Ministry

Ministry

Incubi di un cyber-punk

Dal synth-pop degli esordi alla miscela di industrial e hardcore che li ha resi celebri. L'odissea musicale dei Ministry di Al Jourgensen, tra spettri gotici e visioni inquietanti da un futuro iper-tecnologico

di Claudio Fabretti, Mauro Roma

I Ministry sono la band di Allen Jourgensen, personaggio tra i più carismatici e bizzarri dell'attuale scena rock americana, nato all'Avana, Cuba, e cresciuto nel Colorado. Il percorso di Jourgensen si rivela negli anni molto vario: synth-pop, funk, heavy-metal, industrial, gothic e punk si incrociano nelle sue composizioni, che riescono sempre a esprimere una torbida inquietudine di fondo.

Le sue prime esperienze, negli anni del college all'Università dell'Illinois, lo vedono insieme a Frank Nardiello (successivamente mebro dei Thrill Kill Kult) negli Special Affect. Quindi, nel 1981, nasce ufficialmente il progetto Ministry. Il primo passo è la realizzazione a Chicago di alcuni singoli ("Cold life", "I'm Falling", "Primental") all'insegna di un synth-pop acido e beffardo. Al gruppo si unisce presto il percussionista Stephen George, che contribuisce alla nascita dell'Ep Cold Life, sempre nel solco del pop elettronico. L'album d'esordio della band di Jourgensen è però With Sympathy, edito in Europa come "Work for love". Un disco che alterna motivi pop orecchiabili, un disco-punk atmosferico alla Joy Division e un funky anni '80. Il risultato non è esaltante, tanto che lo stesso Jourgensen arriverà a rinnegare l'album.

E' con Twich (1986) che comincia invece la stagione più fortunata dei Ministry. L'album, preceduto da un trio di singoli ("All Day", "Everyday Is Halloween" e "The Nature Of Love"), segna l'avvento di un nuovo genere, che mescola industrial e dance, hardcore e punk in una girandola di ritmi sintetici e convulsi effetti elettronici. Una musica spasmodica e allucinata, che sconfina a tratti in autentici tour de force cacofonici.

Jourgensen perfeziona il progetto, insieme al nuovo partner Paul Barker, aggiungendo esplosivi riff e distorsioni di chitarra in The Land of Rape and Honey (1988). I testi, che a prima vista sembrano solo rabbiose arringhe cariche di violenza e misantropia, vanno in realtà a comporre una riflessione profonda e dolorosamente pessimista sulla sempre crescente disumanizzazione della società moderna. Quello ritratto da quest'opera è un mondo afflitto dalla tirannia delle macchine, dove gli uomini stessi si sono trasformati in robot privi di sentimenti ed emozioni.

Musicalmente, i Ministry perseguono la distruzione dei generi più in voga nell'underground del periodo: l'hardcore, con la sua violenza diretta e senza compromessi e l'industrial, che del primo è l'esatto opposto, in quanto imparentato con l'avanguardia più cerebrale, ma anche genere tecnologico e "disumano" per eccellenza.
"Stigmata" parte con una cadenza sporca, brutale e trascinante, con quel riff "artificiale" e la voce filtrata di Jourgensen a condurre sardonicamente la danza; le successive "Missing" e "Deity" si lanciano invece in thrash-metal epilettici, fulminei e maestosi.
La lunga "Golden Dawn"è una cavalcata mozzafiato attraverso le lande più selvagge e desolate dell'America, condita da campionamenti caotici; "Destruction" è un saggio sulla dissonanza, fatta di controtempi frenetici, clangori sparsi e urla terrificanti; altro grande capolavoro di (de)costruzione sonora è "Hizbollah", divagazione orientaleggiante, con tanto di canto da muezzin a creare un'atmosfera di straniante esotismo.
Si arriva così alla title-track, con la voce di Jourgensen a lanciare invettive sopra un ritmo estenuante, sopra un'altra fittissima pioggia di campionamenti, sopra slogan urlati a squarciagola: l'atmosfera è quella di un comizio da regime totalitario. Con "You Know What You Are" la tecnologia prende definitivamente il sopravvento: qui tutti i suoni, in particolare le voci, sono decostruiti, spezzettati, filtrati e totalmente stravolti: il ritmo è dato da una linea di sintetizzatore semplice e avvolgente (i Nine Inch Nails in questo sono debitori dei Ministry), ma a dominare sono gli straordinari effetti vocali: il testo è recitato da un coro di robot spietati, mentre in sottofondo si agitano una risata beffarda e un'unica, isolata voce umana che urla disperata la frase del titolo. In questi brani i Ministry riescono a mettere in musica il futuro predetto da scrittori come Ballard, Dick o William Gibson, ponendosi come portabandiera musicali del movimento cyberpunk, che nella seconda metà degli anni 80 viveva il suo momento di massimo splendore. "Mi piace usare la tecnologia - spiega Jourgensen - ma cerco sempre di mescolarla con la potenza viscerale dell'umanità. Usare la tecnologia è pericoloso, devi sempre avere presente che sei tu il capo e non lei". La veloce ed efficacissima "I Prefer" segna la resa totale dell'umanità ("have you run into the human condition, and i raise the white flag and that's the way i prefer flagellation"), Jourgensen, infine, si cala nelle nevrosi lancinanti di "Flashback", forse il brano più duro e violento dell'intero lavoro.

Dopo la divagazione hardcore dei Pailhead (insieme a Ian MacKaye dei Fugazi), Jourgensen torna ai Ministry ingaggiando lo scozzese Chris Connelly (Finitribe) e William Rieflin (percussioni). Nasce così The Mind Is A Terrible Thing To Taste (1989), un lavoro se possibile ancor più duro e desolato, che ha per tema dominante quello della società totalitaria e dei suoi meccanismi disumanizzanti. Su basi thrash e hardcore, il gruppo innesta ancora una volta un gusto peculiare per il rumorismo, ricorrendo ampiamente alla tecnica del sampling. Le distorsioni di chitarra sono ancora una volta terrificanti e si sposano alla perfezione con il gelo dei synth e la potenza di fuoco del drumming. Ne scaturisce un sound al vetriolo che vuole esprimere soprattutto un senso di rivolta e di rancore, corroborato dalla consueta durezza dei testi. E la rabbia esplode subito nella feroce sceneggiata di "Thieves", in bilico tra rap e metal, e nella invettiva furibonda di "Burning inside". Jourgensen veste i panni di un sarcastico, stravolto crooner nella surreale "Never Believe", mentre una cadenza irresistibile muove "Cannibal Song", martellante e ipnotica danse macabre, che si snoda tra pulsazioni ossessive e cori mortiferi, via via più incalzanti. Il requiem industriale di "Dream Song" chiude il disco nel segno dell'oscurità e del terrore. L'album è il frutto (perverso) della mente alienata di Jourgensen, un'odissea nei gironi danteschi di un futuro regime del terrore che sovrasta e annienta l'individuo. Ed è, insieme al disco precedente, il vertice del cyber-punk visionario dei Ministry, che grazie a queste due opere si consacrano la più importante band industrial americana in coabitazione con i Nine Inch Nails. "Sì credo che siamo arrivati molto vicino al nostro suono perfetto - rivela Jourgensen - ma il giorno che raggiungerò il suono che davvero voglio mi ritirerò e andrò a fare l'unico altro lavoro che so fare, cioè lavare i piatti da Denny's".Particolarmente evidente in quest'opera l'influenza degli Skinny Puppy, al punto che Jourgensen arriverà a ingaggiare Ogre nel successivo tour e a collaborare, in fase di scrittura e di remixing, all’album “Rabies”, pubblicato dai Puppys nel 1989. Ma in realtà dopo questo disco e dopo l'effervescente singolo alla Stooges "Jesus Built My Hot Rod", inizierà anche la parabola discendente dei Ministry.

Psalm 69 vira verso l'heavy-metal più abrasivo e apocalittico. La title-track sfodera un riff di chitarra quasi death-metal, mentre l'ipnotica "Just One Fix" è un altro saggio del loro industrial al veleno; buona parte del disco, però, delude la attese. E a confermare l'involuzione del sound-Ministry giunge il successivo Filth Pig. Registrato con l'avvento di un vero batterista, Rey Washam, l'album ondeggia tra i Metallica ("Crumbs") e i Nine Inch Nails ("Fall"), aggiungendo qua e là citazioni di Led Zeppelin e Velvet Underground. Jourgensen, intanto, si inventa i Buck Satan & The 666 Shooters, una parodia della musica country, ma la sua immaginazione appare ancora una volta inaridita in The Dark Side Of The Spoon, l'ultimo album dei Ministry, che ironizza su "The Dark Side Of The Moon" dei Pink Floyd senza raggiungerne, purtroppo, il valore musicale.

Nel frattempo, il personaggio Jourgensen sconcerta la stampa e accresce la sua fama di dannato del rock. Afferma di essere "un tossicomane-eroinomane", e a proposito delle droghe rilascia dichiarazioni del tipo: "L'unico problema che ho con le droghe è che ogni tanto finiscono", "Io uso la droga, quando lei userà me, potrò iniziare a pensare di non usarla più" o ancora: "Io non dico a nessuno: 'Drògati!' Lo faccio io e basta, le altre persone hanno da vivere la loro vita". Insieme a Trent Reznor dei Nine Inch Nails, Al Jourgensen diventa in breve tempo il "Mister Autodistruzione" più noto dell'alternative rock. Ma ciò che conta è la sua musica. Nonostante i passi falsi degli ultimi anni, infatti, la ferocia industrial e le opprimenti atmosfere di stampo quasi gotico dei Ministry hanno segnato una pagina fondamentale del rock antagonista americano, una riedizione meccanica e futurista degli spettri più terrificanti del dark-punk.

Nel 2003, i Ministry tornano a farsi sentire con Animositisomina, disco molto duro, all'insegna della rabbia più viscerale e di una violenza ormai palesemente "metal".Nascono così brani come l'iniziale "Animosity" e la successiva "Unsung", ricca di echi dei Tool come anche le oscure "Piss" e "Lockbox". Il sound è sempre saturo, assordante, esplosivo: ogni pezzo si snoda su tre semplici componenti: ritmo martellante, voce urlata, filtrata e manipolata e una grandinata di deflagrazioni chitarristiche. Ormai di industrial c'è rimasto poco o niente: i Ministry sono a tutti gli effetti una metal-band, e in quest'ambito Jourgensen si dimostra ancora capace di sfornare capolavori come "Broken" e "Impossible", due brani epici e catastrofici, che svettano su tutto il resto. D'altro canto, però, risulta impietosamente evidente come il nostro (fatta eccezione forse per la sola, lunghissima "Leper") sia ormai sempre cronicamente a corto di idee originali.

Su Houses Of The Molé (2004) Jourgensen accentua la sua vena di livido rancore, sgolandosi in invettive politiche tanto forsennate quanto poco graffianti dal punto di vista lirico. Musicalmente, non si registrano significative novità e il sound risulta quasi una versione esasperata del marchio-Ministry. La lunga "Worm", la minacciosa "World" e la grottesca "Worthless" regalano i momenti più suggestivi di un disco decisamente "minore" nella produzione del gruppo.

Senza preoccuparsi di sorprendere ulteriormente (l’invettiva anti-Bush è ormai una prerogativa indissociabile dei Ministry post-11 settembre), in Rio Grande Blood (2006) mr. Alien crocifigge il presidente "guerriero" in copertina lasciandogli il resto del corpo immerso nel suo adorato barilotto.
I toni, quindi, appaiono ferocemente espliciti come non mai, in quello che probabilmente verrà ricordato come il disco più politico e furibondo della band dell’Illinois.
I sample di Bush Jr. estratti dai suoi memorabili discorsi e leggermente modificati per l’occasione fungono spesso come introduzione ai brani alla maniera della title track, tra chitarre affilate come martelli pneumatici a corto di manutenzione, giri di basso monolitici e il vocione lastricato di pece e di altre cose meno identificabili di Al Jourgensen. Il retaggio industriale si cataloga solo nella marcia sincopata intorno al terzo minuto, e resterà l’unico episodio dichiaratamente tale dell’album.
La successiva, durissima "Señor Peligro" registra un altro, tracimante inasprimento dell’aspetto trash-metal della formazione di Chicago, che annovera ancora una volta guest-star illustri come il bassista Paul Raven (Killing Joke), il tastierista John Bechdel (già con i Fear Factory, Prong e Killing Joke) e Joey Jordison (Slipknot, che suonerà al posto di Mark Baker nel world tour). In pianta stabile, troviamo invece Tommy Victor (Danzing, Prong) e lo storico partner di Alain, il chitarrista Mike Scaccia. Una line-up di tutto rispetto, impreziosita dai contributi di Sgt. Major, Jello Biafra e Liz Constantine.
Nella sardonica "Gangreen", amara presa di coscienza delle metodologie militari promosse da Bush e Condoleezza Rice nel "Discorso sullo stato dell’Unione" pronunciato ai primi di febbraio 2005, Al cadenza il pezzo con beffardi ululati di scherno, mentre il drumming e il riffing richiamano alla memoria il tema delle ispezioni di Palpatine nella saga di "Star Wars".
L’indolente, vigorosa, devastante "Fear (Is Big Business)", dalle coordinate slayeriane, intensifica la polemica a livelli estremi, palesando i rapporti sottorranei tra il presidente degli Stati Uniti e gli interessi petrolifici alla base dell’invasione dell’Afghanistan, con il consueto stile opprimente e rimpinzato di chitarre distorte e ricordi speed-metal. In "Lieslieslies", Alien erige una monumentale melodia post-grunge da antologia. Echi Pitchshifter investono il remix di "The Great Satan", pezzo incluso in "Rantology", l’album celebrativo per i 25° anniversario della band uscito lo scorso settembre. Le tastiere techno-dance di John Bechdel emergono nei preliminari di "Yellow Cake", brano che presto perde ogni attitudine elettronica per adeguarsi al pulsante incedere stoner. Bechdel ancora protagonista nell’incipit di "Palestina", altra traccia degna di nota, con la sezione ritmica rispolverata da classici evergreen come "Scarecrow", "Just One Fix" e "Stigmata". L’amico Jello Biafra, vocalist dei Dead Kennedys e non nuovo a collaborazioni con i Ministry, firma il proprio contributo all’assalto con "Ass Clown", dove i campionamenti si fanno più evidenti e dove risalta una lontana parentela con "In Case You Didn't Feel Like Showing Up" del 1990.
Cambio di scena nel finale, dove l’Oriente si tramuta in musica in "Khyber Pass" (con le invocazioni del deserto ad opera di Liz Constantine), lunghissima liturgia che abbassa mediante i suoi arabeschi la convulsa irrequietezza dell’album, che trova appropriata diluizione nella marcia alla "Full Metal Jacket" intonata da Al nella hidden track.
Rio Grande Blood è tutto così: violenza, indignazione, satira politica, potenza metal.

Dopo ventisette anni vissuti tra rivoluzioni, cambi stilistici e passi falsi, i Ministry giungono al capolinea con The Last Sucker, che chiude una volta per tutte il cerchio attorno a una trilogia anti-George Bush iniziata nel 2005 con Houses Of The Molè e proseguita nel concept Rio Grande Blood.
Quello che sorprende, al di là dei banali proclami politici, è la ritrovata efficacia di quelle fauci industrial-metal che riattualizzano parzialmente il fantasma del passato. "Let's Go" imbastisce tonnellate di rabbia perversa, sfruttando campionamenti di dialoghi manipolati e assoli heavy-metal di derivazione Slayer. I suoni della chitarra di "Watch Yourself" vengono destabilizzati attraverso l'elettronica e le invettive di Jourgensen lasciate sprofondare in un marasma di effetti cacofonici, infilzati dall'avanzamento battagliero delle percussioni, che mantengono abbastanza alta la soglia di godibilità in un contesto privo di spessore.
Il premio per il brano più violento spetta a "The Dick Song", sorta di speed-metal del futuro, dotato di riff che si contorcono sotto la morsa di una melodia spietata. Ma non è tutto oro quel che cola: da anni i Ministry non sanno tenere testa alle esigenze di un album intero, e il minutaggio di alcuni pezzi come la title track appare francamente sproporzionato in rapporto all'ispirazione musicale. Jourgensen è ormai un bravo produttore e sempre meno un musicista. Detto ciò, c'è spazio anche per la cover di un classico dei Doors, "Roadhouse Blues", completamente traslato in chiave metallara. E la band deve anche aver assorbito i contatti con Jello Biafra, poiché "Die In A Crash" è il pezzo più punk che abbia mai scritto (ospite vocale Burton C. Bell dei Fear Factory). L'apocalittica suite finale divisa in due parti "End Of  Days" sfoggia una cavalcata pirotecnica che campiona il discorso di addio alla nazione del presidente statunitense Dwight D. Eisenhower nel 1961 e sancisce contemporaneamente il loro canto del cigno.

Jourgensen ha dichiarato che registrerà alcune cover prima di dedicarsi ad altri progetti. In attesa di quanto ci riserverà il futuro, The Last Sucker risulta inaspettatamente ascoltabile nella sua superficialità di fondo.

A quanto pare i Ministry sono un vizio a cui Jourgensen non riesce a rinunciare, ed ecco che ora tornano sotto la label tedesca Nuclear Blast con AmeriKKKant, disco chiaramente incentrato sulla situazione politica americana e critico nei confronti di Donald Trump. Un lavoro che riparte da dove si era fermato il discorso, proponendo suoni vagamente metal, strizzatine d'occhio al passato remoto e recente, e vagonate di campionamenti vocali a tema politico; purtroppo il risultato è decisamente noioso e, soprattutto, totalmente inutile. 

Contributi di Emilio Saturnini, Stefano Villa, Davide Pappalardo

Ministry

Discografia

With Sympathy (Arista, 1983)

Twitch (Sire, 1985)

6,5

Twelve Inch Singles 1981-1984 (Wax Trax!, 1987)

The Land of Rape and Honey (Sire, 1988)

8

The Mind is a Terrible Thing to Taste (Sire, 1989)

7,5

In Case You Didn't Feel Like Showing Up (Sire, 1990)

5,5

Psalm 69: The Way To Succeed and the Way to Suck Eggs (Sire, 1992)

5

Filth Pig (Sire, 1996)

5

Dark Side of the Spoon (Warner, 1999)

5

Animositisomina (Sanctuary, 2003)

5

Houses Of The Molé (Sanctuary, 2004)
Rio Grande Blood (Sanctuary, 2006)

6

The Last Sucker (Megaforce, 2007)

6

AmeriKKKant (Nuclear Blast, 2018)

4

Pietra miliare
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