Paolo Conte è
uno dei più originali cantautori italiani, e di sicuro il più erudito
e coerente. Il suo stile nasce dall'accordo tra le ninnananne fantasmagoriche
di Leonard Cohen, la sensibilità
da cantastorie parigino di inizio '900, le big band jazz di Duke Ellington e Bix
Beiderbecke, la sensibilità del song jazz-pop di Hoagy Carmichael e della
chanson di Jacques Brel. A questo va di certo aggiunto uno stile erudito
di costruzione delle liriche, sempre in bilico tra passioni sfrenate, malinconie
di memorie passate, spiriti eleganti e forbiti, immagini traslate spontaneamente
verso la sinestesia e il simbolismo da belle epoque, dove a tratti si fa largo
un ermetismo schivo.
I suoi due strumenti, il pianoforte e la voce (prima
ancora che le canzoni vere e proprie) faranno da battistrada a una delle contaminazioni
più seducenti di sempre, almeno nei rispetti del panorama del cantautorato
italiano, e insieme contribuiranno al non trascurabile merito di aprire le porte
alla riscoperta filologica e classica (estranea quindi agli esperimenti del giro
Cramps, Perigeo, etc.) della
musica jazz in Italia, fino ad allora tenuta a forza nell'oscurità. Il
Conte interprete, in ultima analisi, si pone come chanteur decadente, distaccato,
obliquo e nobile a un tempo, con un timbro vocale roco e profondo, soavemente
sferzante, pungente e anti-retorico. Paolo Conte nasce nel 1937 ad Asti,
da una famiglia di legali. Durante la guerra trascorre molto tempo nella fattoria
del nonno, laddove si compie uno dei primi capitoli della sua formazione: il rispetto
della diversità delle culture e, allo stesso tempo, del proprio luogo d'origine.
Tramite i genitori (appassionati sia di musica colta che di canzoni popolari)
apprende i rudimenti del pianoforte, assieme al fratello minore Giorgio, ma la
vera passione musicale giunge con l'immediato dopoguerra. L'avvento della stagione
del cinema moderno, oltre alle marce delle bande militari americane, ma soprattutto
l'ascolto di dischi e di concerti di musicisti americani in tour, generano il
primo embrionale amore di Conte per la musica jazz. Laureatosi in Legge all'Università
di Parma, inizia a lavorare come assistente presso lo studio paterno, ma nel frattempo
decide di estendere al livello semi-professionale gli studi musicali. Sono quelli
gli anni delle sue prime band, i cui nomi tradivano l'euforia per il jazz e lo
swing d'oltreoceano: Barrelhouse Jazz Band, Taxi for Five, The Lazy River Band
Society. Il più fortunato del lotto, il Paul Conte Quartet (in cui figurava
anche il fratello Giorgio alla chitarra, mentre a Paolo spettava il vibrafono),
arriva ad incidere un Lp di brani standard jazz per la Rca ("The Italian
Way to Swing"). Parallelamente nasce e si sviluppa la passione per
la canzone italiana, filtrata sia attraverso le trasmissioni radio che tramite
il suo interesse per le tradizioni popolari, in particolare per la canzone napoletana
e per la chanson di Brel e Brassens. E' forse grazie a quelle poetiche
di narrazione lucida e anti-retorica, a quegli sguardi disincantati e idealizzati
su (dis)avventure di alienazione e cinismo, di farsa grottesca ma impietosa sulla
società contemporanea, che Conte comincia a scrivere le sue prime canzoni,
destinate a interpretazioni di artisti italiani e internazionali, dapprima senza
paroliere in coppia col fratello e solo successivamente dedicandosi anche ai testi
in coppia con Vito Pallavicini. Nascono così, nella seconda metà
dei 60, "Siamo la coppia più bella del mondo" (esordio solista
di Conte a tutti gli effetti, su testo di Luciano Beretta e Miki Del Prete, da
subito numero uno in classifica) e "Azzurro" per Adriano Celentano,
"Insieme a te non ci sto più" per Caterina Caselli, "Tripoli
'69", "Genova per noi" e "Onda su onda" per Bruno Lauzi
(anche coautore), "Messico e nuvole" per Enzo Jannacci, "Grin grin
grin" e "Se (Yes)" per Carmen Villani, insieme ad altre collaborazioni
con Patti Pravo, Johnny Hallyday e Shirley Bassey. Queste
prime avvisaglie del suo stile distaccato, riflessivo con arguzia e tagliente
ironia, traboccante di immagini dinoccolate, verranno convogliate e esplose nel
primo Lp a suo nome, Paolo Conte (Rca, 1974), in cui compare, oltre che
come autore di musica e testi, anche come esecutore, interprete e arrangiatore.
E' una raccolta ancora incerta e non precisamente a fuoco, quasi un'antologia
revisionista delle opere prestate ad altri in precedenza, a suon di "Fisarmonica
di Stradella" e orchestrata con una semplicità artigianale che fa
emergere solo a tratti il talento più genuino delle opere della maturità.
Quest'album è anche il primo episodio di una trilogia dedicata alla transizione
da praticante di studio legale a cantautore tout-court. Vi compaiono spettri
di una provincia disastrata da una vita assente e annoiata, avvolta da una membrana
di ipocrisia latente, da angosce represse e inespresse, ma pure rimpolpata da
emozioni intime, infuse da episodi commoventi e raccolti con cura. In questo
suo primo periodo creativo, Conte dà alla luce i primi due episodi della
famigerata saga dedicata all'"Uomo del Mocambo", storia del proprietario
di un mitico bar-scenario di situazioni decadenti, di curatori fallimentari (aiutato,
in questo, da un forbito spirito autobiografico), di incomunicabilità tra
conviventi, di tinelli "maròn", di facciate architettoniche (insegne,
luci, etc.) assurte a simbolo di un umore generazionale, di caffè sorseggiati,
quasi terapeutici nel loro scopo di estraniazione dal contesto di vita quotidiana.
"Sono qui con te sempre più solo", "La ricostruzione del
Mocambo", e, più avanti, "Gli impermeabili" e "La nostalgia
del Mocambo" costituiscono una tetralogia di canzoni che per più di
un motivo può essere assunta a metafora dell'opera di Conte, oltre che
episodio altamente significativo della canzone italiana in senso lato. "La
ricostruzione del Mocambo" è anche uno dei pezzi forti del suo secondo
album, Paolo Conte (Rca, 1975), opera che sancisce il definitivo distacco
dalla produzione di canzoni d'interpretazione altrui, per approdare finalmente
a una collezione di brani destinati a essere ricordati come suoi primi classici.
Proprio il secondo episodio dell"uomo del Mocambo stupisce per la sua ritrovata
vena jazzy (fino ad allora tenuta a freno), un fiato dipanato a mo' di
Nino Rota e vocalizzi sonnolenti del coro femminile che impostano magnificamente
la strofa. "Genova per noi", l'ultima reinterpretazione delle sue canzoni
pregresse, diventa una marcetta a bolero impreziosita da capricciose dissertazioni
di piano, ma pure con un accompagnamento che si arricchisce via via di preziose
sfumature (anche cacofoniche), e "La Topolino amaranto", la primissima
canzone scritta da Conte a quattro mani col fratello (e mai rispolverata prima
di allora), uno stride à-la Luckey Roberts speziato da una contrastante
associazione della fisarmonica a mimare una melodia popolaresca. In Un
Gelato al limon, capitolo conclusivo del primo periodo, è dotato di
un autobiografismo già traballante, che spesso abdica in favore di interiezioni
a viso aperto, di ritratti maggiormente metaforici, simbolici e impressionisti;
arrangiamenti lussureggianti, suono più corposo (vi compare la Pfm),
ma quelli che spuntano sono i jive puntuti ("Bartali", inno salace
allo sport favorito) e i tango strascicati ("Rebus", "Un gelato
al limone"). La risultante è un discutibile compromesso tra la transizione
e il consolidamento di uno stile casual, ma con una medietà di fondo
che troppo si sforza di non essere qualunquismo. A questa trilogia di opere
ne farà seguito una successiva, caratterizzata dall'apertura stilistica
che ne decreterà l'assoluto valore artistico e la riconoscibilità,
e dalla volontà di parlare apertamente all'ascoltatore di immagini minute,
sensazioni, emozioni, odori, profumi, incontri e scontri di personaggi beffardi
o sardonici, ideali mitici e cicli simbolici. L'autobiografismo cede definitivamente
il posto all'uomo disincantato e ai suoi enigmi, alle melanconie di una vita ancora
in divenire, ai rimpianti e alle rievocazioni. Le istanze stilistiche si ampliano
considerevolmente, arrivando a lambire nuclei davvero malleabili di idee efficaci
e dall'inesauribile fantasia. Le sue canzoni diventano così vere e proprie
occasioni musicali in grado di ospitare danze latino-americane (tango, habanera,
fandango, paso doble, jive, cha cha, rumba), piece piano-voce di melanconia
struggente (spesso impreziosite con interpretazioni solistiche) e ampie aperture
melodiche (viste soprattutto come controparte forte della parte testuale), e di
fondere ogni tipo di istanza stilistica in forme inconsuete, eleganti, distaccate
ma altrettanto partecipate. Al di sopra di tutto, la propensione alle partite
jazz e swing, influenzate da Fats Waller e Duke Ellington, si esprime in tutta
la sua eleganza obliqua e distaccata, contribuendo a porre le liriche (pregne
di ellissi, giochi di parole, sinestesie) su un piano ancor più alto di
schiettezza emotiva anti-magniloquente. Le nuove conformazioni delle sue
band di supporto vanno coerentemente in questa direzione, collocandosi a metà
via tra ensemble jazz e big band, e mostrando sempre nuove capacità
di invenzione. Primo frutto di questa "coerente deviazione" contiana
è Paris Milonga (Rca, 1981). Così, nell'apertura affidata
a "Alle prese con una verde Milonga" (uno dei suoi capolavori), tramite
la lentezza sorniona, il declamato melodioso della voce di Conte (notevolmente
abbassato di tono rispetto al "Gelato"), il bolero/blues/flamenco portato
avanti da fattucchieri armonici, appare chiarissima una volontà di contaminazione
sfibrante, obliqua ma perentoria. Lungo tutta l'opera, Conte distribuisce con
dosato equilibrio i caratteri portanti del suo repertorio: toccanti ballate piano-voce
("Blue Haway", "Parigi", "Un'altra vita"), sketch
swinganti con madrigalismi e contrappunti di chitarre da Carosello ("L'ultima
donna"), vaudeville in versi liberi ("Via con me", "Madeleine"),
piece da big band con forte apparato improvvisativo ("Boogie"),
persino irresistibili neo-standard ("Pretend Pretend Pretend"). E' un
album sapientemente jazzy, a dichiarare quasi un'urgenza dopo tante repressioni
creative, che forse ha importanza tanto teorica (illustrare le possibilità
della forma canzone all'alba del nuovo periodo creativo), quanto pratica: raramente
Conte raggiungerà ancora queste vette di godibilità spicciola, e
insieme il miglior punto di partenza per un sound filologicamente contiano. Se
Paris Milonga materializza il boom di Conte come personaggio unico nel
panorama italico, ma è ancora vagamente stentante sotto il profilo della
rifinitura complessiva dell'opera, il successivo Appunti di viaggio (Rca,
1982) procede spedito nella direzione della definizione dell'album come ciclo
di canzoni, come totalità inespugnabile. Caso forse unico nel panorama
della discografia di Paolo Conte, è un'opera malandrina e sciatta, che
canalizza superbe capacità strumentali e poetiche in canovacci vitali di
forte suggestione, spesso senza inizio e fine, ma solo dotati di autonomia, di
coscienza di essere brandelli scorciati di ironia quotidiana, di particolari di
bozzetti magnificati e scardinati dal loro contesto di appartenenza. Già
nello splendido incipit di "Fuga all'Inglese", con una sorta di campionamento
(quasi anticipatore del lo-fi) di piece Gershwin-iana, emerge l'estetica
più pura di Conte: il ritrovamento degli scarti del passato, la loro reintegrazione
per farsi veicolo di trasfigurazione temporale e, insieme, di gioia inventiva.
Con "Dancing" ci si catapulta in una rumba scaltra, accompagnata
da un piano elettrico e un'orchestrina Memphis-style, e "Lo Zio" è
un moto Buscaglionesco che impagina cavalcate di chitarra swing fino alla
chiusa maldestra per colpo di piatti, mentre "Diavolo rosso" è
uno straordinario foxtrot da camera con palpiti di synth e una sezione
ritmica incalzante. "Gioco d'azzardo" e - in misura minore - "La
frase" sono accessori di tutto rilievo per l'economia dell'album: di nuovo
cicli continui genialmente costruiti quasi ad libitum, con ritmi di balera,
synth estatici ma inquieti, e parti improvvisative in pieno stile bop guidate
dal sax contralto. "Hemingway", astro fulgido della sua opera, suo
capolavoro melodico, è una codifica del formato canzone organizzata secondo
un crescendo corale e emozionale che parte dai languori sottotono di Conte e arriva
a una grande apertura strumentale per fiati e tastiere innescata dal solo piano.
"Nord" chiude l'album come "Wreck On The Highway" chiudeva
lo Springsteen-iano "The
River". Un vuoto nostalgico, marcato dai toni di diario confessionale,
si fa largo nei versi da filastrocca dolcissima, per poi alzarsi in veduta aerea
con un tema melanconico ma pure rasserenato da una jam agrodolce del tutti
orchestrale. Conte è qui davvero al suo apice formale e sostanziale, alla
piena consapevolezza delle sue potenzialità artistiche (anche in virtù
di una sempre maggiore dimestichezza con i generi e i prestiti "esterni"),
alla dichiarazione d'intenti che non si limita a un programma pure puntuale sulle
manipolazioni della forma canzone, ma che invece sonda con fare arguto zone strumentali
e piani narrativi, trasporto emotivo e distacco da narratore votato all'essenzialità
disarmante ma altamente evocativa. Con Paolo Conte (Cgd, 1984),
la fusione delle due precedenti istanze creative (quella dei classici di Paris
Milonga e quella globale degli Appunti) arriva a perfetto compimento.
E', insieme, il suo disco più sofferto e meditato, il suo "Tonight's
The Night", il Conte più meditabondo e quasi vittimista, e insieme
uno snodo espressivo destinato a imporsi alle nuove generazioni come punto cardinale
del nuovo cantautorato a venire. Da una parte ci sono canzoni memorabili come
"Gli impermeabili", prosecuzione e apice dello standard melodico contiano,
nonché terzo episodio della tetralogia del Mocambo (una sorta di sereno
funerale alla sconfitta delle aspirazioni intonato dagli archi aerei), "Come
mi vuoi?", serenata anti-romantica per piano e sax, o ancora "Come -
di", irresistibile swing alla Calloway. Dall'altra c'è il tema unificante
dell'uomo scimmia (nelle comunità nere è il ballerino jazz), dipanato
secondo dotte citazioni-metafore di un personaggio ridotto a una sorta di sbando
emotivo. Nel mezzo dell'opera viene "Sotto le stelle del jazz", forse
il suo capolavoro definitivo, una mistura geniale e poetica di atmosfere intime,
confidenziali, liriche ed enigmatiche, dagli accenti gospel, blues, honky tonk
e brass band, una raccolta di mottetti mitici (su testo originalissimo
e commovente), di immagini notturne create dalla notte stessa, un diario di sospiri
blues e di nostalgie trasognate. Completano il tutto lo strumentale "The
Music - All?", sonetto dolente per piano e vibrafono, quasi una sua personale
versione dei "Notturni" chopiniani, la ballata di "Chiunque",
con un nuovo duetto di piano e sax a spartirsi tristezze accorate e indefinite,
secondo una progressione di accordi nobili e taciturni, e la piece avveniristica
di "Simpati - Simpatia", con il sequencer in bella vista a donare
disegni di raccordo al piano sempre presente. Apoteosi del Conte cantante,
pianista, poeta maudit tutto italiano di un'anima segnata nel profondo
da sofferenze minute, è un disco subliminale che si compone di brani felici
nelle loro contaminazioni scevre, allampanate. Laddove il jazz serve soprattutto
a costruire impalcature emotive, l'autore addomestica strumenti e orchestrazioni
secondo un umore trasfigurato a invettiva solenne, preghiera introspettiva. "Come
mi vuoi?" avrebbe dovuto far parte di "Occulte persuasioni" di
Patti Pravo (Cgd, 1984), ma ne rimase escluso; effettivamente però il cantautore
collaborò all'album con lo pseudonimo di "Solingo". Accolto
benevolmente dalla critica, il disco lancia Conte anche nello scenario internazionale.
Ne segue un'intensa attività live, che lo vedrà impegnato
in Italia come (e forse più) in Francia, quella stessa Francia che gli
aveva infuso ispirazione agli inizi della sua carriera. Concerti (Cgd,
1985), contenente registrazioni dal vivo di queste prodezze in forma di canzone,
immortala degnamente questo periodo. Sulla scia del rinnovato interesse
nei suoi confronti, Conte pubblica la sua opera più ambiziosa, uno dei
rari album doppi della musica italiana, Aguaplano (Cgd, 1986). Si tratta,
in realtà, della tipica opera di transizione, in cui l'autore raccoglie
i frutti del seminato e, con i medesimi ingredienti, ribadisce la sua estetica
e appronta il punto della situazione. Il formato del doppio vinile contribuisce
a porre in essere le sue più urgenti volontà, ma neppure Conte riesce
a sottrarsi al rischio di enciclopedismo cui spesso ci si imbatte in questi casi.
Il rafforzamento dei suoi standard è comunque convincente. Ci sono, ad
esempio, le ormai classiche aperture melodiche: la title track, con l'ampio
tema boliviano intonato da coro e orchestra, o "Max", altro dei suoi
brani forti, un crescendo agogico con motivo bipartito à-la Bolero di Ravel.
"Paso Doble" è una gag piano-voce da cabaret jazz, quasi auto-ironica,
con brillante alternanza tra strofa incupita e ritornello accelerato con note
ribattute in tonalità maggiore, e "Nessuno mi ama" attacca con
un tema sensuale di piano, sax e contrabbasso, per poi librarsi in uno swing Ellington-iano
con l'introduzione di un coro femminile. La sortita partenopea di "Spassiunatamente",
la cool-song di "Anni", il tempo ternario di "Hesitation",
adornato dai madrigalismi impostati dai giochi pianistici della mano sinistra,
il divertissment in tempo dispari di "La Negra", il valzer per
piano bonaccione da parodia della belle epoque di "Non Sense",
la ballata in rima di "Gratis", la danse macabre condotta dallo
jambé di "Les Tam-Tam du Paradis", la piece dell'assurdo
onomatopeico-poliglotto di "Ratafià", sono tutti episodi di aggiustamento
e di sguardo al futuro. Più cartina tornasole, test creativo, che opera
profondamente sentita, Aguaplano è il disco delle mezze verità:
Conte si sbizzarrisce, ma soprattutto constata; non entusiasma, ma teorizza. Un
altro disco dal vivo, Paolo Conte Live (Cgd, 1988), prova che il periodo
è maggiormente incentrato alla ricerca e alla rielaborazione delle proprie
tematiche che alla creazione vera e propria. Con
il dittico Parole d'Amore Scritte a Macchina e Novecento, s'inaugura
un nuovo periodo di fertilità per il cantautore. Passate le grandi sbornie
concertistiche, Conte si dedica maggiormente alla propria personalità più
intima, alle emozioni spicciole, soprattutto esternando una volontà che
parte dal suo vissuto più profondo. Dopo aver sondato esperienze in forma
diretta dal punto di vista della condivisione con una controparte umana ("Lo
Zio", "Fuga all'inglese", "Come mi vuoi?") o mitologica
("Alle prese con una verde Milonga", "L'ultima donna", "Sotto
le stelle del jazz", "Diavolo rosso"), Conte assesta le sue istanze
poetiche su narrazioni e confessioni che partono principalmente dal proprio io
sognante, elaborante, inquieto con levità. Il
primo, Parole d'Amore Scritte a Macchina (Cgd, 1990), è l'opera
più anomala della sua carriera, che segna un'ulteriore svolta stilistica
al limite dello sperimentalismo. E' anche il suo primo album a focalizzarsi sull'atmosfera,
mai così scarna, impavida, enigmatica e allo stesso tempo sbilenca e appena
sbozzata, e su costruzioni insolite e anacronistiche. L'ouverture, "Dragon",
è degna di stare accanto a "Alle prese con una verde Milonga":
uno straniante boogie-blues "ferroviario", scandito dal sequencer
sovrainciso e da chitarre in trance, con cori e vocalizzi voodoo, fratturato tra
gli sbotti del trombone con sordina, le contorsioni del clarino, orpelli arcani
di contrabbasso e una tanto breve quanto oscura declamazione di Conte. "Il
Maestro" è addirittura un epico inno Verdi-iano intonato da un coro
femminile, ripetuto da Conte con la sua solita capacità di variazione obliqua,
tributando parte delle sue stesse influenze artistiche. "La canoa di mezzanotte",
l'episodio più sperimentale della sua carriera, è un duetto (Sybil
Mostert alla seconda voce) basato quasi esclusivamente su synth e sequencer, e
"Ma si t'a vo' scurda'" è un'altra piece partenopea. In
"Ho ballato di tutto" un fiero inciso da sonata beethoviana prelude
a una sordida esplosione dei pizzicati rutilanti degli archi e alle pennate marziali
della chitarra, e intersecazioni astratte di arabeschi orchestrali in dissonanza
contrappuntistica. "Un vecchio errore" è un nugolo di sottocodici
(classicismo e accompagnamento ballad, confessionalità, rassegnazione e
cocciutaggine) che impagina una nuova piece piano-voce (e una delle sue
migliori). "Mister Jive", infine, chiama in causa nuovamente il coro
per dipingere un nostalgico omaggio a Harry Gibson e al "Cotton Club",
tempio storico della musica jive, dotato di crooning decadente e
compassionevole tristezza nell'alternanza strofa-chorus. E' un album incantatore,
che rifugge ogni programmatica retorica per farsi fatalista fino all'eccesso.
La voce di Conte, gigiona, "soul" e impertinente come non mai, fa sfoggio
di grammelot, prestiti linguistici, ermetismi e istrionismi. La copertina
è stata disegnata da Hugo Pratt. La
seconda parte, Novecento (Cgd, 1992), pur mantenendo costante la vena nostalgica,
procede in direzione opposta. Il focus dell'opera è quello della
fusione massimalista (orchestrale) di stili e generi musicali tra i più
diversi, ma sempre ricondotti nell'umore artistico d'inizio secolo, o del trapasso
tra due ere. "Gong-Oh", la più filologica del lotto, è
un tributo à-la Art Tatum dedicato a Chick Webb e Sidney Bechet. La title
track è un altro sfolgorante preludio, un'apertura sinfonica con trilli
Waller-iani del piano, un tema di valzer, e un'atmosfera liberty da fin
de siecle, in consonanza con la carovana di cantastorie e saltimbanchi dell'orchestrazione.
La nuvola di synth di "Il treno va" e della romanza di "I giardini
pensili ha fatto il suo tempo" è l'unico ricordo degli esperimenti
di Parole d'amore (in ogni caso qui utilizzato in senso altamente naturalista).
"Schiava del Politeama" è un tango sordido nel miglior stile
contiano, quasi una sua autoimitazione, ma pure una carezzevole orchestrazione
di fisarmonica, concertino di archi e solo di sax. Il duetto di piano e contrabbasso
di "Per quel che vale" è sconsolato e rarefatto fino all'eccesso,
ma si risolleva con un bolero decadente, e la tropicalia big band di "La
donna della tua vita" è un piccolo carosello degli stili più
cari all'autore. "Inno in re bemolle" è un music-hall
lento e raffinato, dominato da un sax mesto, e "Una di queste notti"
propone un'intro da circo fatato e - poco dopo - un'accelerazione da samba
accattivante, mischiata nel modo più naturale a temi e idee melodiche da
Caffè Concerto parigino. In "Do do" (cantato da Jino Touche,
contrabbassista della band di Conte) sparisce la dimensione baldanzosa che pervade
l'album e si fa avanti un'atmosfera sacra e intrigante a tratti, quasi una benedizione
finale. Vedetta e crocevia, corrispettivo delle intuizioni di riedificazione
di climi austeri di Adolf Angst, è soprattutto un album contenitore, anche
se di charme indiscutibile, che imposta un discorso sfuggevole fatto di
canzoni sfuggevoli. Tradizionale solo in senso molto superficiale: il tema anacronistico
è un mero pretesto per esplorazioni e traiettorie deviate. Anomale quanto
il precedente (e forse più). Novecento è anche l'album che
esporterà definitivamente il cantautorato contiano presso quelli che sono
normalmente considerati i suoi allievi (Vinicio
Capossela, Sergio Cammariere, Ivan Segreto, Carlo Fava, Don Ciccio Philarmonic
Orchestra), e porrà le basi per il suo stesso superamento. Entrambi
anacronistici, Parole d'amore e Novecento sono - diversamente da
quanto si crede - due album contiani fino al midollo, il suo ying e
yang, un'immagine e il suo negativo fotografico. Laddove Parole d'amore
è ermetico, strumentalmente eccentrico, taciturno, confessionale e intimista,
Novecento è descrittivo, orchestrale, logorroico, espansivo ed esuberante.
Con questo dittico, Conte ha finalmente messo a nudo le sue basi emotive (prima
ancora che artistiche), e edificato un ciclo di canzoni che va inteso paradossalmente
come un tutt'uno inscindibile. Il music-hall di "Bye, Music",
la ballata in francese di "Reveries" e lo strumentale di "Ouverture
alla russa" sono i tre inediti di Tournée (Cgd, 1993), primo
volume di live registrati tra Amburgo, Parigi, Valencia e Vienna. Una
faccia in prestito (Cgd, 1995) ritorna a un nuovo ripensamento in stile Aguaplano.
Come in quel caso, si tratta di un album prolisso e pedante, eclettico e non privo
di momenti emozionanti, ma dalla scarsa tenuta globale. Sembra quasi che, in questi
casi, Conte dia alla luce quante più idee possibili per mettere alla prova
la sua arte e scacciare i fantasmi dell'inaridimento dell'ispirazione. "Don't
Throw It In The W.C" è un'impegnativa ciaccona Armstrong-style
che può essere assurta a metafora dell'intera opera: tromba con sordina
a guidare una lunga introduzione semi-orchestrale, armonie convenzionali ma al
contempo molta pregnanza nell'arrangiamento, versi scarni e di secondaria importanza.
L'ormai veterano cantautore, in ogni caso, sa ancora splendidamente librarsi in
rumbe vertiginose come "Elisir", in can-can baldanzosi come "Sijmadicandhapajiee",
in ninna-nanne dolenti come "Le parole tue per me", e in staffette piano-voce
come quelle della title track. "Danson metropoli" è un
nuovo gioco non-sense swingante vagamente superfluo, e la seguente "Il miglior
sorriso della mia faccia" tenta di scimmiottare i suoi passati capolavori
melodici. Sebbene con molti tentativi di riabilitazione alle spalle, quello
di Una Faccia In Prestito è un Conte "struccato" che crede
più a orchestrazioni scaltre e sonnambule (spesso rette dal solo Max Pitz)
che ad associazioni fantasiose. Cominciano a farsi avanti canzoni pedanti che
meglio figureranno nei live show del periodo, non a caso i più felici
della sua carriera. I sette minuti finali de "L'incantatrice" e la drammaturgia
spinta di "Quadrille", con il rodato Touche alla seconda voce, sono
le prime avvisaglie del progetto "Razmataz". The Best Of
(Cgd, 1996) è la migliore antologia su Paolo Conte fino ad oggi realizzata.
L'edizione del 1998, realizzata per il mercato americano, è prodotta dalla
Nonesuch. Tournée 2 è il sequel del disco di cinque
anni prima, e il miglior album live di Paolo Conte (cinque gli inediti:
"Swing", "Irresistible", "Nottegiorno", "Roba
di Amilcare, "Legendary"). Conte è in ogni caso arrivato
ben oltre il suo programma di illustre rivisitazione della canzone italiana, ne
ha sfondato diversi limiti attraverso una reinvenzione che parte da presupposti
liberi da qualsiasi costrizione di genere, ma pure giocando al rispetto reverenziale
delle sue nobili fonti ispiratrici. Questa libertà compositiva non ha mai
fruttato espedienti contraddittori o privi di dimensioni creative sterili o senili,
ma anzi appare votata alla spontanea continuità lungo direttrici poetiche
pregne di fascino, di un'autodescrizione che è apertamente intransigente
con il destinatario dell'opera artistica, e in primis con sé stesso, uomo
elegante e melanconico sempre in preda a turbamenti soavi di impalpabile profondità.
Nelle spavalderie felliniane del secondo disco, così come nei moti perpetui
di Appunti di viaggio, o nelle dissertazioni stilistiche di Aguaplano,
così come nei vaudeville jazzati di Paris, Milonga, nelle
lamentazioni dell'omonimo, così come nelle coloriture orchestrali di Novecento,
o negli ermetismi eccentrici di Parole d'amore, emerge una personalità
irriducibile, votata a un continuo gioco di sobria rielaborazione e incanalamento
rigoroso in termini di rispetto di regole e genuine consuetudini. Questo "doppio
registro" è, alla conclusione di questo intenso periodo creativo,
una delle più grandi e miracolose lezioni impartite al cantautorato e alla
musica italiana in generale. L'autore, esaurita parzialmente la vena creativa
della forma canzone, si dedica alla realizzazione di un'opera che tiene in segreta
gestazione fin dai suoi esordi. Razmataz, il risultato finale di quel
lungo processo, è un colossale progetto di operetta multimediale per illustrazioni
e colonna musicale, che - da sola - rappresenta una stagione creativa particolarmente
cara all'autore. Tale progetto serve a Conte per muoversi su più fronti:
anzitutto quello di (ri)scoprirsi compositore in grado di pennellare operette
liriche, alle prese tanto con arie quanto con ouverture, intermezzi e grandi parate
orchestrali. In seconda analisi, è l'occasione irrinunciabile per poter
mettere a nudo, finalmente, la passione innata per la pittura e la storia dell'arte,
sia dandone frutto concreto producendo disegni e tavole sia focalizzandosi tematicamente
sulle avanguardie artistico-pittoriche del primo '900 (surrealismo e dadaismo
su tutti, anche se lo stile pittorico di Conte è più vicino al primo
Carlo Carrà). Allo stesso tempo, il tutto serve a Conte per poter sondare,
una volta di più, la sua grande capacità di amalgama, tramite il
provvidenziale senso di discretezza presente da sempre nelle sue canzoni. Ne
nasce un'opera quantomeno significativa, anche se destinata a essere dimenticata
in fretta (non certo a bissare i successi planetari del coevo "Gobbo di Nôtre
Dame" di Riccardo Cocciante), realizzata nelle versioni italiana, inglese,
francese e spagnola, che sviluppa in un centinaio di tavole (schizzi a carboncino,
tempere, disegni, etc.) e in più di due ore di sincronizzazioni audio-video,
una trama volutamente imprecisa. Il pretesto narrativo è quello
della ballerina africana di nome Razmataz, della sua rincorsa al successo nella
bella e grande Parigi e della sua rapida e misteriosa scomparsa; qui incontri
di talent-scout truffaldini, artisti di strada, amici dello spettacolo
in pieno successo, e di altre figure mitologiche di oscura decifrazione faranno
decollare la storia verso lo status di parata universale nel mondo dell'arte,
intesa da Conte come creatività austera e sfuggevole, e verso la profonda
riflessione sulle atmosfere di suprema contaminazione culturale degli inizi del
'900, tra sperimentazioni pittoriche, jazz degli esordi, cultura africana, classicismo
operistico, poetica dei bassifondi della metropoli. Tecnicamente, la fruizione
live dell'opera avviene tramite la visione multipla e sincronica di più
proiettori, disposti in più sale secondo un percorso di mostra audiovisiva,
e l'ascolto della colonna musicale. Nelle prime rappresentazioni del "Razmataz
Tour", avvenute lungo tutto il 2001 a Cannes (prima internazionale in occasione
della Mostra del Cinema), Londra, Berlino, e solo successivamente in Italia, lo
spettacolo comprendeva una performance live eseguita da una band-orchestra
sinfonica, alla stessa stregua di un preludio operistico, di un'introduzione da
parte di una voce narrante fuori campo, e dello svolgimento vero e proprio, tramite
tendine e transizioni tra opere pittoriche. La componente visiva reagiva in
primis con sé stessa, a mimare interazioni dialogiche e parti solistiche,
e poi - ancora in modo sincronico - con la colonna musicale (preregistrata) che
ne costituiva alternativamente intermezzo strumentale, sottofondo di puro accompagnamento
o vero e proprio attore protagonista, quasi a sorpassare la forza visiva dei personaggi
inventati e disegnati dall'autore. I brani vocali prevedono interpreti che
spaziano dallo stesso Conte a soprani lirici, chanteuse dal timbro à-la
Edith Piaf, crooner Waits-iani,
performer afro-americane. Le composizioni - in linea con gli assunti di
questo "musical pittorico" - inglobano elementi eterogenei, presi in
egual misura dalla tradizione, dall'opera lirica e dal suo stesso repertorio personale. Progetto
fatto di anacronismo e retorica nostalgica, ambizione e ricercatezze da provinciale
universalismo, itinerante difformità. Ha il classico gusto surreale dei
Magrittiani macigni in aria, talmente innaturali nel loro spontaneo sfasamento
temporale, che pure l'attenta osservazione diviene meccanica e certosina insensatezza.
E' per questo motivo che il prevedibile flop ne pregiudicherà le
sorti. Una sintesi mirata (da respirare profondamente, più che da vedere
o sentire) dell'estetica Contiana tout-court. La colonna sonora, edita
su Cgd East West nel 2001 e comprendente solo alcune highilight - riarrangiate
- delle performance originarie, rende un tiepido merito di gradevolezza.
Occasione compositiva tratta dall'omonimo romanzo, di pugno dello stesso Conte. Reveries
(2003) è un'altra commercializzazione pensata per il mercato americano
(ma di lì a poco diffuso anche in Europa), contenente l'inedita versione
di studio della title track, (fino ad allora conosciuta esclusivamente
in veste live), insieme a stanchi rifacimenti di alcuni classici ("Dancing",
"Fuga all'Inglese", "Come Mi Vuoi?", "Madeleine")
e a brani originali tratti da Novecento e Aguaplano. A nove
anni dall'ultimo disco di canzoni, Conte torna con la sua opera più notturna
e disillusa, Elegia
(Warner, 2004). La title track attacca con un pianoforte solitario, dalle
nobili volute Chopin-iane, "Chissà" è una ballata atmosferica
basata su rintocchi gravi del piano e su sobri contrappunti e "Molto Lontano"
è una danza ternaria con un cambio di tempo nel chorus che diventa
(ri)cambio d'atmosfere. "Non Ridere" (un suo esclusivo e commosso j'accuse),
"Sandwich Man" (calypso piano-driven dalle liriche impressionistiche),
"Bamboolah" (una piccola valida opera di stilizzazione) e "Il Regno
del Tango" (un'emotiva mistura stilistica in tempo di bossa) sono brani con
cui il bardo di Asti torna a sfogarsi tramite invenzioni coloristiche rimaste
forse adombrate in dischi come il precedente. Il quarto episodio della saga
dell'uomo del Mocambo ("La Nostalgia del Mocambo") è perfettamente
integrato nel mood del disco: un'oasi estatica di note accarezzate di piano accostata
e contrapposta a un chorus snello, mentre il protagonista mette da parte
anche le sue ultime flebili speranze e si abbandona una volta per tutte (ma serenamente)
al "tinello maròn" in compagnia dell'immancabile convivente,
e sorseggiando l'altrettanto immancabile caffè. Disco ruvido e privo
di effetti retorici che non siano quelli riassuntivi di una poetica, Elegia,
seppur con scarsa immediatezza bozzettistica, permette a Conte di muoversi con
la bacchetta magica dello switching di umore e di sensazioni interiori,
presa in prestito da un viandante sulla via di casa e avvolto dai mille pensieri
del rientro. Massiccio impiego di Claudio Chiara (suona flauto, sax alto e tenore
e contrabbasso). Primo album del cantautore per la Atlantic. Dopo 37 anni,
Paolo Conte è tornato a scrivere per Adriano Celentano. La canzone, "L'indiano",
fa parte della colonna musicale della trasmissione televisiva "Rockpolitik",
andata in onda su RaiUno nell'ottobre 2005. A fine 2005 è
stato pubblicato un doppio album live (corredato da relativo Dvd) contenente
l'intera performance del concerto del 26 luglio di Conte all'Arena di Verona.
E' presente un altro inedito, intitolato "Cuanta Pasiòn", che
vede la partecipazione del chitarrista Mario Reyes (Gypsy Kings Family) e della
cantante iberica Carmen Amor. Wonderful (Bmg, 2006)
è un superfluo box di tre cd a coprire in modo tanto elegante quanto maldestro
l'intera produzione di Conte per la Rca (i primi due omonimi, Un gelato al
limon, Paris Milonga e Appunti di viaggio). | |