PJ Harvey

PJ Harvey

La favola inquieta di Polly Jean

Agli esordi ha fatto scandalo con i suoi atteggiamenti provocatori e i suoi testi a luci rosse. Poi ha ha coniato una formula di rock al femminile tra le più influenti degli ultimi trent'anni, concedendosi anche riuscite collaborazioni e ricerche sperimentali in altri campi, dal blues al folk. Storia e metamorfosi dell'affascinante musa del Dorset

di Claudio Fabretti, Magda Di Genova

Polly Jean è la ragazza con le mani più fredde e le labbra più calde
che abbia mai conosciuto.
(Nick Cave)
Ai suoi esordi, quando venne generosamente ribattezzata "la nuova Patti Smith", Polly Jean da Yeovil (Inghilterra) replicò con buona dose di sfrontatezza: "Patti chi?". All'epoca, in effetti, gli echi della poetessa del rock risuonavano prepotenti nell'opera di PJ Harvey. Specie nel timbro della voce, scuro, intenso, piegato dalla violenza viscerale delle emozioni. Uno stile forgiato dalla storia del rock e del blues, ma con un'impronta personale altrettanto marcata.
Per sfondare PJ ha avuto bisogno di effetti speciali. Non tanto sulla musica, quanto sul look. Rossetti scarlatti, mascheroni da dark lady, tute mozzafiato, gonne in finta pelle di leopardo e boa di piume l'hanno accompagnata a lungo nei suoi teatrali concerti, consacrandola femme fatale del rock d'oltremanica. "Era solo una maschera per me - ha spiegato - mi serviva a esorcizzare un momento molto difficile della mia vita. Ma era tutto falso, costruito. Adesso sono cambiata e sul palco mi sento me stessa, come quando vado a fare la spesa".
Più ancora del look e delle pose provocanti, daranno scandalo i suoi testi: una miscela di slogan femministi, angosce religiose e storie a luci rosse, all'insegna di un'ossessiva ambiguità. Qualche assaggio, tanto per iniziare: "Ho giaciuto con il diavolo/ ho maledetto il buon Dio/ rinunciato al Paradiso/ per portarti il mio amore" (da "To Bring You My Love", il suo grande successo del 1995); oppure l'ode alla perdita della verginità di "Happy And Bleeding" (1992); e ancora "Angelene", la storia di una prostituta contenuta in Is This Desire? del 1999: "Amore per denaro è il mio peccato/ Ogni uomo che chiama lo lascio entrare/ Rosa e bianco sono i miei colori/ Ho una bella bocca e occhi verdi". Un repertorio da cantautrice "dannata" che si rifà ai canoni di Tom Waits e, soprattutto, a Nick Cave, vero "alter ego" maschile della Harvey. Questa volta PJ non può negare: "La prima volta che ho ascoltato un suo disco avevo 18 anni. Sono rimasta sconvolta dalle sue canzoni e non ho ascoltato altro per molto tempo. La sua musica aveva toccato alcune parti di me in modo così forte... In seguito, sono rimasta scioccata nell'apprendere che era un eroinomane". Superato lo shock, sono arrivati l'incontro tra i due, consacrato nel magico duetto di "Henry Lee" (nell'album di Nick Cave "Murder Ballads"), e una fugace quanto distruttiva relazione (tutte le figure femminili presentate in "The Boatman's Call" sono riferite a lei).

Quella della pallidissima Polly Jean sembra quasi una storia "di scuola" per una rockstar in erba: una ragazzina magra e nervosa, vagamente disadattata, figlia di genitori libertini, tanto aperti di vedute verso il mondo quanto distratti nell'educazione familiare. In più, aggiungiamo la cornice "oscurantista" del Dorset, profonda campagna inglese, poco incline alle stravaganze. "Ero una ragazzina inquieta e scorbutica che passava molto tempo da sola, a dipingere, costruire oggetti e giocare con gli animali", racconterà la stessa Polly Jean. Ed è la cultura hippy dei genitori, membri del movimento "Flower Power", ad avvicinarla alla musica. Comincia suonando il sassofono in gruppi sperimentali come Bologna e Automatic Dlamini, nel quale incontrerà John Parish, poi suo grande partner artistico. Infine sceglie la chitarra e nel 1991 forma un trio con il bassista Steve Vaughan e il batterista Robert Ellis.

PJ HarveyNell'ottobre del 1991 esce così il suo primo singolo per l'etichetta indipendente Too Pure, il dirompente "Dress", votato all'epoca come singolo della settimana su Melody Maker da John Peel, che ammirava "il modo in cui Polly Jean sembra investita dal peso delle sue stesse canzoni e arrangiamenti, come se l'aria fosse letteralmente risucchiata da questi... ammirabile, anche se non sempre piacevole".
Nel 1992 Harvey pubblica il suo primo album solista, Dry, diviso tra scabrose ballate stile "riot-grrrrl" e confessioni intimiste. La protagonista delle sue canzoni è una ragazza disinibita e sessuomane al limite della ninfomania. Il trucco è quello di colpire l'ascoltatore fin nelle viscere, subissandolo di profferte oscene e di sferragliate di chitarra di urla e di lusinghe, di violenza e di estasi stordendolo con un cocktail sonoro tanto ruvido e depravato quanto, in definitiva, studiato. Ad accompagnare PJ in una sorta di "power trio" sono il bassista Stephen Vaughan e il batterista Robert Ellis.
Nella traccia iniziale, "Oh My Lover", la provocazione è apertamente "bisex": Polly Jean, piuttosto che rinunciare al suo amante, gli propone di amare lei e la sua rivale allo stesso tempo (e, dietro pose finto-femministe mira quindi apertamente ad accattivarsi il pubblico maschile...). "Happy And Bleeding" è invece una cruda ode alla perdita della verginità, ennesimo soliloquio sessuale di una chanteuse torbida e rabbiosa che sfoga nei suoi soliloqui sessuali tutte le sue insicurezze.
Nel tour de force di "Sheela-Na-Gig", la ferocia dei suoni fa da cornice al ritratto irridente della dea della feritilità della cultura celtica, nella conclusiva "Water" è una sensualità dolente a farsi strada. Supportata dal bassista Stephen Vaughan e dal batterista Robert Ellis, Harvey si propone nei panni di una chanteuse torbida e rabbiosa che sfoga nei suoi soliloqui sessuali tutte le sue insicurezze. Il disco figurerà nella lista degli "imperdibili" per diverse testate specializzate.
You leave me dry
No water well in sight
No water at my sides
("Dry")
PJ HarveyNella copertina dell'opera seconda, Polly Jean appare a mezzo busto, svestita, mentre scuote i capelli bagnati in aria, in una immagine dell'amica e fotografa Maria Mochnacz, scattata nel bagno della sua casa di Bristol. Rid Of Me (1993), prodotto da Steve Albini, cambia rotta spingendosi su sentieri hard-rock e grunge. L'esito non è sempre pienamente convincente, specie quando l'ingenuo fervore di "Dry" (il cui ritornello "Mi lasci asciutta" è chiaramente da intendersi in termini sessuali) si disperde nell'eccesso di foga degli arrangiamenti. Emerge quantomeno lo humour di Harvey, capace di slogan sardonici, alcuni autenticamente provocatori ("Rub 'Til It Bleeds"), altri francamente improbabili ("Douse hair with gasoline").
Polly Jean si sgola e mugola come un'ossessa tra lamenti, sussurri e ululati distorti, rifacendosi apertamente alla musa Patti Smith a cui viene subito prontamente paragonata dalle riviste musicali dell’epoca. La cover della dylaniana "Highway 61 Revisited", con i suoi risvolti "biblici" su amore e orrore, sembra quasi preludere agli argomenti affrontati da Harvey nel suo terzo disco. Ma quella di "Rid Of Me" è una rabbia capace di colpire dritto al cuore. E l'inno potente della title track mostra finalmente una cantautrice matura capace di scandagliare gli abissi della disperazione con la grinta di una bluesgirl di razza.

Poco dopo la pubblicazione dell'album, ne esce una sorta di seconda versione de-albinizzata, 4-Track Demos, che include alcune tracce inedite.
Forsaken heaven
Cursed god above
Lay with the devil
Bring you my love.
(da "To Bring You My Love")
PJ HarveyLa definitiva consacrazione per la cantautrice del Dorset arriva nel 1995 con To Bring You My Love. In copertina Polly Jean appare distesa nelle acque, come una moderna Ophelia di Millais, o, forse, come la reincarnazione di qualche ninfa incantatrice.
La punkette acerba degli esordi si è trasformata in una femme fatale, posseduta da un nuovo demone: quello di un blues atipico, dagli accenti biblici e gotici. Vittima e carnefice al tempo stesso, PJ compie così la sua definitiva metamorfosi, recidendo i legami con l’adolescenza turbolenta e immergendosi in un più profondo, e non meno doloroso, percorso catartico, dritto verso l’età adulta.
Per la riuscita dell’operazione, però, serve anche una svolta musicale: ecco, allora, lo scioglimento del power trio composto assieme al batterista Rob Ellis e al bassista Steve Vaughan e l’avvio di una vera carriera solista. Il deus ex machina è Flood, che dalla cabina di regia ispira un modo diverso di comporre e arrangiare. Ma a fornire un contributo decisivo sono anche il “seme cattivo” Mick Harvey e il chitarrista/compositore John Parish, con i quali la cantautrice inglese stabilirà una duratura e proficua collaborazione.
Il punk scarnificato e dissonante degli esordi si tramuta in un alternative rock più denso e stratificato, ma sempre aspro e vibrante, destinato a divenire uno dei trademark del decennio 90. Con un corredo strumentale più ricco - organi, vibrafoni, archi, percussioni d’ogni sorta, qualche iniezione d’elettronica - e con l’ombra minacciosa di Cave sempre dietro l’angolo. Ma la vera protagonista del disco resta lei, Polly Jean, musa angelica e oscena, tanto gracile nel fisico quanto possente nelle sue interpretazioni, capaci di spaziare con disinvoltura da soffuse (ma sempre infide) ninnananne a tuonanti invettive, dai singulti dell’orgasmo ai rantoli dell’oltretomba.
Spetta agli accordi statici di chitarra della title track il compito di aprire le danze, in un’atmosfera che non preannuncia niente di buono: Polly Jean si presenta come un’amante misteriosa e diabolica, che ha venduto l’anima al demonio in cambio dell’amore: “Forsaken heaven/ Cursed god above/ Lay with the devil/ Bring you my love”. Versi sputati con tonalità gutturali e cavernose alla Diamanda Galas, che si chiudono in un raggelante vibrato, appeso a un’ostinata frase di chitarra e a sparuti accordi d’organo. Non meno scabrosa è la regista di “Meet Ze Monsta” - pura ninfomania garage-blues tutta distorsioni e clangori metallici - e la strega voodoo della sulfurea “Long Snake Moan”, con gli occhi iniettati di sangue (e di passione) nel decantare l’orgasmo del serpente. E altrettanto blasfema è la preghiera di “Teclo”: suspense trattenuta, eros e thanatos avvinghiati in una litania funerea in cui PJ invoca una divinità morta che la porti con sé nella tomba (“Just let me ride on your grace for a while”). La sua voce è una lama che squarcia ferite: seduce, ipnotizza e violenta con sconcertante naturalezza.
La spirale di follia culmina nell’agghiacciante murder ballad di “Down By The Water”, dove tra fin qui inedite (e riuscitissime) ambientazioni elettroniche Harvey si cala nei panni della sciagurata blue eyed whore che annega la figlia nelle acque del fiume, salvo pentirsene e bisbigliare la sinistra filastrocca finale (“Little fish, big fish, swimming in the water/ Come back here, man, gimme my daughter”). Un brano spaventosamente potente ed evocativo, con le sue pulsazioni distorte e la sua melodia maligna: fungerà anche da singolo di traino dell’album, grazie anche a un videoclip in grado di spalancare le porte di Mtv.
Ma non ci sono solo orrore e depravazione tra i solchi di “To Bring You My Love”. Nel suo universale rosario blues al femminile, Polly Jean si cala anche nei panni umili e dimessi dell’operaia della funkeggiante “Working For The Man”, mossa solo dalla forza del suo amato (“Get my strength from the man above”); insegue un legame precario con la maternità nella morbosa “I Think I’m A Mother”; si ritrova ragazza-madre a pregare per il ritorno a casa dell’uomo che l’ha messa incinta (la struggente, bellissima ballata acustica di “C’mon Billy”); o ancora dà voce alla tenera amante abbandonata di “Send His Love To Me” – splendida ode folk e pietra angolare di tanti suoi dischi post-2000 - che singhiozza “This love becomes my torture/ This love, my only crime”, rivolgendosi ai propri genitori per riavere l’amore che ha perduto per sempre. Un pianto che si fa rabbia e grida straziate nella conclusiva “The Dancer”, ultima, disperata implorazione di una fanciulla gentile (testualmente), su un tappeto di hammond e chitarre spagnole, affinché torni la pace nel suo cuore “nero e vuoto” (“Bring peace to my black and empty heart”). Un finale da pelle d’oca, per un disco che in definitiva non è altro che un inno universale alla fragilità umana e alla disperata ansia di amore e redenzione.

Con To Bring You My Love - più di un milione di copie vendute - PJ Harvey si consacra star di rango mondiale, degna erede della genia di Patti Smith e discendenti, ma allo stesso tempo nuova musa di un rock al femminile enormemente influente: legioni di successive cantautrici dovranno farvi i conti.
Nel frattempo la sua voce si è affinata, riesce a viaggiare su due o tre timbri diversi, a essere insieme grezza e morbida. "Ho cominciato a prendere lezioni di canto nel 1991 - ha spiegato - e la mia insegnante del Royal College di Londra ha provato a impostare la mia voce in modo classico senza preoccuparsi del mio mestiere di rocker. Ho imparato molto cantando pezzi classici, mi ha aperto la mente".
In questo periodo comincia anche a sperimentare con la sua immagine adottando uno stile elaborato, teatrale nei suoi show: mentre prima usava apparire nei concerti con semplici magliette nere, pantaloni mimetici e Doc Martens, struccata e coi capelli spettinati, ora mostra un make-up da vamp e usa i sostegni di scena come scope e un microfono illuminato in stile Ziggy Stardust. Lei però negherà ogni riferimento allo stile drag queen nella sua immagine, che definirà alla “Joan Crawford in acido”. E a coronamento di questo grande periodo di PJ, arriverà anche l'atteso duetto con il suo idolo Nick Cave (nella murder ballad "Henry Lee") con il quale nascerà anche una fugace relazione sentimentale.

PJ HarveyPJ Harvey insomma non si ferma più, spinta dai suoi sogni ("sono così intensi che non riesco a distinguerli dalla realtà") e da un'attrazione fatale per tutto ciò che è travagliato e conturbante, compresi "gli uomini con grandi problemi". Le metamorfosi e le sceneggiate alla David Bowie diventano più rare. Ma nei suoi concerti continua a brillare un istrionico talento per la danza e la mimica. Una fama crescente l'accompagna, trasformandola nell'icona di una generazione "alternative" che si nutre di fumetti pulp e di decadenza metropolitana (post-)grunge. Un successo consacrato nel 1999 con Is This Desire?, classico "album della maturità" in bilico tra ballate noir, rock e techno, come il trascinante singolo "A Perfect Day Elise", che le vale anche un nuovo posticino nel palcoscenico mainstream di Mtv.
Ma a dare nerbo al disco sono anche tracce come "The Sky Lit Up", "The River" (dedicata, così come la b-side "Memphis" all'amico scomparso Jeff Buckley) e la stessa dolente title track, biascicata in un registro tremolante carico d'intensità. Affascinata da certi risvolti più "grezzi" e cupi della techno, Harvey accentua il ruolo dei synth, rendendoli finanche funerei, come nella ballata di "The Garden", che potrebbe tranquillamente essere considerata un pezzo "dark".

Is This Desire? segna il vertice del lirismo cupo della cantautrice inglese e la tappa più avanzata della sua maturazione musicale. Smussate le asperità e affinata la verbosità degli esordi, Polly Jean si presenta nei panni di una cantautrice finalmente poliedrica e completa.
A New York c'è una massa di energia che si trasforma artisticamente in sogno. È molto diversa da Londra. New York è molto più terrena, la gente si lascia coinvolgere di più. Londra è più riservata e distaccata.
(PJ Harvey)

PJ HarveySuona come una conferma, seppur parziale, anche il successivo e discusso (la critica lo acclama, molti fan rimangono dubbiosi) Stories From The City, Stories From The Sea, dodici canzoni che affrontano il tema del contrasto tra la frenetica New York e il placido Dorset e che riportano PJ in una dimensione più solare, da songwriter "classica". "Il titolo si riferisce a posti fisici, ma anche mentali, nella mia testa - racconta - Nel 1999 sono stata sei mesi a New York. Non ero familiare con il posto e mi sono scontrata con una realtà nuova, che ha innescato un processo di apprendimento. È uno dei centri del mondo, un punto d'incontro tra gente, culture, edifici, opere d'arte... C'è una massa di energia che si trasforma artisticamente in sogno. È molto diversa da Londra. New York è molto più terrena, la gente si lascia coinvolgere di più. Londra è più riservata e distaccata".
Ne è nato un disco molto più semplice e diretto dei precedenti. Un disco fatto di canzoni sobrie, di ballate e di storie, come "This Mess We're In" (in duetto con Thom Yorke) e "Good Fortune", tanto vibrante da sembrare quasi cantata da Patti Smith in persona. "Sono canzoni autonome - spiega - piccoli film con un inizio e una fine. Volevo tornare alle radici del songwriting, creando canzoni che fossero in grado di camminare da sole".
Quello che emerge chiaramente in questo disco è che Polly Jean è innamorata e forse per la prima volta si tratta di un amore vissuto in maniera positiva che le fa gettare la sua sfortuna dalla cima di un grattacielo e la fa ballare in tondo ("Good Fortune"), che le fa rincorrere il suo amante, rigorosamente nudo, per tutta la casa ("This Is Love"), che le fa costruire un nido e continuare a cantare ("A Place Called Home").
Ma New York non porta solo un'elettrizzante leggerezza - ne è la prova l'iniziale "Big Exit", ispirata dall'ossessione degli americani per le armi da fuoco. "Rappresenta l'altra faccia della vita della città, che non è solo creatività. Era incredibile sentire le notizie di sparatorie e morti ogni giorno. Nelle prime settimane in cui ero a New York, c'era un folle che spingeva la gente sotto i treni della metropolitana. Ha ucciso sei persone in due settimane, era spaventoso. Poi sono tornata nella campagna inglese, e quella canzone è diventata un modo per confrontarsi con la paura, come buona parte dell'album".
E in tutto questo non poteva comunque non emergere il lato oscuro di Polly Jean. L'album si chiude con "We Float", uno dei picchi nel disco, brano cupo ed oppressivo che spiega quanto "tenere il sorriso che tiene una modella" non sia abbastanza per mascherare la totale mancanza di comunicazione all'interno di una coppia in crisi.
La scultura è il mio hobby fin dai tempi dell'università. Vado a raccogliere materiali sulla spiaggia e poi li utilizzo per costruire qualcosa, ma è solo un gioco.
(PJ Harvey)
Finito il tempo delle canzoni-shock, frenata la libido irruenta degli esordi, è giunto il tempo della riflessione per questa esile riot-girl di campagna, cresciuta tra vacche, galline e riunioni hippy intorno al fuoco, e trasferitasi poi in un piccolo centro sulla costa inglese, circondata da verdi colline. Frequenta solo un ristretto gruppo di amici. Dice di Londra che è troppo "frantic", frenetica.
Nella vita di questa esile chanteuse dalla pelle bianchissima e dai capelli corvini, tuttavia, non esiste solo il rock. È appassionata d'arte ("a Londra - dice - passo quasi tutto il tempo nelle gallerie") e si cimenta con la scultura: "È il mio hobby fin dai tempi dell'università. Vado a raccogliere materiali sulla spiaggia e poi li utilizzo per costruire qualcosa; è solo un gioco, niente di concreto". L'amore per l'arte figurativa lascia tracce anche nelle sue canzoni: "Il mio metodo di scrittura è fortemente influenzato dalle immagini. Mi immedesimo in un ruolo o in una situazione, come in un film, e poi li metto in musica. Certe volte mi ispiro anche alle foto che scatto". Il suo debito con il cinema PJ Harvey l'ha già saldato con una breve apparizione nel corto di Sarah Miles "A Bunny's Tale", e con l'interpretazione di Maria Maddalena nel film "The Book Of Life", di Hal Hartley, regista che aveva già utilizzato alcuni suo brani nel film "Amateur" e che dirigerà il videoclip per "Crawl Home" delle Desert Sessions in cui PJ è ospite. Nella pellicola, versione moderna della storia di Cristo, Maddalena è la compagna e la guardia del corpo di Gesù. "È stata un'esperienza straordinaria - racconta - e mi ha aiutato a trovare nuovi stimoli per le canzoni; dopo le riprese avevo sempre qualcosa da scrivere e da trasformare in musica. Ora mi piacerebbe comporre una colonna sonora per un film". Fino a qualche anno fa, sarebbe stato un film porno; ora potrebbe essere anche un noir di David Lynch.

Nel frattempo, oltre alla collaborazione con Nick Cave, ha lavorato con Tricky (nel brano "Broken Homes" contenuta nell'album "Angel With Dirty Faces" e nel quale Tricky omaggia la cantautrice utilizzando alcuni versi di "Oh My Lover" nel brano "Anti Histamine"), Giant Sand (nell'album "Cover Magazine"), Pascal Comelade, Marianne Faithfull (cinque delle dieci canzoni contenute nell'album "Before The Poison" portano la firma di PJ Harvey) e con John Parish per il progetto sperimentale Dance Hall At Louse Point (1996). Quest'ultimo rivela Harvey nei panni della bluesgirl di razza ("Rope Bridge Crossing", la cover di "Is That All There Is?"), di vestale lugubre alla Diamanda Galas ("Taut"), ma anche di feroce rockeuse ("City Of No Sun", "Urn With Dead Flowers") mentre l'acustica "That Was My Veil", primo singolo estratto, e la struggente "Civil War Correspondent" confermano principalmente che PJ ha un'anima.

PJ HarveySiamo nel 2004 quando PJ Harvey torna all'antico con Uh Huh Her, un disco di crudo folk-blues che rimanda ai suoni minimali degli esordi. Polly Jean fa tutto da sola - composizione, produzione, registrazione, missaggio - e suona tutti gli strumenti, con il solo aiuto di Head come assistente al mixer e di Rob Ellis per l'esecuzione delle parti di batteria e percussioni. Ne scaturisce una raccolta di confessioni in lo-fi, attraversata da una vena ironica che si manifesta più in un livore languido (le sommesse rimostranze di "Shame", le minacce sussurrate in "The Pocket Knife") che nelle scenate a luci rosse di un tempo ("Take the cap/ Off your pen/ Wet the envelope/ Lick and lick it" di "The Letter" che non lascia molto spazio alle interpretazioni). Harvey è maturata come musicista-strumentista; la chitarra non è più l'unica arma a sua disposizione: "It's You", ad esempio, sfoggia un bel giro di pianoforte, "Shame" un delicato sottofondo d'organo, "The Slow Drug" pulsazioni trip-hop di synth nel solco di Is This Desire?, mentre "You Come Through" evoca persino scenari esotici, con i suoi tribalismi africani di xilofono e tastiere.
Ma il disco segue sempre la solita strada maestra: un alternarsi di slanci viscerali e ballate dolenti, all'interno delle dodici battute del blues. Ed è una blues-girl di razza quella che intona l'iniziale "The Life And Death Of Mr. Badmouth", propulsa da un riff ossessivo di chitarra. La rockeuse che fa la voce grossa c'è ancora, ed è la protagonista di due degli episodi migliori della raccolta: l'hardcore smargiasso di "Who The Fuck?", lacerato dal canto distorto di Polly Jean e da tre-quattro riff al fulmicotone, e il vigoroso singolo "The Letter", quello che con "Cat On the Wall" sembra più legato all'esperienza "stoner" delle "Desert Sessions" di Josh Homme, alle quali Harvey ha recentemente partecipato.
Più spesso, però, Polly Jean preferisce scivolare su un registro dimesso, imbracciando la sua chitarra acustica ("The Desperate Kingdom Of Love", lieve e austera al contempo, e "The Pocket Knife", trait d'union con il folk-rock di Stories From The City, Stories From The Sea), oppure tratteggiando scarne ballate come "The End" (dedicata all'amico attore e musicista Vincent Gallo), "The Darker Days Of Me & Him", mesta elegia sul dopo-separazione, e l'assaggio di "No Child Of Mine", brano scritto appositamente per Marianne Faithfull poi incluso in "Before The Poison"...). Una sequenza non priva d'interesse, ma forse troppo lunga per l'armamentario melodico di cui dispone la dark lady del Dorset. I testi sono, al solito, impregnati di un lirismo noir alla Cave, sublimato nella minacciosa "The Pocket Knife".
Uh Huh Her è un'istantanea realista dell'attuale PJ: niente più trucchi ma solo la riproposizione di un songwriting un po' autoreferenziale che forse ha il solo torto di aver creato assuefazione nell'ascoltatore.
As soon as I'm left alone
The Devil wanders into my soul
("The Devil")

PJ HarveyIntanto si capisce chiaramente che Polly Jean continua la sua salutare relazione sentimentale ma emerge anche un grande errore da parte della cantautrice: quello di essere tanto innamorata da dipendere totalmente dal suo uomo. Errore che si rivelerà fatale con la fine della relazione: White Chalk (il titolo si riferisce a una suggestiva zona del Dorset) uscito nel settembre del 2007 è un album di completa solitudine, in cui Polly Jean è ormai inerme. Un disco intimista, composto al pianoforte, dove le atmosfere sono chiare sin dalla copertina che vede una Polly Jean in versione "spiritica" con foto che sembrano più santini che forma promozionale. Il disco di una donna sola che si mette a nudo, si piange addosso, senza per questo essere inutilmente drammatica o lagnosa.
Il gruppo c'è, ma si sente poco: ci si accorge appena del clavicembalo, delle tastiere, dell'arpa, di interventi elettronici, e la loro presenza rischia di passare inosservata perché tutto gira intorno al tormento di Polly Jean, mai così nuda in nessuno dei suoi dischi. Un disco di solitudine assoluta: nell'introduttiva ed esaustiva "The Devil" ("As soon as I'm left alone - The Devil wanders into my soul"), nella criptica "The Piano" ("Oh God I miss you"), in "To Talk to You" (lettera aperta alla nonna scomparsa durante le lavorazioni di "Uh Huh Her") e in "Before Departure" (la lettera d'addio di un suicida). Menzione speciale per "When Under Ether", primo singolo estratto, meraviglioso nella sua melodia.
White Chalk
è un disco tanto scarno da essere quasi perfetto, manca solo un po' di quella melodia che aveva impreziosito tanto Is This Desire?.

Nel 2006 erano usciti anche Please Leave Quietly e The John Peel Sessions. Il primo è un Dvd pubblicato controvoglia dopo aver ceduto alle pressioni di fan ed etichetta discografica. Non si tratta della registrazione di un unico concerto, ma di un ensemble per far capire allo spettatore quanto sia ripetitiva la vita in tour. Deludenti anche le Peel Sessions che, a causa del noto perfezionismo di PJ, non sono complete e forse presentano addirittura voci "ritoccate".

Nel 2009 la coppia inossidabile PJ Harvey-John Parish, ormai in odor di nozze d'argento, torna all'opera nell'ideale seguito di Dance Hall At Louse Point, non a caso intitolato A Woman A Man Walked By (anche se, per dirla tutta, si tratterebbe d'un immaginario menage a trois completato da Flood, già con loro tredici anni fa). Un album intenso, diretto, salace.
Lo si capisce già dall'opener e singolo "Black Hearted Love", tiro indie anni 90, dimensione anthemica, quasi Fm. Lo conferma, di filata, "Sixteen, Fifteen, Fourteen", duetto per banjo e chitarra acustica, folk malato e spasmodico, e PJ che risale fino alle più scatenate performance vocali della sua adolescenza. E se l'autoharp di "Leaving California" e "The Soldiers" rimanda ad atmosfere neo-vittoriane, nell'esplosiva title track Parish ricarica le batterie del suo fregolismo vocale (recitato, gutturale, falsetto, screaming) in una sorta di abbacinante inno post-femminista alla mascolinizzazione che sciama fino alla chiusa electro-percussiva da kabuki psichedelico (denominata "The Crow Knows Where All The Little Children Goes") e sugli stessi toni apocalittici si eleva il paleo-grunge tribale per farfisa e chitarra di "Pigs Will Not". "The Chair" condensa in due minuti e mezzo bassi dub, ritmiche kraut, ripartenze chitarristiche e ascensioni chiesastiche; "April" e "Passionless, Pointless" fondono elettronica downtempo e dream-folkcon PJ che mesmerizza la scena come una soprano strangolata nell'abbraccio d'un fantasma dell'opera.
What is the glorious fruit of our land?
Its fruit is deformed children
What is the glorious fruit of our land?
Its fruit is orphaned children
("Glorious Land")
PJ HarveyEd è sempre John Parish, assieme all'altrettanto fido Flood e a Mick Harvey, a co-produrre (e a suonare) quello che a tutti gli effetti può essere considerato il successore di White Chalk.
Let England Shake (2011) viene registrato addirittura in una chiesa ma non ricalca le atmosfere di quell'album così scarno e intimista; quell'eterea creatura che bisbigliava, chiusa nella sua solitudine, di diavoli, spiriti e suicidi e che dichiarava il suo amore al natio Dorset, qui termina il suo percorso catartico e ritorna a dialogare col prossimo, sostenuta da un'inaspettata ventata di estroversione. Liberata dai suoi demoni o impazzita per il troppo struggimento, la voce di PJ Harvey acquista la spensieratezza dell'infanzia. Canta di un argomento universale come la brutalità delle guerre, ma con lo sguardo tenero e al tempo stesso distaccato di una bambina.
Non sono l'angoscia né la rabbia a far da padrone (eccezion fatta per il turbinoso crescendo di "All And Everyone" e per la nervosa "Bitter Branches", uno dei pochi brani, assieme a "In The Dark Places", che forse potrebbe accontentare i vecchi fan). Le sostenute ritmiche acustiche donano infatti un sapore folk e, a tratti, un'atmosfera paradossalmente scanzonata o addirittura buffa, come nella fanfara di "The Words That Maketh Murder".
È un album che sa di antico, quasi di rurale, che culmina appunto con una cadenzata ballata dai toni tradizionali come "The Colour Of The Heart" (in duetto con Parish); ascoltarlo è come sfogliare un vecchio album di fotografie in bianco e nero ingiallite dal tempo, provando a immaginarne i colori, suggeriti qua e là dal jingle-jangle dell'autoharp, che puntella diversi pezzi, dalle sparute incursioni di un sax baritonale, dal campionamento di una tromba che suona l'adunata nella trascinante "The Glorious Land" o ancora dal canto mediorientale che si sovrappone a quello sferzante della Harvey in "England".
Indossato un abito sonoro ormai fuori dal tempo, Pj Harvey assume il fascino di una più classica e matura cantastorie, che per farsi ascoltare non ha più bisogno di gridare, ma lascia parlare le sue canzoni, sorrette da un'accessibilità melodica che mai svilisce la ricercatezza d'intenti.

PJ HarveyA metà aprile 2016 esce The Hope Six Demolition Project, la naturale prosecuzione del celebratissimo "Let England Shake" (focalizzato sugli orrori della Prima Guerra Mondiale), e il secondo capitolo della crociata anti governativa condotta dalla nuova P.J. Harvey. Ma partiamo dalle premesse, anzi tutto dal processo compositivo, avvenuto in maniera singolare, nel corso di session pubbliche svolte a Londra all'interno di un'installazione presso la Sommerset House, dove i fan, previo acquisto del biglietto d'ingresso, potevano assistere per quarantacinque minuti alle prove da dietro una parete a vetro. I più fortunati avranno potuto così godere in diretta alla genesi di qualcuno dei brani che ora tutti possiamo ascoltare in maniera compiuta e definitiva. Riguardo i temi affrontati, l'album è il risultato di appunti di viaggio elaborati dall'autrice fra territori di guerra (Kosovo, Afghanistan) e la città di Washington, viaggi dai quali è stato già tratto il libro di poesie "The Hollow Of The Hand", nato da una collaborazione con il fotografo Seamus Murphy. Proprio in quel di Washington venne varato il progetto di demolizione "Hope VI" (da qui il titolo del disco), attraverso il quale si è provveduto alla riqualificazione di quartieri popolari tramite l'abbattimento di vecchi fabbricati e lo spostamento delle famiglie poco abbienti che li occupavano. Dal disagio che ne è conseguito prende spunto il testo di "The Community Of Hope", che apre la tracklist fondendo una rotonda musicalità, oserei direi alt-pop, con una scrittura tagliente che si scaglia contro le istituzioni, accusate di porre la speculazione al centro dei propri progetti, privilegiando il consumismo sfrenato (le catene Wal Mart citate alla fine della canzone) a dispetto dei reali bisogni della popolazione.
L'autrice gioca su questo contrasto molto più che in passato, cercando spesso l'accostamento fra i ritmi gioiosi (questo è un lavoro musicalmente piuttosto colorato, per molti versi ricorda la luminosità di "Stories From The City, Stories From The Sea") e la drammaticità delle scene raccontate. Ma i rigogliosi arrangiamenti (meravigliosi i sax che punteggiano e danno incredibile vitalità a molti frangenti), la perfezione formale delle registrazioni, la straordinaria qualità dei musicisti coinvolti, non riescono a sopperire alla perdita del senso di urgenza che trasudava dalle prime pubblicazioni della cantautrice del Dorset, quelle più selvagge, anticonformiste e non di rado controverse, sulle quali si aprivano lunghi dibattiti. Oggi lo scenario diviene più asettico, distaccato, e di brividi veri lungo la schiena ne scorrono pochini, magari quando si opta per il ritorno al minimalismo chitarristico che caratterizza uno dei momenti migliori: "The Ministry Of Defence".
Non che manchino episodi oggettivamente riusciti, come nella sanguigna sequenza dai ritmi sostenuti "Medicinals" / "The Ministry Of Social Affairs", è inoltre motivo d'orgoglio nazionale scovare fra i credits delle tracce 1 e 4 i nomi dei "nostri" Enrico Gabrielli (sarebbe ora che il suo genio venisse riconosciuto anche oltre gli angusti confini italici) e Alessandro "Asso" Stefana, i quali non sfigurano accanto ad altri collaboratori di grandissimo spessore, quali Linton Kwesi Johnson, Terry Edwards, Mike Smith, James Johnston e Alain Johannes, oltre ai consueti John Parish, Flood e Mick Harvey.

Siamo al cospetto di un progetto che completa la migrazione della poetica di Polly Jean dall'analisi di mondi interiori (soprattutto femminili) avvenuta nei primi album alla critica socio-politica, preferita nei tempi recenti. Il tutto assemblato attraverso un crogiolo di stili che spazia dalle strutture simil-blues di "Chain Of Keys" agli aromi gospel di "River Anacostia", miscelando immagini di guerre contemporanee ("A Line In The Sand" è densa di riferimenti ai conflitti, "The Wheel" narra di migliaia di bambini scomparsi) e racconti metropolitani ("Near The Memorials To Vietnam And Lincoln").
"Dollar Dollar" è l'istantanea finale di questo reportage: un bimbo che chiede soldi bussando al finestrino della macchina che scarrozza la turista Polly Jean lungo territori tutt'altro che raccomandabili. Ecco, sono in molti a leggere fra le righe di questa faccenda una mezza paraculata: andare in giro per luoghi di guerra con le guardie del corpo, o visitare quartieri popolari osservandoli dai finestrini chiusi di un taxi, per prendere spunto su futuri testi, è un qualcosa che lascia discutere. Sia sempre benvenuta qualsiasi forma di protest song densa di coscienza sociale, ma a molti pare più sincera quando arriva dal di dentro (Kendrick Lamar?) piuttosto che da un passante di riguardo, intento ad osservare dallo specchietto retrovisore mentre preferisce allontanarsi.
La Polly Jean targata 2016 la butta sulla critica socio-politica, ma perde tutta l'irruenza comunicativa dei primi dischi, elimina quasi ogni forma di "sporcizia" sonora per dare un'immagine più patinata alla propria musica, realizza un progetto senz'altro interessante e compiuto, ma nel quale lo spessore delle composizioni non riesce a raggiungere il livello delle opere migliori del passato. Non che ci aspettassimo di trovare fra questi solchi le nuove "Meet Ze Monsta" (dal masterpiece che la lanciò definitivamente nel 1995, To Bring You My Love) o "Who The Fuck" (dall'ultimo step della PJ real rocker, il lo-fi Uh Huh Her del 2004)... uhm... ma sì... forse sotto sotto un pochino lo speravamo ancora.

A ridosso dei trent'anni di carriera, parte un'operazione di reissue di tutti gli album della Harvey, accompagnati dalle versioni demo di tutte le tracce contenute, modalità attraverso la quale l'autrice concede di entrare nel proprio processo compositivo svelando l'essenza di ogni singola canzone. A conclusione di tale titanica opera, a novembre del 2022 viene pubblicato un ricco boxset retrospettivo, B-Sides, Demos & Rarities, 59 tracce suddivise in tre cd o sei vinili: rarità e versioni alternative ripescate dall'intera carriera della cantautrice inglese e mai inserite in nessuno dei suoi album ufficiali. Si parte con cinque registrazioni casalinghe risalenti al periodo che precedette la pubblicazione del suo primo disco e si arriva fino al lavoro svolto più di recente per il cinema e la Tv. Da "Dry" a "Peaky Blinders" è un diario di viaggio che riassume le numerose trasformazioni stilistiche ed estetiche affrontate dalla Harvey nel corso di tre decenni, un excursus fra i diversi umori che hanno contraddistinto ciascun album.
Nonostante una graduale e costante evoluzione che l'ha condotta dalla furia grezza degli anni Novanta, quando emergeva forte la rabbia giovanile (riascoltatevi un po' l'inedita "Why D'Ya Go To Cleveland"), alle più introspettive ballad dei giorni nostri, la selezione qui proposta mantiene sempre una sua omogeneità, una sua coerenza interna. Tanti i momenti imperdibili, molti dei quali senz'altro già noti ai fan, compresi un paio di estratti dalle Peel Sessions già edite in passato e le emozionanti "Memphis" e "30", composte dalla Harvey per ricordare l'amico e coetaneo Jeff Buckley all'indomani della sua prematura scomparsa. L'atto finale è riservato alla recente cover di "Red Right Hand", brano originariamente inciso dall'amico Nick Cave nel 1994 (era contenuto in "Let Love In"), reinterpretato con saggezza e sommo rispetto.

pjharvey_2023_credit_stevegullLa stesura dell'opera "Orlam", poema narrativo scritto in dialetto del Dorset e curato da Don Paterson, conduce PJ verso nuova musica e territori sonori non ancora esplorati. Scritti in appena tre settimane, i testi del suo decimo lavoro in studio I Inside The Old Year Dying ripartono esattamente da qui, immersi in un mondo fatto di contrapposizioni e riti di passaggio tra luce e ombra. Traendo ispirazione dal meglio della letteratura inglese, dalla drammaturgia di Shakespeare fino ai poeti romantici John Keats e Samuel Taylor Coleridge, oltre che da immagini bibliche, la cantautrice scivola tra i concetti e i moti primigeni di amore, crescita, perdita e morte. La trasformazione del poema in musica è avvenuta grazie all’aiuto degli amici e collaboratori di lunga data Flood e John Parish: allestito uno studio dal vivo, dove il processo di creazione e quello di registrazione si intersecavano, dando spazio a una maggior improvvisazione e ad un libero flusso di idee, con una strumentazione ridotta all’osso, Harvey, Parish, Flood e Adam “Cecil” Bartlett hanno effettuato vari esperimenti con tastiere, sintetizzatori analogici e ben poco di più. Ma il vero strumento protagonista è la nuda voce di PJ, modellata e adattata come creta in ogni brano, al fine di poter interpretare al meglio le sensazioni e gli argomenti espressi nello stesso. Il sound ottenuto fonde indie-folk/rock e minimalismo, con piccole derive slowcore e art-rock. Un cambio di rotta netto sia dal punto di vista delle sonorità sia delle liriche, rispetto ai precedenti ”The Hope Six Demolition Project” e “Let England Shake”, sebbene il primo avesse già iniziato a guardare in direzione della poesia, motivato dalla necessità di ritrovare un equilibrio e la voglia di fare musica da una prospettiva differente e realmente appagante, che andasse oltre la semplice realizzazione di un album con tour annesso, seguendo un processo creativo che elaborasse delle vere e proprie “immagini per orecchio”.

Incipit di “Orlam”, “Prayer At The Gate” è un filo d’erba sottilissimo e tagliente, retto interamente dal tono di PJ, intriso di una disperazione quasi antica, che mostra il labile confine tra la vita e la morte, indicando l’inizio di un nuovo ciclo. La concentrica danza rituale dell’equinozio d’autunno di “Autumn Term” pone in primo piano percussioni, note asciutte di chitarra, e alcune registrazioni aggiuntive prese da biblioteche audio, mentre la melodica “Lwonesome Tonight” sposta l’attenzione su una notte di aprile trascorsa a pensare la persona amata, traendo ispirazione dalla “Are You Lonesome Tonight?” di Elvis Presley e dal Vangelo secondo Giovanni. Si passa all’andamento vagamente jazzato di “Seem An I”, arricchito da cori sovraincisi e chitarre ondulate che richiamano un mood tra sixties e seventies, per poi gettarsi verso i meccanismi sintetici dell’ipnotica e astratta “The Nether-Edge”, e la chitarra folk ischeletrita della spettrale e novembrina “I Inside The Old Year Dying”. Segna la metà del percorso l’atmosfera scura e ovattata di “All Souls”, tra le cui pieghe serpeggiano foschi presagi, che cedono il passo successivamente alla più intensa “A Child's Question, August”, dove compare la voce dell’attore Ben Whishaw, volto noto di cinema e teatro, nonché interprete di ruoli legati a doppio filo al mondo della letteratura, tra cui proprio quello del poeta John Keats nel film “Bright Star” di Jane Campion. Il senso di redenzione infuso dalla traccia precedente permane sulle note della più fredda e lontana “I Inside The Old I Dying”, che vede invece la partecipazione di Colin Morgan, altro artista che si divide tra cinema, televisione e teatro. I barlumi frammentari della chitarra portati via dal vento di “August” ci consegnano un’altisonante “Wicked Game” in chiave slowcore dalle venature goth, di nuovo a due voci con Whishaw; mentre nella disturbante e luciferina “A Child's Question, July” interviene John Parish.

Il sipario cala sulle inaspettate e vorticose distorsioni di chitarra sferzate nell’aspra “A Noiseless Noise”, traccia ispirata ad un componimento di Keats, che si spinge in direzione noise e industrial. Spontaneo, umano, ed al contempo aulico e inquieto, I Inside The Old Year Dying è un accogliente rifugio per l’anima, fuori dal tempo e dallo spazio, con cui Polly Jean è riuscita a sorprenderci nuovamente, cambiando per la decima volta le carte in tavola. Una terra di mezzo animata da fantasmi e turbamenti silenziosi che cercano la pace dopo la tempesta.

Contributi di Simone Coacci ("A Woman A Man Walked By"), Stefano Fiori ("Let England Shake"), Claudio Lancia ("The Hope Six Demolition Project", "B-Sides, Demos & Rarities") e Martina Vetrugno ("I Inside The Old Year Dying")

PJ Harvey

Discografia

Dry (Too Pure/Indigo, 1992)

6,5

Rid Of Me (Island, 1993)

7,5

4-Track Demos (demo, Island, 1993)

6

To Bring You My Love (Island, 1995)

8

Dance Hall At Louse Point (with John Parish, Island, 1996)

7

Is This Desire? (Island, 1999)

7,5

Stories From The City, Stories From The Sea (Island, 2000)

6,5

Uh Huh Her (Island, 2004)

6,5

Please Leave Quietly (Island, 2006)

6,5

The John Peel Sessions 1991-2004 (Island, 2006)

5

White Chalk (Island, 2007)

7

A Woman A Man Walked By (with John Parish, Island, 2009)

7

Let England Shake (Island, 2011)7,5
The Hope Six Demolition Project (Island, 2016)6,5
B-Sides, Demos & Rarities (Universal/Island, 2022)
I Inside The Old Year Dying(Partisan, 2023)
7,5
Pietra miliare
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