Bizzarro,
ironico, sentimentale, Vinicio Capossela è il più dotato tra i cantautori
italiani della sua generazione. I suoi modelli più evidenti sono i blues
aspri e deliranti di Tom Waits e
le "chanson" jazzy di Paolo Conte.
Ma nel suo repertorio convivono anche il teatro di Brecht e il surrealismo, melodie
mediterranee e sonorità fragorose di chiara matrice balcanica, pantomime
circensi e atmosfere malinconiche degne del miglior Luigi Tenco. Artista
errante, che - come Waits - ha fatto
del randagismo quasi una filosofia di vita, Capossela ha percorso tutte le tappe
di una gavetta dura, da "emigrante". Nato infatti il 14 dicembre 1965 a Hannover
(Germania), approda poco piu' che ventenne in Italia, dove si divide tra il lavoro
di parcheggiatore e gli studi al conservatorio. Ben presto lascia gli studi e
si trasferisce a New York dove suona nei pub e nei night-club.
E'
grazie all'incontro con Francesco
Guccini e Renzo Fantini (poi suo produttore) che riesce a pubblicare il suo
primo lavoro, All'una e trentacinque circa, un album che mette gia' in
luce la peculiarita' del suo sound e che gli vale il premio Tenco come migliore
opera prima.
Nonostante
cio', il successo tarda ad arrivare.
Nel 1991 esce
Modi' uno fra i migliori album della sua carriera, come
la title track, "Ultimo amore", "Cadillac" e "Notti Newyorkesi", oltre
alla piu' orecchiabile "...e allora mambo!". Canzoni che sembrano
uscite da qualche fumoso piano-bar di provincia, intrise di sentimenti, poesia
e humour.
Affascinato
dal mondo del cinema, Capossela nel 1992 si cimenta in una piccola parte nel film
"Non chiamatemi Oscar", di Staino e Altan, la cui colonna sonora e' tratta dallo
stesso "Modi'". Nel 1993 firma le musiche dello spettacolo teatrale di Paolo Rossi,
"Pop e Rebelot". Nello stesso anno partecipa al disco tributo, organizzato dal
Club Tenco, e dedicato al grande chansonnier russo Vladimir Visotski, intitolato
"Il volo di Volodja", con il brano "Il pugile sentimentale", destinato a diventare
uno dei capisaldi del suo repertorio, in forza di una irresistibile combinazione
tra struggente melodismo russo e ritmi contagiosi da brass-band. 
L'anno
della prima consacrazione e' il 1994 quando Capossela pubblica Camera a sud,
trascinato dalla struggente ballata della title track e dal singolo "Che coss'e'
l'amor", una metafora amara e dissacrante sull'amore e su tutti i suoi risvolti.
La sua musica vive d'euforiche contaminazioni, tra swing e mambo, tango e twist,
marce e ballate. Ma i ritmi originali sono sempre stravolti e rielaborati, nel
segno delle contaminazioni piu' trascersali e dell'ironia piu' dissacrante. Spiccano
nel disco anche brani intensi e malinconici come "Non è l'amore che va via"
e "Camminante".
La fama
del cantautore di Hannover comincia a superare i confini italiani. A Parigi, nel
1995, tiene un memorabile concerto allo Zenit. Il quarto album, Il ballo di
San Vito (1996), consolida il suo repertorio, accentuando l'attenzione per
le tradizioni della canzone popolare italiana e mediterranee in genere.
La melodia lascia spazio a toni aspri e dissonanti, ma soprattutto al ritmo, vero
protagonista dell'album. In un clima di sagra paesana, tra balli e canti di antiche
contrade, si ambienta anche la title track: una pulsazione ossessiva che si trasmette
a tutto il corpo, in un magistrale connubio di musica, modulazione della voce
e testi, che si fondono e trasmettono la vibrazione della tarantola: e' il "Ballo
di San Vito", nome volgare (non scientifico) attribuito a una malattia dagli
effetti contagiosi. Capossela si conferma cantore delle storie di vita comune,
di giornate "senza pretese" (per dirla con il titolo di un brano del
suo primo album), di giovani di periferia, di racconti in bilico tra dramma e
ironia. "Al Veglione" e' un delizioso quadretto di una festa di capodanno
in un piccolo paese del sud Italia, rimasto nella memoria di un bambino e rappresentato
come fosse un'istantanea da un film di Fellini; l'inesorabile "Pioggia di
Novembre" distilla umori mesti e malinconici, mentre "Contrada Chiavicone"
e' un'altra pantomima paesana, sorretta da un ritmo sempre piu' nervoso e incalzante.
L'album, che vanta un super-ospite come Marc Ribot alla chitarra, e' il piu' vicino
alla "world-music" dell'intero repertorio di Capossela.
"I
suoni fanno da sfondo al mio mondo immaginario - racconta il cantautore -. Un
mondo pieno di guai, affollato di guitti stralunati, strade chiassose e vecchie
macchine". Con le quattro ruote, Capossela ha un rapporto intimo, nato negli
anni in cui vagabondava lasciando come indirizzo il numero di targa e rifugiandosi
in officine, pompe di benzina e, soprattutto, nella sua auto. "La macchina
e' il nostro transatlantico/ confortevole e familiare.../ e' la nostra protesi",
canta in "Liveinvolvo", title-track del suo primo disco dal vivo.
Liveinvolvo
nasce da una notte di musica e follie. "E'
stata una serata memorabile - racconta Capossela - tanto che il giorno dopo nessuno
riusciva piu' a ricordarla.
E' durata cinque ore: alla fine
i netturbini avranno pensato di sognare vedendo uscire, nel cuore della notte,
un corteo strombazzante con alla testa un cantante in colbacco". Ma l'album
segna anche un'ulteriore crescita di questo "guitto al pianoforte" che si fa chiamare
Vic Damone e che sembra quasi la caricatura di un cantante di piano-bar. La sua
musica si fa piu' febbrile e complessa, tra ballate liquide al piano (la cover
di "Estate" di Bruno Martino), blues sporchi e pieni di clangori nello
stile di Tom Waits e cupe progressioni
sonore ("L'accolita dei rancorosi"). La sua voce e' sempre carica, ruvida
come una grattugia. Ma la vera sorpresa e' la fanfara di ottoni della macedone
Kocani Orkestar, che anima cinque
brani. "Amo lo spirito balcanico, chiassoso e sognatore", sostiene
Capossela. La presenza della gypsy brass-band balcanica aggiunge un ulteriore
tocco di fragore e demenzialita' ai suoi brani. Una formula riproposta in un nuovo
ubriacante tour, che frutta al cantautore nuovi consensi di pubblico e critica.
Capossela
trascorre i successivi due anni tra vicoli e bar di provincia, tra le storie semplici
della vita comune e le grandi avventure musicali, come l'incontro con la musica
di Jimmy Scott. Una maturazione artistica che giunge a compimento nel 2000, con
Canzoni a manovella. Polke, marcette, palombari e maraja' si inseguono
in una sorta di teatro della strada, dove, tra un giro di valzer e un sogno, si
viaggia tra Lubecca, Varsavia e Salonicco. "E' un disco di canzoni immaginarie
- spiega Capossela - di cose che vengono dal profondo, che affiorano in scafandro
e cilindro, un lavoro fabbricato con mezzi espressivi come le tecniche aerostatiche
di cui vado molto fiero. In sostanza abbiamo usato una strumentazione composta
di grancasse, orchestra sinfonica, piani chiodati, rullo, trombe, turbanti, sollevatori
bulgari. Ma tutto cio' che veramente conta e' che ci siamo ingozzati di emozioni,
di suggestioni e di musiche, una specie di abbuffata secolare, questo e' in definitiva
il risultato".
Ed ecco
allora filastrocche, marcette, tanghi, ninnananne e ritmi popolari dal sapore
antico, che ricordano le cadenze dei vecchi organetti a manovella, rincorrersi
in un disco senza tempo, pieno di istantanee in bianco e nero, come quella in
copertina. L'epoca della manovella comporta rumore e sperimentazioni sui
binari di una ferrovia senza fissa dimora. E Capossela affronta gli abissi delle
proprie abitudini, camuffando suoni, rovistando ritmi balcanici, ricordando le
allegorie marziali di Kurt Weill. In principio era la manovella, l'innescamotore,
ma anche la necessaria carica di aggeggi ambulanti che bruciano l'aria di melodie
familiari. Le partiture si riempiono cosi' di bottigliofoni, fisarmoniche giocattolo,
cineserie, coperchi, rotoplani, rulli di Edison, intrusioni della porta accanto,
sberleffi timbrici tra il circo e l'osteria.
Quello
di Capossela e' un randagismo musicale, che si nutre di visioni surreali e di
personaggi balzani. Il divertissement esotico di "Maraja" ("si scompiscia, si
sganascia, si oscureggia il Maraja") trasforma le "Mille e una notte" in un film
di Kusturica; il viatico dei
"Pagliacci", improbabili domatori di pulci, coglie i riflessi chapliniani delle
luci della ribalta (non a caso lo scorso anno Capossela si e' cimentato proprio
nell'accompagnamento per pianoforte di "Tempi moderni"); "Contratto per Karelias",
adattamento di una canzone del greco Markos Vamvakarias, riconduce ad atmosfere
tzigane e circensi; mentre "Suona Rosamunda" rievoca visioni felliniane. Ma c'e'
spazio anche per il Capossela piu' romantico e intimista, quello che intona la
dichiarazione d'amore a ritmo di tango di "Come una rosa", il lamento struggente
di "Solo mia", o il requiem sommesso di "Marcia del camposanto". Vinicio
l'acrobata gioca a fare il saltimbanco, il clown, il guitto, ma si diverte a piazzare
qua e là le sue citazioni letterarie preferite: l'iniziale "Bardamu'" e'
ispirata a Céline, "Suona Rosamunda" a "Se questo e' un uomo" di Primo Levi, "Decervellamento"
all'"Ubu Re" di Alfred Jarry, mentre lo spirito irridente di John Fante aleggia
sull'intera opera. La musica delle "canzoni a manovella" riesce a fondere
la malinconia di Luigi Tenco con l'ironia jazzy di Paolo
Conte, le sonorita' roboanti dei Balcani con il randagismo alcolico di Tom
Waits. Il tutto grazie anche a testi decisamente superiori alla media. Una
nuova conferma, insomma, del talento istrionico del cantautore italiano, attorniato
nell'occasione da una pattuglia di musicisti in vena: ritroviamo Mark Ribot, ma
ci sono anche Ares Tavolazzi, Pascal Comelade, Roy Paci dei Mau Mau e il soprano
giapponese Mayumi Torikoshi.
Un disco dedicato
"ai pionieri aerostatici, ai temerari, ai marinai in bottiglia, a Céline, al revolver
di Jarry e in generale a tutti quelli che hanno avuto il coraggio di buttarsi".
Ma non solo. "E' un album dedicato a tutti gli oggetti in via d'estinzione, -
continua l'autore - come i Pianoforti di Lubecca, a molti di quei saloni che patiscono
il silenzio di milioni di canzoni. E c'e' posto per tutti, anche per quelli che
se ne sono andati, per i luoghi che hanno gia' chiuso". Capossela ha varcato
i confini, andando a cercare le musiche rebetiche, le polke di Varsavia, immergendosi
in un mondo molto lontano da noi, per tradizione e per cultura. Ed e' in questo
mondo che prendono a vivere i suoi personaggi. "Nel 'Ballo di San Vito' avevo
voluto e cercato suoni piu' sporchi - aggiunge - nel caso di 'Canzoni a manovella',
invece, abbiamo ripulito il tutto, ci sono le marcette, rebetici, tempi binari,
quelli che hanno bisogno di due stampelle per avanzare, quelli ternari da giro
di valzer, il vecchio west, le retrovie d'oriente, i canti tzigani, serenate,
tramvai, rose e ombrelli. Ma tutto e' perfettamente ballabile. Venite!, Venite!
affittate il salone per le feste, vestitevi eleganti, mettete i vostri abiti da
sera, lucidate i bottoni e le mostrine, perché l'orchestra ce l'abbiamo messa
noi, ed e' a vostra disposizione. Per questa festa, insomma non abbiamo badato
a spese".
Nel 2003 esce la prima raccolta di Vinicio Capossela, intitolata L'Indispensabile.
Un'iniziativa che il cantautore di Hannover ha mal digerito: "Motivi oscuri governano
le costellazioni discografiche - ha dichiarato - io ho detto alla mia che avevo
tre cd pronti, ma loro mi hanno risposto che era meglio far prima un riassunto
del passato... Quando in seno alla casa discografica è nata l'esigenza di questa
pubblicazione, non l'ho presa per niente bene, ho iniziato a toccarmi e fare scongiuri,
insomma, la sentivo un po' prematura, ma alla fine me ne sono fatto una ragione,
e, se proprio un'antologia deve uscire, mi sono detto, meglio che sia da vivi...».
Tra le 18 tracce, classici come "Il ballo di San Vito", "Marajà", "Che cossè l'amor",
"E alllora mambo", "All'una e trentacinque circa", "Con una rosa", "Modì", "Scivola
vai via", più l'inedito "Si è spento il sole", cover Calexico-style
di un pezzo inciso nel 1958 da un giovanissimo Adriano Celentano. Nel
2006 esce Ovunque
proteggi, primo album di inediti in sei anni. Per celebrare l'evento,
il quarantenne italiano di Hannover ha voluto passare anche in cabina di produzione
e si è circondato di un supercast, con musicisti come Mario Brunello (violoncello),
Roy Paci (tromba), Marc Ribot (chitarre), Stefano Nanni (piano), Ares Tavolazzi
(ex-Area) al contrabbasso e Gak Sato all'elettronica. Il circo di mastro
Vinicio, dunque, riapre i battenti, e lo fa "Dalla parte di Spessotto"
(niente a che vedere con terzini della Juve, bensì un inno all'infanzia
vissuta da "loser"). Titolo bizzarro per un singolo che rinnova il motteggiare
farsesco di "Canzoni a manovella", con un testo - tanto per cambiare
- esilarante. Capossela gigioneggia da par suo tra ritmi saltellanti e divertissement
vari. Sembra quasi un'altra "canzone a manovella", ma affiorano anche
i primi foschi presagi ("L'oscurità/ come un gendarme già/mi
afferra l'anima") di ciò che seguirà. All'euforico affresco
futurista di inizio Novecento delle "Canzoni a manovella", succede infatti
un viaggio oscuro e minaccioso, tra incubi e intemperie. Fin dalla terminologia
usata è evidente il contrasto tra la dimensione fisica, corporea (sangue,
carne, teste, mascellate, ossa, cosce, budella, cervella...), e uno slancio mistico
(anime, benedizioni, crocefissi, sudari, rosari...) inedito nel canzoniere caposseliano.
Le tredici tracce sono a loro volta un pellegrinaggio nello spazio-tempo, tra
luoghi mitici (Troia, il Colosseo degli antichi romani) e reali (la Mosca post-socialista,
l'Asia di "Lanterne Rosse"). Un percorso affannoso in cerca di requie
e protezione, come traspare dal titolo stesso dell'album. Si parte con "Non
trattare", nenia arabeggiante che lambisce certo misticismo delirante alla
Ferretti (la fonte è
un salmo dalle Scritture), prima di sprofondare subito nel baratro di quella "Brucia
Troia" che Vinicio voleva come singolo perché "avrebbe spopolato
nei programmi di dediche radiofoniche" (!) e che è invece un deliquio
orrorifico sul mito omerico, registrato nella Grotta Carsica di Ispinigoli in
Sardegna, insieme a Ribot e a tre tenori sardi. Altrettanto truce è la
rievocazione dei riti circensi romani di "Al Colosseo" (un omaggio all'
"In The Colosseum" del maestro Waits?),
con il solito declamare farneticante di Capossela su un tappeto di trombette e
rulli di tamburi alla "Ben Hur". Tra le novità del disco,
un uso più marcato dell'elettronica portato in dote dal guru Gak Sato,
tangibile soprattutto in "Moskavalza", techno-souvenir della
metropoli russa, affogato in fiumi di vodka e giocato su un divertente pastiche
di assonanze testuali. Non mancano, comunque, tuffi nel passato più "godereccio"
di Capossela, quello che vive di cazzeggi cha-cha-cha come quello della "Medusa",
delle baldorie da festa paesana di "L'uomo vivo" e di fastosi music-hall
alla Broadway ("Nel blu"). E resta - oltre alla stella polare-Waits
- il baffo del Conte più
jazzy a far capolino con la sua orchestrina dixieland tra le note
della nostalgica (e deliziosa) "Dove siamo rimasti a terra Nutless". Melodicamente
più povero di Canzoni a manovella, il disco paga dazio soprattutto
nelle ballate (il traditional messicano di "Pena da l'alma", la pianistica
"Lanterne rosse" e la stessa title track finale), calando un
po' alla distanza dopo l'avvio pirotecnico. Ma Capossela si è tenuto l'asso
nella manica e se lo gioca alla penultima traccia, con "S.S. dei naufragati:
climax drammatico dell'album, ispirato al "Moby Dick" di Melville e
alla "Ballata del vecchio marinaio"di Coleridge (e già inciso
in un disco della Banda Ionica). Una litania per violoncello, armonium, coro e
theremin, che si leva in cielo dalla stiva di un vascello sommerso dai flutti,
tra legni fradici e spiriti di morte. Folle, disordinato, perfino sovraccarico
di idee e di suoni, Ovunque proteggi è l'abum più coraggioso
che Vinicio Capossela potesse fare dopo il botto di Canzoni a manovella.
I passaggi a vuoto (che pure non mancano) si possono perdonare al cospetto di
tanta creatività e intraprendenza. |  |