Quasi un anno fa, dopo aver aperto una pagina Facebook dedicata alla band, il batterista Oscar Clorio annunciava la ristampa dei primi due storici lavori dei Cenotaph. Seguiva, quindi, un fitto scambio di messaggi che, in breve tempo, ha finito per coinvolgere anche altri membri della band messicana. L'idea era quella di ripercorrere la storia di una delle esperienze più interessanti dell'intera scena death-metal degli anni Novanta, artefice di un lavoro assolutamente fondamentale, quel "Riding Our Black Oceans" che, come ebbi a scrivere in sede di monografia, può a ragione essere considerato come il capolavoro assoluto del versante melodico del death-metal.
La ristampa della discografia dei Cenotaph è una fantastica notizia per gli appassionati di death-metal. Come è nata questa idea?
Oscar Clorio: Be’, l’idea delle ristampe è stata alimentata dal fatto che, dopo tutti questi anni, molte persone continuano a cercare i nostri dischi. Ho avuto alcune offerte che non potevo rifiutare e, alla fine, tutto è diventato realtà. Oltre alla ristampa di "The Gloomy Reflection of Our Hidden Sorrows" e di "Riding Our Black Oceans", sono arrivate anche due nuove edizioni, che però io non ho autorizzato, degli altri due dischi dei Cenotaph: "Epic Rites: 9 Epic Tales & Death Rites" del 1996 e "Saga Bélica" del 2002. Se n’è occupata la Oz Productions, ma sotto un altro nome. Così, le ristampe sono state fatte in Canada, ma con regia messicana… bastardi! Hanno fatto queste edizioni non ufficiali con una qualità davvero pessima, roba che scredita l’oggetto artistico e quanti desiderano apprezzarlo. Di nuovo: bastardi!
Oscar, facciamo un passo indietro e riandiamo con la memoria alle origini della vostra storia. Come nacquero i Cenotaph? Come vi siete incontrati?
OC: Ho formato la band con gli altri membri Rogelio Burgos e Mario Aceves nel 1988 utilizzando il moniker Damned Cross: la volontà era quella di mettere su una band death-thrash. Dopo diversi cambi di formazione, la band si è assestata con la seguente line-up: Gustavo Sanchez (chitarra), Guillermo Delgado (chitarra), Daniel Corchado (basso, voce) e Oscar Clorio (batteria). Era il 1989 e il nome scelto fu Cenotaph. Tre di noi vivevano molto vicini: io e Daniel eravamo distanti appena due isolati e Gustavo viveva a circa dieci minuti da noi. Solo Guillermo viveva più lontano, a circa un’ora dalle nostre case, ma quello non rappresentò mai un problema per noi. Io e Daniel ci conoscevamo fin da piccoli, mentre conobbi Gustavo grazie a suo fratello, che giocava con me nella stessa squadra di calcio. Guillermo, invece, suonava in un’altra band, i Masacre, e così gli chiesi di unirsi e a noi e lui accettò senza starci molto a pensare. Così iniziò tutto.
E tu, Julio, in che modo entrasti a far parte della band?
Julio Viterbo: Be’, le mie prime band (Shub Niggurath o Tormentor) erano sempre state in ottimi rapporti di amicizia con i ragazzi dei Cenotaph. Li conoscevo fin dal 1987. Ma dopo la prima interruzione del progetto Shub Niggurath mi ritrovai senza nulla da fare e così dissi a Oscar che ero senza band e che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa con loro. A lui piacque l’idea, così presi le mie cose e iniziai a provare con loro, mettendo lentamente a punto quello che poi sarebbe diventato “Riding Our Black Oceans”.
Com’era la scena death messicana nei primi anni Novanta?
OC: Un periodo che ricorderò per tutta la vita. Vivendo in un paese del terzo mondo, era sempre molto difficile riuscire a comprare strumenti di qualità e, così, di solito le band cercavano di fare del loro meglio, Così, essere in una band metal significava qualcosa di molto personale e potente, significava essere pronti ad accettare e a sviluppare un certo stile di vita. Oggi ho 43 anni ed è tutto diverso, ma c’è ancora la volontà e la passione di suonare, tanto che al momento sono attivo in tre diverse formazioni. La prima, chiamata Denial, l’ho messa su nel 2006 e suona death-metal; la seconda è una band di heavy-metal e presto registreremo un disco: con l’ultima, invece, suono roba progressive e art-rock. Insomma, come vedi davvero non riesco a fermarmi! La scena dei primi anni Novanta era caratterizzata da band che diedero tutto per il movimento messicano. Quella fu una fase di conoscenza, di scoperta e tutti noi siamo stati fortunati a essere pionieri e “inventori” del nostro sound death-metal. Band che ricordo ancora con piacere sono i Tormentor, che in seguito sarebbero diventati Shub-Niggurath. Proprio dai Tormentor arrivò Julio Viterbo, che suonò con noi per alcuni anni. Tra l’altro, anche io finii per registrare un disco con gli Shub-Niggurath [“The Kinglike Celebration (Final Aeon on Earth)”, del 1997; ndr]. Altre band che ricordo con piacere sono: Mortuary, Toxodeth, Frightfull Cross, Azmeroth, Anarchus, Blood Soaked, Black Thorn, Necrophiliac, Ripping Flesh, Argentum, Unholier, Hardware, Incubus, Darkhalf, Putrid Scum, Pentagram, Tenebrarum, Pactum, Noctambulism, Evil Dead e molte altre che al momento non ricordo. Insomma, si trattò di una scena solida e degna di rappresentare la nostra identità.
JV: La migliore scena che potevamo sperare di vivere! Nascevano tante buone band e penso che tutti noi riuscivamo ad apprezzare molto di più la musica, perché eravamo pronti ad avere tutti i dischi, i nastri e le t-shirt dei nostri gruppi preferiti, che spesso ordinavamo per posta e ci voleva molto tempo per riceverli; inoltre, c’era un sincero spirito di fratellanza, mentre oggi come oggi tutto questo si sta perdendo.
Per quanto riguarda "Riding Our Black Oceans", penso si tratti in assoluto del miglior disco di death-melodico. Quello che innanzitutto vorrei chiedere è: come mai abbandonaste il death-doom di un disco come “The Gloomy Reflection Of Our Hidden Sorrows” per una versione melodica del death?
OC: E’ un vero onore sentire queste parole! Ok, questo disco è davvero speciale per me, anche perché il lato concettuale della sua composizione ebbe molto a che fare con questioni personali. Al tempo, eravamo molto migliorati come musicisti e sentimmo il bisogno di sperimentare con un sound più complesso e strutturato. Sono sempre stato un tipo che fa le cose che si sente di fare, ma sono anche il tipo che non si esalta facilmente. Ogni disco dei Cenotaph è diverso dagli altri e questo è sempre stato il nostro scopo: fare quello che ci sentivamo di fare in quel determinato momento, perché era sincero, genuino. Siamo cresciuti in mezzo a band che hanno contribuito a far nascere il movimento death messicano e questo ci ha dato la possibilità di confrontarci con le nostre aspirazioni, di creare un nuovo stile. Quanto al disco in questione, esso fu realizzato partendo da diverse prospettive. Onestamente, ci furono influenze ma di certo non furono utilizzate per scopiazzare questa o quella band. Registrare quel disco fu affascinante perché in quella fase la band navigava sostanzialmente in acque del tutto sconosciute alla stragrande maggioranza delle formazioni messicane e, a conti fatti, finimmo per realizzare un lavoro che nel nostro paese suonava incredibilmente originale, con uno stile innovativo. E’ death-metal melodico, ma non è come quello suonato dagli At The Gates o da qualsiasi altra band che orbitava intorno a uno stile che all’epoca era molto in voga. In definitiva, quel disco ci mise in una posizione di rilievo nell’ambito del death mondiale.
JV: Julio: Anche io mi sento davvero onorato quando dici che si tratta del miglior disco di death-melodico di sempre. Penso la stessa cosa: lo è davvero!
Oscar, in "Riding Our Black Oceans", il tuo lavoro batteristico è molto affascinante. Non è marginale, ma contribuisce egregiamente alla strutturazione dei vari brani.
OC: Come ho detto più volte, non sono il tipo di batterista che si siede sullo sgabello e che si limita a ricevere indicazioni circa la velocità d’esecuzione, gli stacchi e quant’altro. La mia è una natura inquieta e mi piace comporre con la chitarra, di solito arrangiando anche i vari brani, come ho fatto fin dai tempi della mia prima band. Come batterista, non mi piace suonare solo per riempire gli spazi, preferisco essere parte integrante dell’espressione. Anche oggi, insieme con la mia nuova band, Denial, cerco sempre di essere molto creativo ed espressivo. Integrare le parti di batteria con il resto della musica per me è un fatto naturale, ma bisogna sempre guardare al di là dei limiti apparenti della stessa canzone.
Molto interessante anche il lavoro delle chitarre…
JV: Mi piacque molto suonare per quel disco, soprattutto perché le parti di chitarra erano piuttosto complesse e noi ci sentivamo come se dovessimo affrontare ogni giorno una sfida diversa, cercando anche di dare alla band un impianto più professionale, tanto che iniziammo anche a fare tour al di fuori del Messico. Grazie a quel disco, riuscimmo infatti a suonare in giro per il Sudamerica e di quel periodo conservo tanti bellissimi ricordi.
Io e Guillermo César Sánchez ci occupammo della maggior parte dei riff e, poi, con il resto della band, mettemmo insieme tutte le nostre idee, tirando fuori uno alla volta i vari brani. Ricordo che in quel periodo eravamo molto influenzati dalla roba svedese – Dismember, At The Gates, Sentenced o Dissection - ma ci piacevano anche alcune cose statunitensi, tipo Slayer, Metallica e altre legate alla scena heavy-metal, come Judas Priest, Black Sabbath, Iron Maiden; infine, stuzzicavano la nostra curiosità anche certe cose più strane del progressive. La somma di tutto questo contribuì a consolidare dentro di noi la visione di ciò che poi sarebbe diventato Riding Our Black Oceans.
Nelle "liner notes" del disco, si fa riferimento al fatto che le registrazioni furono fatte completamente in analogico, senza mix e masterizzazione, per mantenere intatto lo spirito “true” dell’operazione.
OC: Sì, registrammo il disco interamente con una bobina analogica. Tra l’altro, c’è una registrazione video, che conservo con molta nostalgia, in cui sono conservati tutti i dettagli delle registrazioni – non ho ancora pubblicato nulla di questi documenti, perché intendo fare un vero e proprio documentario… Registrammo tutto agli OIGO studios [a Guadalajara; ndr] con l’ingegnere del suono Tuti Perales che da allora è stato uno dei pochi ingegneri del suono, anzi direi l’unico, ad avere un certo feeling per questo tipo di musica. Con lui usammo una bobina di 2 pollici, cioè circa 5 centimetri, e l’esperienza fu più che meravigliosa. Tutto fu registrato nello stesso studio e nel giro di una settimana il disco era finito.
JV: Onestamente, l’unica cosa anche posso dirti è che è passato tanto tempo e non ricordo, anche se penso che registrammo tutto in analogico.
Una delle più interessanti peculiarità del disco è la voce di Edgardo González, selvaggiamente espressiva e anti-tecnica…
OC: Quando decisi di far entrare Edgardo nella band, sapevo che avremmo dovuto “lavorare” sulla sua voce, al fine di offrire qualcosa di diverso, una nuova direzione sonora. La sua era una voce con cui nessuno aveva sperimentato fino ad allora, almeno nel mio paese. Quando arrivò Edgardo, iniziai a provare con lui: allora, così come oggi, mi piaceva molto la voce di Joakim Bröms (degli svedesi Afflicted; ndr) e quella fu una grande ispirazione nella definizione dello stile di Edgardo, perché a noi non interessava più il classico stile gutturale del death-metal o la solita voce legata alla scena melodica svedese. Alla fine, penso che riuscimmo a definire qualcosa di unico, una formula del tutto originale.
Edgardo González: Ciò che la mia voce esprime in quel disco è esattamente quello che sentivo in quel momento e l'obiettivo più importante per me era quello di condividere le mie emozioni con il pubblico, cercando una sorta di empatia con esso, non solo nei limiti del disco, ma anche durante i concerti. Lavorai, insomma, per qualcosa di unico ed espressivo.
Parliamo delle liriche. Riguardano proprio i vostri “oceani neri”?
OC: Senza dubbio. Come ho già detto in precedenza, tutte le liriche furono scritte da Edgardo, che fece ampiamente ricorso alla sua esperienza di vita e ai sentimenti che l'avevano segnata. Le liriche riguardano un immaginario legato alla morte spirituale in un mondo sempre più triste e oscuro. A differenza della morte fisica, quella spirituale porta con sé un grado maggiore di sofferenza, perché la volontà, la fede e il “senso” dell’esistenza vengono meno, e tutto ciò che resta è miseria e ostilità. Questo è tutto quello che c’è da dire circa le liriche e il modo in cui i fatti vengono descritti trovò una degna controparte nella musica stessa.
EG: Le liriche che scrissi per quel disco testimoniavano di un tentativo di indagare i sentimenti più profondi non solo della mia interiorità, ma di ogni mente umana capace di esplorare il lato più oscuro dei pensieri.
Entriamo un po’ più nello specifico e riattraversiamo la tracklist del disco. Magari potete dirci qualcosa su ognuna delle nove tracce…
OC: “The Solitudes”: è una traccia molto solida, con un sound potente, dei grandi riff ed elementi innovativi. Decidemmo di aprire il disco con questa traccia perché è contraddistinta da una partenza vigorosa e tutti gli strumenti lavorano in maniera egregia.
“Severance”: scura, malinconica, fiera… è probabilmente una delle mie tracce preferite.
“Grief To Obscuro”: intensità, potenza, grandi riff e grandi idee.
“Macabre Locus Celesta”: un brano molto originale, tecnico, disturbante.
“Among The Abrupt”: intensità, variazioni significative, riff che tratteggiano vari gradi di espressività.
“Infinitum Valet”: questa fu la prima traccia che scrivemmo quando decidemmo di optare per un sound diverso rispetto a quello degli esordi; lo trovo un brano originale e disturbante, capace di combinare la brutalità del nostro passato con le nuove idee – insomma, un brano che segna un punto di confine tra il “prima” e il “dopo” della band.
“The Silence Of Our Black Oceans”: un brano semplicemente avvolgente, frutto del lavoro di Julio e Guillermo; questo strumentale dona al disco una personalità più profonda e spirituale.
“Soul Profundis”: per molti, la canzone migliore del disco, con un sound carico di personalità, in cui momenti potenti e passaggi acustici si mescolano perfettamente. Pur essendo caratterizzata da diverse variazioni, la struttura portante è sempre lì, intatta e, a conti fatti, posso dire che “Soul Profundis” è uno di quei brani che la gente immediatamente associa al disco in questione.
“Ectasia Tenebrae”: probabilmente, il brano più ritmico e meglio strutturato del disco; per noi, si trattò di un vero capriccio, perché con questo brano il cambio di rotta della band diventò ancora più marcato, con elementi heavy-metal con cui, tra l’altro, i due chitarristi chiudono il brano lavorando con uno spettacolare gioco di assoli ritmici. Non è la mia traccia preferita, ma è preziosa come tutte le cose che abbiamo fatto. Abbiamo suonato questo brano dal vivo solo due volte.
JV: Non riesco a parlare delle singole tracce, però posso dirti che tutto il disco, nel suo intreccio di tecnica e velocità, nacque anche con lo scopo di costringere gli ascoltatori a fare headbanging!
"The Gloomy Reflection of Our Hidden Sorrows" fu, invece, un lavoro molto importante per quanto riguarda l’evoluzione del death-doom, anche grazie agli accenti spaziali. In che modo vi avvicinaste a quel sound?
OC: Si trattò del compimento del sound su cui stavamo lavorando fin dal nostro primo demo e che in parte si era già sviluppato nei successivi due Ep. Ovviamente, su "The Gloomy Reflection Of Our Hidden Sorrows" il tutto fu presentato in modo più rifinito, anche se mantenemmo intatte la malvagità e l’oscurità del precedente materiale. Insomma, si trattò del volto dell’inerzia del primo suono della band. A livello di influenze, naturalmente ce ne furono; non voglio mentire e dire che eravamo la band più originale del pianeta. Eravamo influenzati da tante cose e ancora oggi, con i Denial, mi ispiro a band diverse, conservando lo spirito dei vecchi tempi, sia per quanto concerne l’aspetto compositivo che l’attitudine. Le mie band preferite restano Nihilist, Entombed, i primi Darkthrone, Demigod, Disgrase, Funeral, Demilich, Dream Death, Abhorrence, i primi Amorphis, Xysma, Immolation, i primi Carcass, Merciless, Crematory, Belial, Bolt Thrower e molti altri, tutti dell’età dell’oro del genere.
Oscar, parliamo un po’ anche degli altri due vostri dischi, "Epic Rites" e "Saga Bélica". Per dire, penso che il primo rappresenti una versione meno creativa di “Riding Our Black Oceans”, mentre il secondo è caratterizzato da un suono più brutale e meno complesso…
OC: Come ho già detto in precedenza, i Cenotaph non utilizzarono mai la stessa formula sonora, cambiandola di disco in disco. Per questo motivo, ogni nostro lavoro ha il proprio concept e la propria magia. Perché cambiare sempre stile da un disco all’altro? Semplicemente perché eravamo sempre alla ricerca di qualcosa di diverso, di nuovo, essendo una band avventurosa, cosa che ci distingueva da tante altre band. In realtà, "Epic Rites" è un disco molto creativo e non penso lo sia meno di "Riding Our Black Oceans": diversi erano i momenti, i bisogni, gli umori. In definitiva, è il nostro disco con la migliore struttura a livello compositivo. Quello che non mi piace è la schifosa copertina… anzi, tutto il design del disco fa totalmente schifo.
"Saga Bélica", invece, ha un significato speciale, perché è stato il nostro unico disco registrato fuori dal Messico e con una nuova line-up (solo io ed Edgardo eravamo gli unici superstiti della vecchia formazione). Fu registrato da Harris Jones (Sodom, Celtic Frost, Assassin etc.) a Berlino allo Spider House Studio. Per me è un gran disco, frutto di una grande esperienza in cui non cercammo di fare qualcosa di nuovo, ma pensammo di sintetizzare diversi stili che ci piacevano, come il thrash e il death-metal. Questo è tutto: un disco potente pieno di brutalità e di riff eccellenti che ti fanno salire l’adrenalina.
Cosa pensate dei recenti sviluppi del death-metal?
OC: Il death-metal di oggi è un genere dalle mille sfaccettature, un genere che ha visto diverse mutazioni. Ormai, ci sono tanti musicisti e questo finisce per generare confusione, anche nel riferirsi ai differenti stili. Negli anni Ottanta, quando abbiamo iniziato a registrare i nostri primi demo ed Ep, il suono del death-metal era sostanzialmente uno solo e, magari, anche oggi in molti potrebbero dire che il suono del death-metal è uno solo. Tuttavia, durante gli anni l’evoluzione del genere ha portato allo sviluppo di diversi percorsi e ramificazioni stilistiche, per cui oggi si possono ascoltare band che suonano old-school ma anche altre che fanno death-prog, heavy-death, death’n’roll, death-doom, death-qualsiasicosa etc. Tutto questo è dovuto essenzialmente al fatto che i musicisti cercano di fare qualcosa di diverso. La trascendenza appartiene naturalmente al sentire umano e questo obbliga le varie band, soprattutto quelle che hanno coraggio, a tentare strade nuove, per allontanarsi dai sentieri battuti da altri. Io sono tra quelli che pensano che il death-metal sia uno solo, quello che è nato ed è stato battezzato negli anni d’oro. Tutto quello che è venuto dopo è qualcosa di diverso, una conseguenza dell’evoluzione, ma non è death-metal. Anche per quanto riguarda i Cenotaph, penso che tutto quello che abbiamo fatto dopo “The Gloomy Reflection Of Our Hidden Sorrows” non sia vero e proprio death-metal, quanto una progressione sonora che traeva origine da un unico suono.
JV: Non ne so niente. Sto davvero vivendo in un altro mondo, con la mia musica e raramente vado ai concerti. Preferisco starmene al mio computer, a comporre musica.
Chiudiamo così, con il solito giochino: dieci dischi da portare su un'isola deserta...
OC: Una domanda a cui è davvero difficile rispondere. Tuttavia, al momento mi verrebbe da menzionare:
Magma - Köhntarkösz (1974)
Il Balleto di Bronzo - YS (1972)
Banco del Mutuo Soccorso – Darwin (1972)
Present - Certitudes (1998)
Universe Zero - Hérésie (1979)
Black Sabbath - Sabotage (1975)
Saxon - Crusader (1984)
Sentenced - Amok (1995)
Dissection – ReinkaΩs (2006)
Demigod - Slumber Of Sullen Eyes (1992)
Unanimated - Ancient God Of Evil (1995)
Darkthrone - Soulside Journey (1991)
JV: Dieci non penso siano abbastanza. Comunque...
Judas Priest - Defenders Of The Faith (1984)
Iron Maiden - Piece Of Mind (1983)
Slayer - Hell Awaits (1985)
Kreator - Flag Of Hate (1986, Ep)
Destruction - Release From Agony (1987)
Morbid Angel - Altars Of Madness (1989)
Eloy – Ocean (1977)
Pink Floyd – The Wall (1979)
Captain Beyond – S/t (1972)
Deep Purple – Perfect Strangers (1984)
Ma non penso siano abbastanza. Ce ne vorrebbero più di dieci.
(19/07/2015)