Criptici fin dal nome, gli Autechre (pronuncia: "o-tek-er") sono tra i portabandiera della nuova ambient-techno mondiale. Le loro sinfonie elettroniche nascono da architetture complesse, basate su tempi inusuali e suoni distorti, con un uso massiccio di voci filtrate e riverberi digitali. Una formula musicale che raccoglie le fondamentali intuizioni di Kraftwerk e Tangerine Dream, aggiornandole con le sonorità di fine millennio. Ma rispetto ad altri esponenti di questo revival elettronico, quali Orb, Boards of Canada e Aphex Twin, gli Autechre vantano una maggiore ricchezza percussiva, che dà vita a un suono con caratteristiche più "industriali". La band è un duo formato da Sean Booth e Rob Brown, due disc jockey della scena techno di Manchester. Amici fin dall'adolescenza, i due condividono la passione per la musica e per i divertimenti tecnologici, giocando a manipolare i dischi con le macchine e creando curiosi "mixtape" che diventano via via più elaborati. A scoprirli è la Warp, l'etichetta che aveva già pubblicato i lavori di Sweet Exorcist, Nightmare on Wax e B12 e che scriverà la storia dell'elettronica degli anni Novanta, con nomi come Aphex Twin, Boards Of Canada e Plaid.
Preceduto dall'Ep Cavity Job del 1991 (con "Cavity Job" e "Accelera 1 & 2"), arriva l'album d'esordio Incunabula (1993), in cui già risplende il sound strumentale degli Autechre, costruito quasi solo su battiti e accordi. La loro peculiare idea di techno, fondata su ritmiche destrutturate e sonorità cerebrali, si rivela quanto mai suggestiva, muovendosi tra gli acquerelli ambientali di Brian Eno e le scorribande spaziali dei tardi Tangerine Dream. E' una musica meccanica, ma fluida, che utilizza liberamente trame di ascendenza jazz e sinfonica. Come in tutta l'ambient, anche gli Autechre hanno in Ligeti un ispiratore nascosto. Ma nei meandri di Incunabula affiorano anche accenni all'hip hop, alla musica indiana e ai ritmi africani, nonché una peculiare ricerca del "groove". I loro suoni, lenti e ipnotici, con variazioni minime di accordi su un sottofondo di percussioni in tempi dispari, sono insieme maestosi e desolati, lontani da ogni stilema comunemente associato alla techno. L'overture di "Kalpol Introl" è un accattivante cocktail di suoni vellutati, ritmica robotica e accenni melodici. "Bike" è un balletto futurista, con il ritmo a librarsi su un tappeto di effetti sonori stranianti. "Autriche" sembra quasi giungere da un abisso remoto, con un coro simil-gregoriano che si delinea su un vortice di fluttuazioni sonore e di assoli stile free-jazz alle tastiere. "Bronchus" è una ulteriore divagazione ambientale, che introduce al singolo "Basscadet", propulso da ritmi più serrati e da percussioni latinoamericane. Il gioco si fa sempre più ammaliante al punto che, calandosi nelle atmosfere di "Eggshell" - mirabile combinazione di melodia, ritmo trascinante e improvvisazione jazz - pare quasi di imbattersi nella magica "tanzmusik" dei Kraftwerk. E se "Doctrine" e "Maetl" sembrano voler accentuare la componente più cupamente techno del loro sound, "Winwind" combina una sofisticata ricerca tecnologica (fatta di loop, campionamenti e droni) con un suono suadente da "chill-out". "444" chiude il disco nel segno di una dance ambientale di grande suggestione. Le partiture meccaniche di Incunabula trasportano l'ascoltatore in un'altra dimensione, lo disorientano costantemente, facendogli perdere ogni riferimento con la realtà. L'effetto non è distante dalla trance psichedelica.
Incunabula raggiunge il primo posto nella classifiche indipendenti inglesi e viene seguito dal box set Basscadet. Nel frattempo gli Autechre diventano oggetto del culto dei numerosi amanti del genere, tanto da rendere necessarie le ristampe dei primi singoli attraverso varie etichette quali Wax Trax!, TVT e la Nothing di Trent Reznor dei Nine Inch Nails. "Non siamo stati influenzati dalla scena techno inglese - spiega Sean Booth -. Da ragazzini ci piaceva il synth-pop e andavamo pazzi per i New Order. Poi ci siamo appassionati all'hip-hop fino a che, verso il 1988, ci siamo detti che quel genere era morto. E così ci siamo rivolti ai nuovi suoni 'acidi' di Chicago. Se suoniamo un po' 'jazzy', poi, è perché siamo passati attraverso un certo tipo di soul, il vecchio Marvin Gaye e compagnia. Insomma, il punto è che proprio non abbiamo un'idea precisa del tipo di musica che vogliamo suonare".
Anti (1994) arriva una presa di posizione contro il Criminal Justice Act, che limita le libertà di protesta e di espressione, giungendo a proibire i rave. E' un lavoro interlocutorio, che precede l'uscita del secondo album, Amber (1995). Seppur meno maestoso del precedente, il disco conferma tutto il talento dei due ragazzi di Manchester. La partitura "galattica" di "Foil" introduce in un nuovo viaggio interstellare che prosegue con i suoni drammatici e soffocati nei riverberi di "Silverside", con la vignetta surreale di "Slip", con il minaccioso clima techno-industrial di "Glitch", con la bizzarra commistione elettronica tra flauti andini e mantra tibetani di "Piezo", con le sonorità gelidamente atmosferiche di "Furthur" e il balletto robotico di "Teartear"; mentre la quasi classicheggiante "Yulquen" riporta un senso di quiete e austerità. Come scrive il critico Bruno Ruffilli, "gli Autechre sono stati tra i primi a passare dall'hardware al software: i suoni non nascono più da drum machine e sintetizzatori, ma vengono creati e modificati al computer". Un approccio che, dal vivo, "permette di sfuggire alla logica rigida delle banche di suoni predefinite e consente di offrire set sempre diversi". Brani di tre minuti si trasformano così in "vere e proprie suite, strutturate su alterazioni ritmiche quasi impercettibili, con lunghi drones di note basse, disturbi gaussiani, suoni ottenuti per curve matematiche e 'sintesi granulare'".
Il successivo Tri Repetae (1996) accentua i toni claustrofobici della loro musica, senza rinunciare, tuttavia, a piacevoli incursioni melodiche. Tra i dieci brani, svettano "Clipper", dalle atmosfere cupe e oppressive, "Eutow", dall'andamento sinfonico, la danza esotica di "Rsdio" e la rarefatta "Overand", che scivola piano verso il silenzio.
Con l'album Chiastic Slide (1997), cupo e denso di rumori industriali sulla scia di una collaborazione con i Coil, il duo inasprisce i suoni e in pezzi come "Rettic AC", "Recury" o "Nuane" sembra quasi di ascoltare una versione cyberpunk dei Throbbing Gristle di "D.O.A.". La combinazione tra le ruvide sonorità industriali e le dolcezze delle atmosfere ambientali dà buoni frutti, come nell'iniziale "Cipater", che si conclude con melodia e arrangiamento arabeggianti, al limite della psichedelia "mistica" degli anni '60. Più pacata risulta "Tewe", mentre "Calbruc" e "Pule" riprendono le melodie già ascoltate in "444" (da Incunabula) e in "Slip" (da Amber), con variazioni sullo stesso tema. Nello stesso anno viene pubblicato anche Cichlisuite, che parrebbe offrire quasi una descrizione della loro musica (una suite ciclica), ma si legge invece "Sickly sweet": all'incirca "malsana e dolce".
EP7 (1999) raccoglie ben undici brani ma è nel complesso un lavoro minore, mentre l'album Confield (2001) prosegue il progetto "rumoroso" intrapreso con Chiastic Slide. L'"intelligent techno" di Incunabula riecheggia nell’atmosfera sinistra che pervade l’album. Ma il suono liquido e minimalista delle origini riappare solo in un paio di episodi ("Uviol" e "Eidetic Casein"). Prevale, invece, un collage di "patterns" obliqui e a volte un po’ confusi. La consueta ricercatezza nella scelta dei sample e dei suoni ("Lentic Catachresis" o "VI Scose Poise") sembra perdersi in un groviglio di ritmi che appare, a tratti, un po’ sbilenco ("Pen Expers"), mentre un brano come "Sim Gishel" sembra quasi il ronzio di computer alla ricerca di un'anima. Un album raffinato e sperimentale, insomma, ma che perde per strada buona parte del pathos e della suggestione degli esordi, rifugiandosi in un laboratorio musicale sempre più algido e lambiccato.
Negli anni, gli Autechre si sono dedicati anche a remix per St Etienne, Tortoise, DJ Food, Skinny Puppy, Nightmares on Wax, e a una carriera parallela iniziata nel 1994 col nome di Gescom (su etichetta Skam Records). Grazie a una sapiente opera di destrutturazione di ritmi e suoni tipici della musica elettronica, i due deejay di Manchester hanno rivoluzionato la techno, proiettandola nello spazio, verso le sinfonie più audaci dell'ambient e della kosmische musik. Un'operazione fondamentale per la musica degli anni a venire, come dimostra la moltitudine di gruppi (dai Kid 606 agli Oval, dai Pan Sonic ai Boards of Canada, dai Radiohead post "Kid A" ai Matmos) che sono stati in qualche modo influenzati dalle loro intuizioni.
Nel 2003 gli Autechre sono tornati con Draft 7.30, dieci tracce per un'opera di alta architettura elettronica. Una compatta aggressività dai molti contrasti bianco e nero mitragliata con il gusto per l'improvviso sbilanciamento dinamico della composizione caratterizza la title track. La durezza geometrica, artificiale dei toni in "Xylin room" si accorda alla varietà focale di "IV VV IV VV VIII", alle linee abissali di "6 IE.CR", in un equilibrio che permette agli Autechre di non cadere mai nello stereotipo. "Theme of sudden roundabout" è illuminata da una carica espressiva di funk disumanizzante. La successiva "VL AL 5" salda segmenti acustici ed elettronici in un porno-noir alla Tsukamoto, pieno di lap-dancer mutanti dagli occhi a mandorla. Grumi fonici, accumulazione parossistica di detriti sonori per scandire la pulsazione di un gesto, per organizzare un ritmo: "P.:NTL" ha un nucleo 'black' e non è difficile arrivarci pur nuotando in un groviglio di suono bianco che tutto sembra soffocare. Stilemi melodici, armonici e ritmici confluiscono in una gigantesca arcata formale fortemente dialettizzata all'interno della quale risultano alternativamente triturati o esaltati. Un brano come "V-Proc" vive su una superficie che non esclude lo spazio in profondità, fino a raggiungere una forte intensità drammatica: siamo alla geofisica interiore, a ciò che affiora una volta scalfita la crosta un po' come nella "Plastica spaziale" di Kricke o nell'"Intérieur" di Raoul Ubac.
Nel 2005, Untilted conferma però l'impressione che il duo britannico sia ormai finito in un vicolo cieco. Sparisce ogni apertura verso il nuovo, o meglio si affossa in sterile ripetizione. Eppure "LCC" non prometteva male: una cascata di battiti, un'ossessione paranoica scarnificata fin quasi all'osso, dura e tenebrosa fino all'approdo finale su spiagge notturne e quasi rassicuranti. Ma "Ipacial Section" già riprende gli stessi suoni, condendoli con autechrerie svogliate e inconcludenti che si trascinano per più di dieci minuti. Insomma, è la stanchezza di una formula già nota a prevalere. Così non bastano i campionamenti vocali per risollevare del tutto "Pro Radii", né l'esile melodia per far sì che "Augmatic Disport" non annoi. La conclusiva "Sublimit" consiste in 15 minuti fra boria e spossatezza, un inutile tour de force nei più triti cliché del duo. Una sola volta suoni, melodia, beat "meccanici" e suggestioni cinetiche si amalgamano con efficacia: il brano è "Fermium", unico vero acuto di "Untilted", che parte con gli scatti di una tipica melodia sghemba stile Autechre per arrivare ai nudi battiti conclusivi.
Su Quaristice (2008) quello che manca è ancora una volta la composizione. Stanchezza accompagnata a una totale mancanza di voglia di osare. E soprattutto poche idee di produzione, nonostante qualche momento di buona musica si trovi, specialmente nelle prime tracce.
Niente di memorabile, però, niente che lasci un segno, magari anche tenue. Inoffensivi trick vecchi come l’elettronica warpiana la fanno da padrone. Forse possiamo evidenziare la sparizione dei beat da svariate tracce che diventano così pura ambient, scelta decisamente inusuale per gli Autechre. Però poi non c’è davvero altro da segnalare.
Questo disco è un ottimo simbolo della grave impasse creativa nella quale sembrano impantanati tutti coloro che pensano la musica elettronica nei termini di oltre dieci anni fa, e dell’impossibilità di aggiornare certi canoni stilistici.
Dopo una breve pausa, gli alfieri di casa Warp si rimettono ai laptop, sfornando il loro decimo Lp.
Con Oversteps si torna alle origini. Non più tratti harsh, ma distese elettroniche minimali, solcate da glitch e pattern sinistri. Ma quel che (non) sorprende è la capacità del duo di tentare ancora una nuova strada. Il tentativo però riesce solo a metà, andando a cozzare con una proposta che appare forse eccessivamente navigata.
Che ci sia comunque un gran mestiere lo si sente sin dalle epiche ondate dell'iniziale “r ess”, non distante dalle catarsi ambientali di Tim Hecker, o nei brontolii che sfrecciano nella successiva “ilanders1”. E deliziano pure i sapori orientali e gli specchi deformi di “see on see”, la cascata “redfall” o il permafrost che avanza della conclusiva “Yuop”.
Nel complesso, però, l'album, forse di eccessiva durata, risente di fantasmi che più che spaventare fanno sbadigliare. Si susseguono troppi riempitivi che attenuano l'impatto anche dei pezzi migliori. Skippando pezzi come “qplay” o “osveix3”, l'ascolto non potrà non trarne giovamento.
In ogni caso, gli Autechre si dimostrano ancora vivi, riuscendo a tratti ancora ad affascinare.
Appena quattro mesi dopo, gli scudieri di casa Warp rilasciano Move Of Ten. L'uno-due firmato da Sean Booth e Rob Brown ricorda nemmeno troppo da lontano l'abbinata "Kid A"-"Amnesiac" dei Radiohead. Tralasciando sia la proposta musicale sia la qualità complessiva dell'operazione, la sensazione di trovarsi, come nel caso dei dischi di Yorke & Co., di fronte a due fatiche che siano facce diverse di una stessa medaglia è piuttosto evidente.
Laddove Oversteps dilatava al massimo la materia sonora, plasmandola in un continuo gioco di allunghi, Move Of Ten si concentra sul versante più pulsante del sound del duo. L'iniziale "Etchogon-S", fra celesti beat dance e cristallini fendenti verticali, apre le porta al fitto brulicare di "y7". La dimensione tetra e sinistra affiora negli sciami cibernetici di "pce freeze 28i" e secche e finissime basi puntellano il vuoto che scorre in "nth Dafusederb".
La scuola industriale riaffiora con vigore negli spettri tiepidi di "Iris Was A Pupil" o nelle placidità dub-ambientali di "No Border". A chiudere il cerchio ci pensano prima l'afflato ambientale di "ylmo" e infine le distese ambient-breackcore di "Cep puiqMX".
Dopo una serie di lavori mediocri, gli Autechre tornano nell'Olimpo. Musica elettronica per tutti i gusti, dalla techno, all'industrial, all'ambient. Una gioia per le orecchie.
Due anni e rieccoli affacciarsi con un nuovo ed intrigante lavoro, Exai, un disco che si pone come l'ennesima sfida verso sé stessi, verso chi ascolta, verso il mercato dell'elettronica dopo aver divorato dubstep e grime, footwork, jit e trap. Un mondo che aveva riscoperto i break, la non-melodia, il subwoofer come totem, un mondo che ha visto Skrillex dichiarare amore per Aphex Twin e ricevere schiaffi dal proprio pubblico desideroso di drop. Un mondo che nel 2012 ha riscoperto la house, come se non fosse mai esistita prima, come se trentanni di club non fossero mai esisti. Dopo tutto questo e dopo Oversteps ritornano gli Autechre.
Tornano come torna il profeta in patria, tornano con un monolite doppio da 121 minuti di saturazioni ambient, breakcore, drill'n'bass e scheletri ritmici che hanno a che fare con i "Disinegration Loops" di Basinski se solo il processing digitale glielo permettesse ("Bladelores"). Exai è una somma di contemporaneità a nome AE che viaggia in un mondo iper personale di bleeps e bass sound che sfondano l'avanguardia footwork di Africa Hitech in "Runrepik", portando i break in 64esimi a confrontarsi con la paranoia dark-ambient, o che lavorano con la sampladelica rave di "T ess xi".
Con Exai gli Autechre rilasciano il loro disco più ambizioso degli ultimi anni, sfidando in sopportazione l'ascoltatore, regalando perle che solo due così potrebbero partorire, imponendo anche la boria dei vecchi maestri ma soprattutto un nuovo punto di rincorsa per la loro esperienza.
Parlando degli Autechre, si potrebbe tranquillamente tirare in ballo e parafrasare una celebre massima del pittore russo Vasilij Kandinskij: il suono è il tasto, l'orecchio è il martelletto che lo colpisce, l'anima lo strumento dalle mille corde. Ora, prendiamo per buona questa osservazione e rivolgiamola al dodicesimo studio album del duo: che tipo di suono è il suono che si ascolta nei quasi 250 minuti racchiusi nei cinque volumi di Elseq? Tanto per cominciare è un suono che, nonostante le apparenze, riassume tutti i pregi (molti…) e i difetti (pochi…) del gruppo che ci regalò tanti capolavori di techno-ambient destrutturata e minimale, eppure mai algida, quali Incunabula (del 1993) e Amber (di un paio di anni dopo).
Ci sono gli esperimenti proto-industrial tipo “feed1” (di cui si è avuto un assaggio il 13 maggio di quest'anno su Bbc Radio 6) e “c16 deep tread” (mandata in onda due giorni dopo in Alaska, dai tipi di radio KSUA) - entrambi contenute in “Elseq 1” - ai quali si alternano gli strani patchwork techno-dub-futuristici di “Elseq 3” (date un ascolto alle mastodontiche, 22 minuti la prima, quasi 25 la seconda, “eastre” e “mesh cinereaL”).
Ma l'opus magnum autechriano offre anche spazio al dancefloor e all'intelligent techno, come dimostrano i pezzi contenuti in “Elseq 4”, e quando serve riesce persino a far rivivere i fasti electro-minimal-ambient che furono la cifra stilistica dei Nostri all'altezza dei primi due dischi.
Nel complesso, il quintuplo (che esce solo in download, come accadde nel 2008 a “Quaristice”, nono album della band) mette in campo un'idea di musica astratta che oltrepassa Kandinskij e prova a "costruire" uno spazio pluridimensionale, partendo da dei beat apparentemente piatti, dentro al quale i suoni si incastrano ai suoni dando vita a un nuovo tipo di geometria sonora, ben distante da quella euclidea.
Nel 2018, per quattro giovedì di aprile consecutivi, gli Autechre diffondono due ore di live session in diretta dagli studi della NTS a Hackney, composte di soli materiali originali con pubblicazione immediata. Un intervento totalizzante che ha la programmatica risolutezza di una guerra lampo: eppure non si tratta di un mero esercizio di potere, bensì di sicure avanzate su un terreno che il duo stesso ha sempre spianato con largo anticipo su tutti.
Lo screening delle NTS Sessions ha l’obiettivo di svelare nuovi piani entro cui poggiare una serie mutabile e pressoché infinita di strutture amorfe; soniche conformazioni che si sovrappongono una sull’altra in una successione irregolare, con il ritmo a scandire un flusso cinetico che rade al suolo l’approccio del passato, pur conservandone l’alfabeto.
L'ascolto rende evidente l'impossibilità di impugnare per intero otto ore che non si limitano a scorgere il futuro della musica elettronica, ma lo incidono da subito a chiare e indelebili lettere affinché, forse, un domani non le vediamo più come fitti e insolubili enigmi ma come risposte incontrovertibili a interrogativi che, ora come ora, non sappiamo nemmeno formulare. Ci troviamo di fronte a un’opera soverchiante, suprema, essenzialmente e per forza di cose unica nell’universo elettronico fin qui esplorato.
Diciassette mesi sospesi alla stregua di eremiti illuminati dal “tutto” o, se preferite, dalle infinite vie dell’elettronica contemporanea (o meno, fate un po’ voi), e i due tornano in scena felici come pinguini rockhopper sull'isola di Tristan da Cunha, in balia della propria monogamia, artistica s’intende, utile - madre natura perdoni l’affronto - una stagione e via. SIGN è il ritorno che non t'aspetti. Undici movimenti, a sfiorare i 66 minuti. Undici trasmigrazioni insondabili (“si00”, “gr4”), espanse (“M4 Lema”), vaporose (“Metaz form8”), sci-fi (“esc desc”), e claustrofobiche quanto basta per riavvolgere il nastro e provare a mettere a fuoco, finché ce n’è, materia e direzione intrapresa. Undici movenze che intrigano, confondono, abbagliano, illudono.
Il paradosso, dunque, è nuovamente servito. Perché al cospetto di SIGN si potrebbe discutere all’infinito, girando la frittata a seconda dell’inclinazione di turno, tuttavia senza venirne necessariamente “a capo”.
Forse Rob Brown e Sean Booth non riescono più a inserirsi appieno in una struttura compatta. O più semplicemente in un format umanamente fruibile. Magari hanno solo deciso di alleggerirsi, stanchi di intraprendere fughe intergalattiche, concettuali e via discorrendo. Interrogativi plausibili, che si ravvivano tra un effetto e l’altro, un settaggio calibrato con esperienza e un ritmo disturbato giusto per ammaliare gli amanti di un sound che ha comunque fatto epoca. SIGN, comunque, non alza mai l’asticella, ma punta, semmai, a scuoterla, creando quelle vibrazioni stagionate da prendere o lasciare. Al netto di questa insolita angolazione, la “certezza” che il tempo sveli la cifra di un album così ambiguo consola. Il tutto nell'attesa di una nuova insolita puntata che arriva a sorpresa dopo solo dodici giorni. E’ questo infatti il tempo scelto dai due per lanciare PLUS, il secondo album del 2020.
Se quindi SIGN ha entusiasmato gli animi per una serie circoscritta di motivi, legati tanto alla sua inaspettata “lunghezza” quanto alla sua “fruibilità” retroattiva, PLUS apre un ulteriore varco in cui dimenarsi allegramente.
I due mastini dell’elettronica “contemporanea” stupiscono ancora una volta la platea alla propria maniera, generando reazioni a catena sugli eventuali scenari a monte dell’operazione. Sul web appare finanche una versione unificata dei due album, trattati alla stregua di uno “Zaireeka” qualunque. Un’ipotesi stuzzicante, vista la resa complessiva, ma per molti aspetti improbabile, data la difficoltà di mantenere fede al suono originale durante la sovrapposizione. Di certo, con loro due tutto resta ormai possibile.
Insomma, neanche il tempo di assorbire un’opera volubile, connessa tanto al passato quanto al presente, e rieccoci alla prese con nove nuove partiture della premiata ditta inglese. Gli interrogativi sono ancora una volta tanti. Della serie: Sean Booth e Rob Brown hanno forse deciso di inaugurare una serie musicale che sezioni la loro smania alle macchine? O si tratta di mero marketing attuato con lo scopo di rinvigorire un’attenzione ultimamente confinata fin troppo a certe nicchie? Potrebbe anche trattarsi più semplicemente di due dischi dissociati tra loro e liberati come cani sciolti nelle immense praterie digitali dell’industria discografica - l’uscita in formato fisico è infatti prevista solo per il 20 novembre 2020.
Questioni di lana caprina che si sciolgono dopo le prime due tracce, “DekDre Scap B” e “7FM ic”: nove minuti scarsi di frattaglie, rimbalzi e derapate alla loro maniera. Un avvio contorto che precede le frequenze disturbate miste a beat in vaghissima scia dub di “marhide”. Il tutto prima che torni in auge lo spettro di una mancata comunicazione con il mondo, avvalendosi nello specifico di modulazioni che sembrano uscite dal catalogo Ghost Box. Come se John Brooks flirtasse con i Boards of Canada, per farla breve. E se tra vent’anni qualcuno decidesse di riprendere la drum and bass, rivisitandola con gli arnesi del momento, otterrebbe con buona probabilità qualcosa come “X4”.
Inafferrabili e parimenti maestosi, gli Autechre procedono spediti e senza badare a nulla nei tre movimenti conclusivi, tra i quali spicca l’accelerazionismo ritmico di “TIM1 open”, ovvero i Minilogue mandati in giro per il sistema solare con un propulsore ionico.
In definitiva, PLUS amplia dunque lo sguardo ultra-distaccato ma al tempo stesso umanissimo di Booth e Brown.
Cavity Job (Ep, Warp, 1991) | ||
Incunabula (Warp, 1993) | 8,5 | |
Basscadet (Ep, Warp, 1993) | ||
Amber (Warp, 1994) | 7,5 | |
Anti (Warp 1994) | ||
Anvil Vapre (Warp 1995) | ||
Garbage (Warp, 1995) | ||
Tri Repetae++ (Warp 1995) | 7,5 | |
Chiastic Side (Warp 1997) | 7 | |
Envane (Ep, Warp, 1997) | ||
Cichli Suite (Warp, 1997) | ||
LP5 (Warp, 1998) | ||
EP 7 (Warp, 1999) | ||
Peel Sessions (Warp, 1999) | ||
Confield (Warp, 2001) | 6 | |
Draft 7.30 (Warp, 2003) | 6 | |
Untilted (Warp, 2005) | 4,5 | |
Quaristice (Warp, 2008) | 5 | |
Oversteps (Warp, 2010) | 6 | |
Move Of Ten (Warp, 2010) | 7 | |
Exai (Warp, 2013) | 8 | |
Elseq 1-5 (Warp, 2016) | 8 | |
NTS Sessions 1-4 (Warp, 2018) | 10 | |
SIGN(Warp, 2020) | 6 | |
PLUS(Warp, 2020) | 7 |