Raggiungiamo Giorgio Michele Longo, in arte Giargo, per farci raccontare la genesi e le curiosità di "Boxe", ma anche per immergersi nel suo mondo sonoro fatto di tempi lenti, viaggi sensoriali, approdi cinematografici, tra spazi perduti, umori antichi, percorsi insoliti e album della vita.
“Gli sguardi dei bagnanti, l’amore scritto sopra un muro stanco”, e potrei continuare. Dov’è esattamente ambientato “Boxe”? C’è stato un percorso fisico, un viaggio da lei attuato per scriverlo?
Come qualsiasi opera d’arte, se così vogliamo definire un disco, il viaggio è duplice. Si tratta di un viaggio in primo luogo mentale, immaginario e poi fisico; le due cose ovviamente non sono separate, ma vicendevolmente si completano, dunque viaggi immaginari in ogni luogo o in nessuno così come quelli fisici, eppure sono viaggi da me compiuti, tanti e soprattutto in Italia o nel Mediterraneo, dalla Sicilia a Marsiglia, che è stata una tappa fondamentale del mio cosiddetto viaggio, e ancora Napoli, Foggia, la Liguria, Palermo, Catania, Bari, in ogni caso tanto Mediterraneo, come scriveva Camus “c’è uno spirito mediterraneo”, e detto da lui che era nato ad Algeri non c'è che da credergli. Ecco: ho un forte spirito mediterraneo come credo la maggior parte di noi.
Quando e perché nasce l’idea di cantare una canzone in napoletano così come di evocare il dialetto qui e là?
Bisogna precisare che più che napoletano si tratta di foggiano, o meglio di un foggia-napoletano alla Renzo Arbore, sono dialetti poi vicini, il foggiano certo non gode dell’apertura musicale che ha il napoletano, dunque a volte uso quest’ultimo per musicalità, inoltre vivo a Bologna da quasi dieci anni e più mi sono allontanato da Foggia e più questo allontanamento mi ha portato a ricercare un’origine, e questa ricerca ha avuto sbocco nel linguaggio, essendo un cantante.
Nella sua musica, si evince un chiaro affetto per Piero Umiliani e sodali così come per le sonorità funky che Peppino Di Capri e Fred Bongusto, che peraltro erano amici, proponevano negli anni del dopoguerra. Ci dica di più.
Fred Bongusto era di Campobasso, quindi uno sfigato come me che sono foggiano (sorride, ndr). Umiliani è meraviglioso come Trovajoli, Cipriani, Piccioni e tutta la scuola dei compositori italiani degli anni 70 che mi ha ispirato per le sonorità di “Boxe”. I musicisti stessi che hanno suonato nel mio disco sono stati ispirati da loro. Mi sono poi avvicinato a tutti questi maestri tramite il cinema, che è un'altra delle mie passioni con la letteratura, che è la prima. Di Capri e Bongusto sono inevitabili maestri, che hanno fatto della spensieratezza del testo e della ricerca una chiave vincente, hanno dalla loro un romanticismo antico e meridionale che dopo tanti anni di musica milanese è stato per fortuna riportato in vita.
Un album suonato come “Boxe”, ossia come Dio comanda, oggi è merce rara. Secondo lei, perché i suoi coetanei o comunque moltissimi musicisti della sua età preferiscono percorrere altre vie?
Per comodità, direi. Anche io, che magari vengo dal rap, ho fatto un po’ di difficoltà a capire che c’erano tanti strumenti diversi che si dovevano accordare sullo stesso livello e suonare così dentro una stessa sfera emotiva. E’ un’epoca in cui siamo vicini alla velocità e facciamo un po’ di fatica ad allontanarci da quest’ombra che ci sta attaccata e fa correre anche noi e questo porta a fare scelte a volte sbagliate. Molti miei coetanei sono spesso vittime del consumismo musicale, allo stesso modo sarei potuto esserlo anche io se non avessi conosciuto tanti musicisti e maestri, a me poi piace molto la lentezza, comporre un disco in due anni mi ha fatto inevitabilmente bene.
Lei cita Fellini in “Buonasera”. C’è un motivo particolare?
Si ritorna al cinema e la letteratura, e in questo senso Fellini è appunto un maestro, così come lo è anche Nino Rota. Amo "8 ½" anche perché ci sono la ricerca del silenzio e tematiche meravigliose che si confondono con il sogno che è il carattere principale dei cinema felliniano. Ciò che amo di Fellini è la sua spontaneità onirica che si ripresenta in tutto il suo cinema, e poi il gioco e l’infanzia che sono due caratteristiche fondamentali del sogno. In “Buonasera” c’è una storia d’amore in fondo fatta di giochi infantili, quindi tutto torna.
Dal comunicato si legge “una generazione che ha fatto della noia una pulsione creativa, l’ultima generazione che non avrebbe voluto mai più crescere”. Ma lei si sente più un musicista d’altri tempi nato e cresciuto nell’epoca sbagliata, o un romantico senza tempo e proprio per questo costretto a correre all’indietro, dunque a osservare e a suonare il mondo che la circonda traendo linfa appunto dagli stili musicali di una volta?
Senza dubbio la seconda, nonostante mi piaccia molto la lentezza e non ami molto il digitale. La mia ricerca di lentezza è invece proprio dovuta all’iper-stimolazione che si ha sia scendendo in strada che accendendo una smartphone. Da un punto di vista musicale, poi, sicuramente i riferimenti sono quelli del passato, a volte anche dagli anni 90 come alcuni cantautori, le letture che faccio sono però sempre di autori degli anni 60 e 70 , faccio fatica ad andare oltre. Per quanto riguarda la noia anche qui la noia è senza tempo, e questa è una cosa bellissima, perché a mio avviso è necessario perdersi nell’assenza di tempo, spesso si dice che andiamo a combattere la noia, ma la noia è fondamentale, perché ci mette a contatto con i mondi che sono dentro noi stessi, non possiamo tirarci indietro al cospetto della noia.
Ci dica come ha scelto i musicisti che suonano con lei nell’album e secondo quali schemi.
Sono loro che hanno scelto me. (sorride, ndr). E’ stato tutto frutto della casualità che poi sono le cose migliori, insomma per me abbandonarsi alle casualità della vita è l’unico modo per provare a comprenderla. Grazie al mio compagno di musica Federico sono arrivato a tutti i musicisti dell’album. Tutti siamo poi accumunati da questa passione per l’antico, nessuno di noi si azzarderebbe a proporre una batteria trap, anche se la vita è strana e in futuro chissà.
“Mi rifugerei con loro in un rifugio”, riferendosi agli zingari in “Miracolo”. Le piace la musica gitana? Come nasce “Miracolo” e a chi è dedicata?
Mi piacciono tantissimo gli zingari e i clochard, sono figure ancestrali, loro vivono nella sospensione e mi affascina questo essere immersi nell’assenza di spazio e di tempo, ai margini, fottendosene dell’uomo e della società di oggi. Sono figure mitologiche, adoro anche i loro sguardi, il loro modo di vestire, e immaginare i loro pensieri. “Miracolo” è stata ispirata mentre uscivo dalla stazione di Chiaiano. Fu lì che vidi le famiglie di zingari enormi con i cani e le tute fucsia. I quartieri popolari mi piacciono tantissimo, amo passeggiarci tra le 12 e le 15.
Perché “Boxe”?
Perché è una guerra, un combattimento, c’era un’idea del sabato sera e delle chiacchiere come pugni che è poi emersa, inoltre negli ultimi due anni ho allontanato la socialità e soprattutto il sabato sera. Dunque, ho agito come un ex-pugile che si rompe le palle e quando torna sul ring prende pugni.
Come sarà il tour? Verranno tutti i musicisti coinvolti nel disco?
Certo che sì.
Napoli torna spesso al centro dei suoi testi. Come mai?
Città incredibile, ha un misticismo di fondo e una potenza difficile da spiegare. Ogni volta che ci vado scopro qualcosa di nuovo e uguale, ergo differenza e ripetizione, a Napoli poi vige una logica da sogno, è una città felliniana.
Le hanno mai detto che sembra invece uscito dalla famigerata scuola romana di Fabi, Gazzé e Silvestri?
Molto più raramente, più facile che mi accomunino alla scuola napoletana. Tra i tre comunque mi piace di più Silvestri, adoro la sua spensieratezza.
Ci dica cinque dischi che le hanno cambiato la vita e brevemente perché.
Per cominciare “I molteplici mondi” di Neffa, in quanto disco potentissimo che ascoltavo quando ero bambino in auto di mio padre, ha un mood super-rilassato che adoro. E’ un disco dalle tonalità gialle. A seguire “Un sabato italiano” di Sergio Caputo: lui mi ha sempre fatto immergere in una realtà alternativa, di saltimbanchi e signorine che telefonano da una cabina per chiedere di uscire nel weekend. Un fantastico reale, ecco. Sono cresciuto poi con la musica di Rocco Hunt e Clementino, quindi dico “Spiraglio di periferia”. E ancora “Il vuoto” di Franco Battiato, scoperto la scorsa primavera insieme ai testi orientali, è un disco che mi ha cambiato la vita. Infine “Amoroso” di João Gilberto, perché c’è tutto, sono canzoni non sue ma è come se lo fossero, un romanticismo all’antica che fa bene all’anima, al cuore e al cervello.
Le piace Sanremo? Sogna di andarci un giorno?
Non lo guardo, mi capita inevitabilmente con gli amici e quando capita mi innervosisce molto, perché la gente fa attenzione solo alle canzoni, e siccome non ho la televisione a casa e non la guardo nemmeno dal pc, per me Sanremo resta uno dei momenti in cui posso scoprire cosa mi propina la tv, certo che mi piacerebbe andarci, soprattutto per riguardarmi.