Non c'è niente di scontato per uno che all'anagrafe risponde al nome di Francesco Guccini. Trent'anni di carriera, attacchi trasversali da Chiesa, istituzioni e stampa, ma lui sempre in piedi a raccogliere consensi e stima da tre generazioni di pubblico. Parlargli è come vedere scorrere nei suoi occhi una moviola di ricordi, di stagioni, di tempi masticati cantando in balere con la mente rivolta a sogni di libertà tuttora indimenticati. In quegli occhi, che tanto hanno veduto, ci sono le risposte di un combattente: nessuno come lui, o almeno quanto lui, ha mantenuto fede a quegli ideali, evitando facili compromessi ed una svendita a prezzi stracciati pur di rinnovare il locale. Quei trent'anni di canzoni, di speranza e di politica, di sentimento e nostalgia, rappresentano la limpidezza di un credo, di una coerenza dura a morire, che non dovrebbero farci dimenticare che l'uomo viene prima della lotta e la rivoluzione è solo un pensiero comune moltiplicato all'infinito.
La tua avversione nei confronti della stampa o dei giornalisti, se preferisci, deriva da una fiducia tradita o da un tuo meccanismo di difesa?
No. Ho anche fatto il giornalista per anni, per cui sono un collega. La stampa ha mille facce: può divertire o meno, innalzare o abbassare, alle volte è costretta anche ad essere superficiale per ragioni di tempo. La stampa non vuol dire niente. Ci sono dei buoni giornalisti, mediocri giornalisti, pessimi giornalisti o ottimi giornalisti. Non si distingue in toto.
In "Addio", per esempio, parli del «mondo inventato del villaggio globale», «dei riflettori e delle paillettes delle televisioni». Cosa si può ancora recuperare e cosa è irrecuperabile?
In teoria si può recuperare tutto, in pratica niente. Dipende da come sono le tendenze, i modi di vedere della gente, che viene sopraffatta, televisionata. Per cui molte persone la sera si chiudono in casa e guardano la televisione, quei programmi che sono sempre più mediocri, perché c'è in gioco lo sponsor che fa abbassare quello che gli esperti chiamano il target, vale a dire il pubblico. A quel punto lo spettacolo vale tanto quanto riesce a fare audience e, per riuscirci, si deve necessariamente abbassare il livello qualitativo. Quando la televisione aveva un solo canale, negli anni 50, bastava quello lì: o si guardava, o si andava a letto, oppure si usciva. Puntando su un livello più basso, i programmi si sviliscono e, con essi, l'interesse per la televisione in generale.
La comunicazione tu l'hai sfruttata anche al di là della canzone, scrivendo libri o lavorando come insegnante e giornalista: c'è un punto in comune nelle attività che hai svolto o che oggi svolgi?
Sì. Bisognerebbe essere sempre un buon uomo di spettacolo, quando si è giornalista, insegnante o cantautore. Trovare sempre il modo di rendere la materia appetibile senza, per questo, scendere a compromessi, svendendosi o sputtanandosi.
Secondo te le canzoni sono una forma di comunicazione o di esternazione?
Tutte e due. Prima di tutto una forma di comunicazione, perché mi servono per comunicare. Non sono una macchina, scrivo canzoni quando mi urgono. La canzone, quindi, è un metodo, così come scrivere libri, per comunicare con la gente. A volte comunico con le parole: parlo, dico... A volte scrivo una canzone o un libro.
"Stagioni" è un disco di atmosfere dense, di malinconia, di ricordi, di consapevolezza. Il tuo modo di scrivere è diventato sempre più asciutto, essenziale. È il frutto delle sessanta stagioni che hai visto passare?
Non sono sicuro di scrivere in maniera più asciutta ed essenziale. Non lo so. Io mi sento molto barocco dentro, molto attivo, pieno di aggettivi... Quindi non credo di essere diventato molto asciutto ed essenziale. Il mio modo di scrivere è sempre quello, ridondante di aggettivi e frasi...
In una vecchia intervista hai detto: «Io da parte mia sarei molto più sciolto, più compagnone, ma vedo il grande sospetto degli altri che in un certo senso mi blocca». Quale sarebbe il sospetto e cosa ti bloccherebbe?
Non lo so. Questa potrebbe essere una frase scritta da un giornalista. Non so se l'ho mai detta. Non ho un sospetto nei confronti degli altri. Io sono un compagnone, un amicone: mi piace stare in mezzo alla gente senza nessun sospetto.
Ci sono molte canzoni del tuo repertorio che sono diventate dei simboli precisi per chi le canta o le ascolta: "La locomotiva", "Dio è morto", "Canzone per un'amica"...Coincidono con le canzoni che a te piacciono? E, se no, perché quelle che preferisci non le suoni in concerto?
Sì e no. Mi piacciono ma preferisco delle altre, più concettuali, più pensose. "La locomotiva", certo, ha un significato per me importante, mi ha dato la possibilità di farmi conoscere, così come le altre che hai citato mi hanno aiutato: sono molto affezionato a queste canzoni. Eppure, un brano come "Madame Bovary" rappresenta molto meglio me stesso di quanto faccia "La locomotiva". In concerto, purtroppo, non posso suonarle tutte, perché lo spettacolo dura due ore e mezzo. Di canzoni ne ho scritte tante, non posso farle tutte. Alle volte scelgo certe canzoni, alle volte certe altre. Non c'è un motivo ideologico, soltanto uno pratico.
L'interazione fra politica e canzone ha radici storiche: secondo te questo filone, se esiste ancora, ha ancora la forza e gli strumenti per andare avanti?
L'hai visto questa sera (si riferisce al suo recente concerto di Firenze, ndr). Per me esiste e ha ancora la forza, sicuramente. Altri colleghi hanno pensato che questa forza non ci fosse più e hanno cambiato strada loro malgrado. O meglio, loro malgrado ne hanno pagato lo scotto e, in un certo senso, si sono fermati. Io continuo a fare quello che ho sempre creduto di fare e misteriosamente mi è andata bene. Dico misteriosamente perché poi, sai, sono scommesse che io non gioco mai...
In "Autunno" canti: «Dei tanti io sarò diventati per sempre io ero». Ti è mai capitato nella tua vita di avere l'ambizione e, successivamente, il rammarico per ciò che è stato?
Sicuramente, succede anche a vent'anni.
Chi è il papà di "E un giorno" che sembra più vecchio, più lontano, annoiato, distratto e che alla fine dice di aver sempre tentato? Sei tu o quelli della tua generazione che non riescono a comprendere la velocità del mondo nel quale vivono?
Hai usato l'immondo termine papà. Io che sono un po, toscano userei babbo! Il babbo è il babbo classico, un padre che nella vita si trova, non dico in disaccordo, in problematica con il figlio o con la figlia e deve necessariamente rompere i coglioni ponendo dei problemi. Io, tutto sommato, sono un padre, normale, tranquillo.
(Originariamente pubblicata sul settimanale "Avvenimenti")