di secondo capitolo di Drinking Songs, poiché sembra invece soprattutto il frutto di una ancor più coesa matrice concettuale e stilistica, coerentemente espressa in dodici brani concisi, mai sovrabbondanti, che da un lato ripropongono la disincantata andatura ciondolante da "bateau ivre" dei cori ("Our Weight In Oil") e dall'altro giocano ad alternare antinomie non solo musicali, riducendole a unità - come nel finale di "Chains" e nella sequenza veloce-lento delle due brevi "Good Pawn" e "Compassion Fatigue" - o arricchendole di una dimensione filmica che unisce classe francese, cultura continentale e accenti mediterranei ("The Seance", "The Ghost Of Maria Callas").
In composizioni compassate ma al tempo stesso febbrili e dai contorni sempre cangianti, nonostante il comune denominatore a esse sotteso, Elliott accosta ambientazioni da colonna sonora alla Yann Tiersen a eleganti arabeschi pianistici, disegnati intorno alle scarne linee di basso di "The Seance" e addirittura al repentino impeto elettrico dell'impennata dai contorni post-rock che pure prelude al quieto finale acustico di "Desamparado". Accanto a tali molteplici caratteri, un altro dei punti focali del lavoro va ravvisato nella moderna rielaborazione delle tradizioni popolari europee, le cui citazioni sembrano sempre il frutto di un consapevole approfondimento culturale che non di un'influenza acritica e in qualche misura "di maniera". Così, anche la danza gitana di "The Failing Song" - la cui vivacità contrasta in maniera stridente con un testo che parla di "aspirations turned to ashes in our hands" - risulta privata di qualsiasi chiassoso orpello e permeata da una grazia decadente, che non svanisce nemmeno nel vorticoso finale, poi digradante con poche note di piano, mentre è una limpida chitarra latineggiante a incorniciare l'alternanza di ritmi e la perfetta integrazione armonica di "Broken Bones", brano di soffusa e vibrante malinconia. Proprio qui, oltre che in "Good Pawn" e nelle uggiose atmosfere da maudit della sfumata "Lone Gunman Required", Elliott mostra tutte le sue qualità di raffinato chansonnier che, unite all'intensità orchestrale delle composizioni, trovano uno dei pochi accostamenti possibili nell'intricato romanticismo dei primi Tindersticks.
E se la ricchezza di stili presenti in Failing Songs non sembrasse sufficiente, c'è da sottolineare ancora come Elliott rispolveri qui finanche la sua originaria matrice post-rock, percettibile in parte nella già citata "Desamparado" e ruvidamente espressa in "Chains", ove la componente vocale da compunta diviene sgraziata, come negli sbilenchi cori di Silver Mt. Zion, descrivendo un fosco destino di inesorabile schiavitù, mentre anche il contesto sonoro cresce in asprezza e dissonanza, avvolgendosi in un turbine bandistico funereo e distorto, nel quale si scontrano impetuosi spasmi elettrici, cupi fiati e violini stridenti.
Il filo conduttore di tutte le tracce resta infatti sempre il sottile tormento dell'autore, che pure si esprime secondo modalità di volta in volta diverse, ma tutte parimenti sofferte, anche quando, verso la fine dell'album, sembra subentrare l'accettazione dell'ineluttabilità del destino, veicolata in "Gone", ballata circolare e sorprendentemente limpida, dall'ipnotica iterazione "we will be gone", e dall'ariosa, ritmica interazione tra coro, chitarra e violino del classicheggiante e sovversivo madrigale "Planting Seeds", quasi una sorta di riepilogo in dissolvenza dell'essenza dell'intero lavoro, declinante in un ultimo minuto di solo piano, sul quale possono immaginarsi scorrere i titoli di coda della disperata comédie humaine illustrata in tutti i passaggi precedenti.
Gli elementi sin qui descritti e tante altre piccole preziosità comprese nelle sue tracce fanno di Failing Songs una splendida conferma della sopraffina sensibilità artistica di Matt Elliott; come tutte le conferme, manca in parte dell'immediatezza legata all'elemento sorpresa, eppure, basta esplorare con un minimo di attenzione le tante acute soluzioni sonore presenti all'interno dei suoi brani, per giungere alla conclusione che si tratta di un lavoro ancora più compiuto, curato e toccante del già ottimo Drinking Songs.

Con il terzo capitolo della sua trilogia di songs, Matt Elliott chiude il cerchio di una parentesi artistica ormai abbastanza duratura, che lo ha visto rideclinare le manipolazioni sonore dei tempi di Third Eye Foundation attraverso ricercate e sofferte mutazioni folk.
L'inquieto percorso umano di Elliott e la sua attenzione al mondo che lo circonda vanno ancora di pari passo con la sua ispirazione musicale: così, se i due album precedenti rappresentavano l'abbandono a una visione del mondo fosca e disperata, di fronte alla quale non restava altro se non l'impietosa ma remissiva constatazione di un destino inesorabile, Howling Songs dimostra fin dal titolo una reazione, parimenti tormentata, di fronte a una realtà che torna a produrre profondi tumulti interiori.
Anche in questo caso, il profilo musicale dell'opera rispecchia le sue componenti ideologico-narrative, innestando sulla ricerca di un obliquo folk dalle radici euro-mediterranee urticanti incursioni elettriche, che sembrano voler esternare un senso di irrimediabile disillusione e sconfitta, traducendo secondo l'attuale sensibilità dell'artista le destrutturazioni degli esordi.

Elliott metabolizza qui il suo senso d'afflizione in composizioni in larga misura irrequiete, che sotto la superficie di una continuità espressiva parziale e soltanto apparente, restano invece soggette ai moti imprevedibili dell'animo, condotti a conseguenze musicalmente cangianti proprio dall'ulteriore variabile elettrica, che va ad aggiungersi al dialogo di un'indolente chitarra gitano-ispanica con arrangiamenti da raffinata orchestrina mitteleuropea. Prima prova rappresentativa di quest'impostazione deriva già dal brano d'apertura: "The Kübler-Ross Model" - il cui titolo, giusto per rendere l'idea del mood, si riferisce al modello psicologico che descrive le cinque fasi di reazione a una diagnosi terminale - tesse un ordito lungo oltre undici minuti, costruito per via incrementale secondo la consueta andatura dolente, attraverso melodie di ipnotica circolarità, cantate quasi a mezza bocca ma scosse dall'irrompere repentino di due spasmi elettrici che, esplodendo e ritraendosi, deviano il brano in un turbine di claustrofobica drammaticità.

Asprezza espressiva analoga, anzi ancor più pronunciata, presentano anche gli altri brani a prevalenza elettrica, che si muovono dal senso di fumosa oppressione della commovente "Something About Ghosts" al dilaniante post-folk di "The Howling Song", passando per i coinvolgenti cambi di registro di "A Broken Flamenco".
Accanto all'urlo rabbioso, vi è però ancora spazio per un paio di frammenti densi di romanticismo ("How Much In Blood?", "Song For A Failed Relationship") e soprattutto per uggiose chansons acustiche, dalle quali traspare chiaramente l'intimo senso di disfatta e la stessa urgenza espressiva sottesa alla musica di Elliott. "Can't sing to keep myself from falling/ it always comes without a warning" canta infatti sommessamente nei tre minuti della nostalgica "Berlin & Bisenthal", preliminari a una ballata di rara intensità e lirismo ("I Name This Ship The Tragedy, Bless Her & All Who Sail With Her"), che per tono, tematiche e andamento ebbro potrebbe elevarsi a simbolo di quanto Elliott ha voluto rappresentare in questa fase della sua produzione, in qualità di uomo, artista e testimone di una post-modernità decadente, che declina tragicamente verso un naufragio senza speranza, accompagnata dall'illusorio, ossessivo refrain "we'll sail on again, we'll sail on again".

A suggellare il completamento della trilogia elliottiana di "canzoni", a fine 2009 viene pubblicato un ricco cofanetto che, accanto ai tre ultimi album, comprende un quarto disco, emblematicamente intitolato Failed Songs, che raccoglie outtakes tratte dalle medesime session di registrazione. Pur presentandosi come una raccolta di "canzoni mancate", per quanto non ridotte al semplice status di "incompiute", Failed Songs denota una sorta di comune denominatore costituito dall'essenzialità delle trame armoniche e da quel senso di abbandono e indolenza sotteso in particolare al primo Drinking Songs, dal periodo della cui registrazione è del resto tratta la maggior parte dei suoi sette brani.

Negli unici due pezzi cantati ("Mellow" e "South Canadian Sea") nella maestosa progressione bandistica di "Lament", ricorrono il mood e la drammaticità di cori sbilenchi, andature (dis)armoniche e quell'ampio catalogo di tradizioni musicali euro-mediterranee in grado di coniugare bolero e austeri madrigali, sirtaki e danze gitane dal sapore agrodolce. Come si conviene a "canzoni mancate", non tutti gli inediti in questione possono ritenersi compiuti poiché, tra saltuarie destrutturazioni e fraseggi densi di malinconica introspezione, si percepisce distinta la sensazione che, lavorandoci sopra ancora un po', da alcuni di questi brani Elliott avrebbe potuto trarre materiale sufficiente per un altro album.
Ma, evidentemente, per l'inquieto artista bristoliano è di nuovo giunto il tempo di mutare pelle, di concludere lo straordinario quinquennio dedicato alle Songs e apprestarsi a riesumare l'originario alias Third Eye Foundation.

A prescindere dalle denominazioni, quel che impressiona nella perenne evoluzione di Matt Elliott è la sua capacità di porsi continuamente in discussione come uomo e come artista, curando con precisione certosina ogni elemento, per dar luogo a un'opera schietta e quanto mai personale, la cui ragione di fondo risiede infine nella non comune energia interiore, a livello umano e intellettuale, che delinea la nitida fisionomia di un artista moderno, capace di esprimere secondo una notevole varietà formale l'angosciosa testimonianza del tempo presente, non solo dal punto di vista strettamente musicale.

Chiusa la parentesi delle "Songs", dopo quasi un decennio, l'artista bristoliano rispolvera l'alias Third Eye Foundation, per un album, The Dark, nel quale torna a manipolare sonorità elettroniche, con particolare attenzione ai linguaggi comunicativi nel frattempo sviluppatisi da quando Matt Elliott aveva abbandonato le sue decostruzioni post-industriali.
L'album è un unico monolite sonoro di quaranta minuti, ripartito in cinque movimenti distinti ma privi di effettiva soluzione di continuità e in progressivo crescendo di pathos, tensione ipnotica e sequenze ritmiche. Supportato dal collega di lungo corso Chris Cole e dal giovane talento francese Chapelier Fou, Matt Elliott trae le mosse da loop organici e pulsazioni elettroniche per descrivere le alienazioni della contemporaneità attraverso battiti, sferzate ruvide e un incedere ossessivo di segmentazioni incalzanti, ibridazioni dubstep e frequenze jungle, che deragliano in un'orgia di suoni destrutturati e roboanti chitarre filtrate.
Benché non manchino momenti di requie, come quelli delle suggestioni decadenti che chiudono la spettrale "Pareidolia", l'intero lavoro si atteggia come una sequenza di progressioni ritmiche sempre più aspre e drammatiche, in parallelo simbolico con l'avanzare di un percorso narrativo che, pur rinunciando alla parola, si addentra sempre più negli spaventosi recessi di un mondo post-moderno, popolato da demoni incarnati da residui vocalizzi sbilenchi e virate strumentali in qualche occasione piuttosto brusche. Lungo tutto The Dark, il disorientamento della contemporaneità viene reso attraverso una nuova repentina trasformazione di paradigmi espressivi, alla cui apparente cesura stilistica corrisponde una sostanziale continuità nella narrazione elliottiana di disperate derive morali, che adesso non sembra più richiedere canti ebbri e trenodie, ma torsioni urticanti e battiti oppressivi.

A quattro anni dalla chiusura dell'esperienza delle "Songs", Matt Elliott torna con The Broken Man.
In questo disco, una delle opere più scarnificate di Elliott, conta la modalità espressiva più di notevoli impronte come il fingerpicking dalle fioriture flamenco e, dall'altra parte, delle riconoscibili etichette sonore e strutturali del Nostro. Se la maggior parte dei pezzi delle Songs poteva venir apprezzato anche solo per la loro "scenografia", per la ricostruzione fedele non solo di un sentimento ma anche di un immaginario - per quanto del tutto personale e non sempre chiaramente identificabile - in The Broken Man ogni velo cade e rimane Matt, preda di quel dolore che, se prima poteva essere visto come corredo inevitabile della sua musica, diventa ora punto centrale delle sue canzoni.
Al di sotto delle costanti vibrazioni acustiche, gli arrangiamenti (l'album è prodotto da Yann Tiersen) e i caratteristici contributi corali scortano per gelide esplorazioni di un'anima desolata, una piana grigia attraversata dal sussurro coheniano di Elliott. Il commiato funerario di "This Is For", l'inesorabile sfiorire di "How To Kill A Rose", la danza con la Morte di "The Pain That's Yet To Come" compongono intermezzi, preludi di una tempesta interiore che si staglia sullo sfondo e che si scatena nelle colonne portanti del disco: "If Anyone Tells Me..." e "How We Fell".
La prima, piéce pianistica di tredici minuti, tra remoti rintocchi di campane e flebili aliti di violino, accompagna per sentieri di prostrazione quasi fisica del Nostro, alternando bui, ciechi anfratti di irrisolvibile mestizia a scorci di minuta bellezza - nella prima parte - e di furia malcelata per la nostalgia di qualcosa di ormai perduto, che mano a mano si spegne nella rassegnazione.
È insomma un diario di un sentimento esistenziale, quello tratteggiato da Elliott, scolpito con un estremo senso di rigore e di ineluttabilità, eppure di eleganza, di fronte al quale anche l'ascoltatore più severo non potrà rimanere senza reazione, e almeno sospendere il giudizio.
Ma, dal punto di vista musicale e dell'intensità della narrazione, l'unica traccia veramente degna di nota è quella centrale di cui si è parlato poc'anzi. Nel resto del disco è più difficile riconoscere l'estro che da sempre contraddistingue la musica del cantautore inglese.

Il dilemma di Matt Elliott è quello di rendere credibile il suo nuovo stato emotivo e creativo: dietro gli accordi di flamenco e le atmosfere parigine che hanno contaminato i residui di fingerpicking, c’è una consapevolezza che è più incline al disincanto e alla passione per la musica, quasi rappresentasse l'ultima ancora di salvezza spirituale.
Questo è il movente che trascina Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart: lontano dal disperato ultimo grido di The Broken Man, Matt ha riscoperto il piacere di condividere il suo dolore e apre le stanze della sua casa immaginaria a nuovi ospiti e a inediti arrangiamenti più ricchi e sofisticati.
Gli annunciati sprazzi di ottimismo sono percepibili nella dolcezza inconsueta di “De Nada” e nella soave semplicità di “Reap What You Snow”, ma non nella stravagante copertina che, interrompendo la splendida serie di illustrazioni dei precedenti album, offre un’immagine ricca di colori nitidi e fasulli, quasi a segnalare l’inganno lessicale del titolo dell’album (un evento improbabile che diventa molto probabile).
Come in The Broken Man vi è un centro gravitazionale la cui intensità rischia di sommergere la qualità delle restanti tracce ovvero “The Right To Cry”, una memorabile linea armonica che entra, senza sforzo alcuno, nelle teca delle migliori creature di Matt.
Quello che entusiasma è la padronanza raggiunta da Elliott nell’amministrare pochi elementi per raggiungere il giusto climax. Come novello Leonard Cohen racconta un'umanità disperata e errante, ma non più attraverso lo sguardo rivoluzionario e rabbioso di un ragazzo della periferia inglese, ma tra i riflessi di un caleidoscopio di culture ed esperienze, che bramano di riaffermare la centralità dell’uomo sulle logiche fuorvianti della società tecnocratica.
I titoli delle due tracce più significative dell’album (“I Would Have Woken You With This Song” e “Prepare for Disappointment”) suonano come il disperato ultimo tentativo di comunicare il risveglio della coscienza: il dolore dell’esistenza, che Matt Elliott ha disperatamente tradotto in musica, diventa l’unica via di fuga dalla normalità, l’angoscia e il panico offrono più entusiasmo della piacevole quotidianità fatta di banalità e inganni pubblicitari.
Le sonorità più rilassate di Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart sono comunque una conseguenza del prolungato soggiorno in Francia e dello smisurato amore per la chitarra classica. Il nuovo percorso di Matt Elliott promette di voler giocare con sentimenti più leggeri e personali: dall’intimo sentire verrà la nuova rivoluzione, tenetevi pronti.

The Calm Before, il nuovo capitolo di questa epopea sempre nuova nella forma e sempre uguale nello spirito, trova nella title track tutta la sua ragion d’essere, assumendo tinte più che mai cristalline. Paradossalmente, la quiete prima della tempesta non è qui vissuta come un presagio della fine imminente, bensì come la salvezza stessa. Elliott lascia deliberatamente da parte la sua maschera tragica e apre le braccia a un diluvio necessario, a lungo anelato, che si fa strada con immensa eleganza.
Beninteso che il senso dell’ineluttabile ha sempre, ossessivamente pervaso ogni ballata di Elliott, ma mai prima d'ora esso si era accompagnato a una simile grazia, a un lirismo così pacificato con l'angoscia che talvolta fa del vivere un fardello insostenibile.
Il complemento agli scarni arpeggi della chitarra sono pianoforte e contrabbasso, che vanno così a formare una sorta di trio jazz sospinto da una ritmica quieta dove ogni martelletto e ogni vibrato ottengono ampio spazio di risonanza.
Una deviazione momentanea, per quanto significativa in un percorso espressivo così sofferto e apparentemente incapace a risollevarsi dalle cadute. “I Only Wanted To Give You Everything” è un degno ritorno ai tango in slow motion degli anni Zero, la lacrimosa accettazione di un amore non corrisposto. E poi un nuovo ingresso in scena per gli ottoni, preludio a un flamenco diabolico a corrente alternata per declamare la caduta di troni e corone, di angeli in ogni caso destinati a perdere le ali (“Wings & Crown”). Da ultimo una chiusa che ricalca il mood e le note del brano principale: l’allegoria della caverna come habitat prestabilito da una legge di natura che relega gli outsider in un’eterna solitudine, in attesa del cenno che riveli loro il senso ultimo di quel mal du siècle inestinguibile, un istante prima del tuono.

Ogni ritorno della Third Eye Foundation, per quanto sporadico, non è casuale e pare addossarsi tutto il peso emotivo e “morale” del tempo trascorso in silenzio. A sette anni dal cinereo The Dark, infatti, le cupe atmosfere di Wake The Dead sono ormai un tutt’uno con l’asfalto della metropoli evocata da Burial e Dälek, un malessere già noto benché invisibile, che serpeggia indisturbato e senza clamore.
L’iniziale title track è tra le sintesi più pregnanti del déséspoir strumentale di Elliott: le esequie sono condotte in prima fila dal lamento di una voce lirica femminile, e in seguito da una mesta fanfara di ottoni; la batteria di Raphaël Séguinier segna il tempo dell’irredenta Sodoma contemporanea, nel mezzo di manipolazioni analogiche, scratch e sintetizzatori sottocutanei alla Reznor – elementi messi in gioco anche da David Chalmin.
I tratti ritmici di marca illbient e dub emergono più chiaramente a partire da “The Blasted Tower”, contrappuntati da tessiture di archi lacrimosi alla Silver Mt. Zion e ulteriori intersezioni di campionamenti vocali. Attacco invece più aspro quello di “Controlled Demolition”, almeno finché il violoncello non ristabilisce l’equilibrio liricamente drammatico dell’insieme.
Intento e ispirazione di Wake The Dead sono, dichiaratamente, di “far danzare le anime, di unirle, e di ricordarci che, nonostante le nostre scelte e convinzioni individuali, siamo tutti componenti dello stesso insieme e che, vivi o morti, siamo per sempre legati”. Ma più delle parole, è l’intensità di questi quaranta minuti scarsi a rendere evidente un compimento espressivo che ha pochi eguali nello storico della Third Eye Foundation.

Matt Elliott ritorna a pubblicare a suo nome con un "non-album", una semplice raccolta di bozze improvvisate negli ultimi tre anni, esclusivamente strumentali, destinate a essere riviste e approfondite successivamente. Come lui stesso tiene a dire, Songs Of Resignation non è un album di Matt Elliott, è il suo contrario”. Nonostante la produzione si volutamente poco curata, traspare l’animo più autentico del musicista, che improvvisando nei momenti più disparati, coglie sensazioni che - come Elliott nota - sono impossibili da ricreare a mente fredda in un secondo momento. Da qui la scelta di pubblicare questo flusso di coscienza senza alcuna modifica, brani che non vedranno mai luce ma che, pur nonostante tutto, hanno una propria identità. Il flusso ripetitivo delle stagioni (“Spring”, “Summer”, "Cold"), la preghiera disperata senza un dio che possa esaudirla (“Prayer”), il classico folk per perdenti (“Song For Your Futur Solitude”), siano essi ubriachi o vagabondi poco importa, fino alla rabbia impotente di “Va Te Faire Foutre”, seguono il percorso che la poesia e la chitarra di Elliott hanno già battuto negli anni. “Songs Of Resignation” resterà nella memoria probabilmente come un piccolo assaggio di un prossimo lavoro solista, un gradito regalo per chi da anni segue con passione la poesia malinconica del musicista di Bristol.

Nel 2020 torna con Farewell To All We Know, Lp che lo conferma autore di una filosofia, di un peculiare modo di pensare e di approcciarsi alla vita. Dopo le osterie, i vuoti esistenziali da riempire con la musica, con un canto ormai ridotto a mero sospiro, oggi sembrerebbe trovarsi di fronte a un addio definitivo, l’addio a tutto il passato, alle nostre sconfitte e alle nostre vittorie. Nasce quindi la poesia della title track, segno ancora una volta di un’alterità rispetto all’esistente, di una testimonianza di diversità, di un allontanamento dalla politica e dai social network (“addio ai bugiardi e a coloro che distorceranno la verità”), un addio a tutti i ricordi e gli eventi passati che condizionano come macigni il nostro presente (“addio a tutto ciò che sappiamo, tutto ciò che abbiamo lasciato andare, tutto ciò che non troveremo mai, tutto ciò che abbiamo amato”), sino alla constatazione che la vita è un evento troppo grande per nostre capacità (“non siamo mai stati attrezzati per sopravvivere”). 
La cantilena di “Crisis Apparition” con finale austero sembra togliere ogni spazio alla speranza nella filosofia di Elliott, ma proprio in coda arriva il colpo di scena. In “The Worst Is Over”, il peggio è passato, la chitarra si fa più veloce e vitale, il piano segue gli accordi e le nuvole sembra ormai spazzate via. Ma Elliott aggiunge il dubbio, il “forse”, a lasciare in sospeso questo nuovo, cauto ottimismo (“il peggio è passato, il peggio è passato, forse”).

The End Of Days (2023) sembra l’opera più vicina alla riconosciuta pietra miliare Drinking Songs, autentico mostro sacro con cui ogni suo lavoro è costretto a confrontarsi. La musica di Elliott continua inesorabile a percorrere la sua strada, riducendo al minimo (almeno apparentemente) ogni concetto di evoluzione, mantenendo un’assoluta coerenza che pare essere più meritevole rispetto a tentativi di cambiare fine a sé stessi. The End Of Days è quindi un nuovo urlo sospirato, una nuova elegia funebre a un uomo senza comunità che vive in un mondo sempre più ostile. Le canzoni da osteria diventano canzoni dall’aldilà, che prendono in prestito i funeral-jazz di New Orleans.
“Flowers For Bea” in dodici minuti ci riporta proprio nelle strade della Louisiana tragica degli anni 20, dove il jazz germogliava sotto il tallone del razzismo. Chitarra, piano e fiati ricreano in pieno quel mondo: il Delta del Mississippi catapultato all'interno della tipica poetica solitaria di Elliott. La title track apre con una melodia di chitarra e piano molto simile a una drinking song (così come la tristissima "January's Song"), ma ancora più oscura dopo diciotto anni di sconfitte e disillusioni. Tutto è perduto per Elliott e l’unica medicina possibile è sospirare la verità alla voce più bassa possibile nella speranza che qualche animo affine possa udirla e comprenderla. I due minuti finali, dominati da un sax straziante, sono tra i momenti più disperati (e quindi più autentici) della poetica del compositore britannico.
Questo utilizzo del sax appare come la vera novità rispetto ai lavori precedenti, novità che apre nuove potenzialità che Elliott ha appena iniziato a sfruttare, ma già con ottimi risultati. Vedremo cosa ci riserverà prossimamente la (lenta) evoluzione della sua musica.

 

Contributi di Lorenzo Righetto ("The Broken Man"), Gianfranco Marmoro ("Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart”), Michele Palozzo ("The Calm Before", "Wake The Dead"), Valerio D'Onofrio ("Songs Of Resignation", "Farewell To All We Know", "The End Of Days")

Matt Elliott

Discografia

THIRD EYE FOUNDATION

Semtex (Linda's Strange Vacation, 1996)

In Version (Linda's Strange Vacation, 1996)

Ghost (Domino, 1997)

Sound Of Violence Ep (Domino, 1997)

You Guys Kill Me (Domino, 1998)

Little Lost Soul (Domino, 2010)

I Poo Poo On Your Juju (compilation, Domino, 2001)

OuMuPo (compilation, Ici D'Ailleurs, 2004)

Collected Works (triplo cd, Domino, 2006)

The Dark (Ici D'Ailleurs, 2010)

Wake The Dead (Ici D'Ailleurs, 2018)

MATT ELLIOTT

The Mess We Made (Merge, 2003)

7,5

Drinking Songs (Ici D'Ailleurs, 2005)

7,5

Failing Songs (Ici D'Ailleurs, 2006)

8

Howling Songs (Ici D'Ailleurs, 2008)

8

Songs (Ici D'Ailleurs, comprendente le inedite Failed Songs, 2009)

The Broken Man (Ici D'Ailleurs, 2012)

6,5

Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart (Ici D'Ailleurs, 2013)

7

The Calm Before (Ici D'Ailleurs, 2016)

7

Songs Of Resignation(autoprodotto, 2018)

6,5

Farewell To All We Know(Ici D'Ailleurs, 2020)

7,5

The End Of Days(Ici D'Ailleurs, 2020)

7,5

Pietra miliare
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