Jürgen Degener, l'enfant prodige della scena techno romana, nativo di Stoccarda, ci racconta del suo percorso e di come ogni forma di vita, e quindi anche la musica, sia ciclica.
Hai iniziato nella scena underground, ci racconti come è iniziato il tuo percorso?
Ho fatto studi classici di pianoforte per molti anni, parallelamente ho sempre ascoltato moltissima musica, principalmente estera del Nord Europa. In un periodo di difficoltà personali mi sono avvicinato alla minimal, che a mio parere ha una risonanza con la musica classica del pianoforte che studiavo da ragazzo. Da lì ho iniziato a frequentare serate underground di musica techno fino a iniziare a lavorare in uno dei locali simbolo del genere, ovvero l’Ex-Dogana.
A tal proposito, proprio lì, in una delle roccaforti dell’avanguardia musicale della Capitale hai iniziato a suonare come deejay…
In quel periodo già suonavo per passione a casa e alle feste private, mentre lì lavoravo come barman. E’ stato un caso fortuito, un deejay in chiusura ha disdetto e mi hanno chiesto di sostituirlo. Ed è stato un successo, quella sera la gente è impazzita. Lì ho capito che le persone nella techno trovavano il sollievo di un "non luogo", dove perdersi e non pensare a nulla. Da lì ho iniziato a suonare regolarmente, ho fondato la serata Berlin Calling e ho cominciato a produrre miei brani.
Al di là dell’averti dato un punto di accesso al lavoro, lavorare in un locale di musica techno, come era l’Ex Dogana, un luogo di sperimentazione, ha influito sulle tue produzioni?
Ricordo che si usava spesso chiudere con l'hard techno, aumentando i Bpm da 130bpm a 160bpm in chiusura, e la trovavo indigeribile. Grazie a questa esperienza, però, ho avuto accesso a un genere che non conoscevo così bene e che ho deciso di approfondire all’estero. Credo che l'Ex Dogana mi abbia dato un trampolino di lancio, essendo uno dei locali più importanti della scena indie e underground romana, mi ha permesso di avere una visibilità che non mi sarei mai aspettato e di fondare, successivamente, i Traumers.
E come è iniziata la carriera con i Traumers?
La storia è molto divertente, mi fa pensare che eravamo predestinati. Ho deciso di festeggiare i miei 30 anni all’Ex Dogana dove avrei anche suonato quella sera. E soltanto attraverso il passaparola siamo riusciti a radunare più di quattrocento persone. Da lì abbiamo capito che questa cosa sarebbe potuta crescere e diventare qualcosa di più grande. E quindi con cinque amici musicisti abbiamo fondato la società Traumers, con la quale abbiamo prodotto i primi vinili per l’etichetta Trash Tune Records.
Produci lavori con i Traumers da anni, ora fai parte degli Head 2 Head. Avete mutato genere, dalla techno all'elettronica con campionamenti funk e R&b...
Attraverso i Traumers ho avuto la possibilità di collaborare con musicisti provenienti da altri paesi, principalmente Olanda e Germania, e questo mi ha aperto a diversi modi di fare musica. Mi ha consentito di ampliare la mia conoscenza della musica techno, rendendo possibile un’evoluzione che prima non avrei mai immaginato. Le nostre ultime produzioni si avvicinano di più a delle vere e proprie canzoni e si allontanano dalle tracce puramente techno a cui eravamo abituati. Questo ci ha permesso di spaziare di più, sia nel genere che nel pubblico. Credo fortemente che la musica sia ciclica e come tale è destinata a cambiare sempre.
Quando ti esibisci live cambi spesso, da cosa è condizionata la scelta?
Credo che la scelta sia dettata molto dalla capacità di comprensione del luogo dove mi esibisco e del tipo di pubblico.
Nel mondo della musica techno il tipo di pubblico cambia molto a seconda delle serate?
Sì, molto, ora ho fatto il back to back con Agoritz che fa musica più hard techno di me e attira un pubblico più internazionale. Nella stessa serata si è esibito anche Ben Sims, che attira un altro genere di utenza ancora. In generale, credo che il mondo della techno sia cambiato, così come anche il pubblico. Credo vada di pari passo con la necessità di sfogo delle persone soprattutto all'interno di una società che ti impone di fare tutto di corsa, sempre. Penso che questa sensazione di oppressione, di “sentirsi stretti”, si rifletta in tutto, anche nella musica techno.
Cosa ti emoziona di più nel live?
La musica è veicolo di emozione, positiva o negativa. Quando mi esibisco, quello che cerco di fare è creare un distacco dal quotidiano, uno spazio vuoto, dove le persone si allontanino dalla loro giornata, dall’ultimo pensiero che hanno avuto prima di entrare nel locale. Quando funziona, sentire questa emozione nel pubblico, osservare la modulazione dell’umore delle persone che vengono a sentirmi, è impagabile.
Cosa pensi della scena techno italiana?
Penso sia decisamente indietro rispetto alle altre nazioni europee. Soprattutto siamo indietro nel sostenere gli emergenti. Le principali serate chiaramente si basano quasi esclusivamente su headliner di maggior risonanza. E questo è un peccato, perché ora l'accessibilità alla produzione musicale è nettamente maggiore di prima, la tecnologia di oggi consente a persone talentuose di emergere più facilmente. Al contempo è come se l’ascolto fosse più superficiale. Si è persa la volontà di ricerca di conoscere ciò che si ascolta, e questo è un peccato.
Ci consigli un disco da ascoltare, una pietra miliare della techno?
Richie Hawtin aka Plastikman - "Spastic", senza ombra di dubbio, li si racchiude la visionarietà.