Lisa Germano

La dolce ossessione

intervista di Claudio Fabretti

Te la immagini schiva e imperscrutabile, immersa nei suoi appunti e nei suoi spartiti, nelle sue storie di (stra)ordinaria disperazione. Invece, Lisa Germano si mostra subito cordiale e disponibile. Sembra finalmente serena. Ed è felice di potersi raccontare a un pubblico, quello italiano, che dice di amare e che avrà la possibilità di incontrare nel corso del suo nuovo tour, all'inizio di maggio. Così l'unico ostacolo tra chi scrive e quella che è forse la più importante cantautrice contemporanea restano... i libri! Sì, perché durante il giorno Lisa Germano deve lavorare sodo in una libreria per sbarcare il lunario. Così va il mondo cinico e baro... Almeno per ora, perché alla domanda "proprio non si può vivere di sola musica?", lei ti risponde serafica: "Chi lo sa... io continuo a provarci"... Fatto sta che da questo carteggio spontaneo, rubato al suo prezioso tempo libero, è nata un'intervista, che cerca di fare il punto sullo stato della sua arte, a un anno dall'uscita dell'ottimo "In The Maybe World", primo frutto del sodalizio con la Young God di Michael Gira, e alla vigilia della sua partenza per la nuova tournée europea.

Vieni da una famiglia di musicisti classici, hai iniziato suonando il violino e in generale sembri avere un approccio "classico". Che cosa ti ha spinto invece a scegliere altre strade?
Forse è il mio amore per la melodia che induce molte persone a sentire un approccio classico nella mia musica. Nella mia crescita musicale, l'approccio classico ha rappresentato soprattutto perfezione e regole da seguire; però mi ha sempre divertito di più rompere queste regole e lasciarmi prendere la mano dagli errori che ti portano fuori strada, creando momenti intensi e unici.

In passato hai detto di non sentirti una "cantautrice", lo pensi ancora?
Sì, mi ritengo soprattutto una narratrice, mi piace raccontare storie. Non mi considero una cantautrice perché non mi sento molto affine alle persone che si definiscono in quel modo. Ci sono molti artisti che, attratti da una formula, si sentono a loro agio nel riprodurla. Io invece mi sento più ispirata quando la mia idea originale cambia, aprendosi a qualsiasi cosa possa accadere e portandomi dove non mi sarei mai aspettata di andare a finire: un approccio svincolato dalle formule, insomma. Non sono il tipo di artista che inizia la giornata dicendo "oggi devo scrivere una canzone". Ci vuole abilità per riuscire a lavorare così, io non ce la farei mai...

Il tuo ultimo disco è anche il primo per la Young God di Michael Gira. Ci puoi raccontare qualcosa sul tuo incontro con Michael? Com'è avvenuto e cosa pensi della sua musica?
Ho un ottimo rapporto con Michael Gira, perché è una persona molto creativa e le nostre conversazioni sono sempre dirette e sincere. Lui mi ha dato piena libertà di sperimentare con la mia musica, i suoi suggerimenti non sono mai stati intrusivi, ma sempre interessanti e utili. Ho molta fiducia nella sua estetica e mi piace il suo approccio alla musica. Il progetto di "In The Maybe World" è nato in modo del tutto estemporaneo. Mi sono messa a scrivere qualcosa che non sapevo nemmeno se un giorno avrei suonato per qualcuno. Poi, all'improvviso ho realizzato che tutto poteva avere un senso e ho spedito il materiale a Michael, prima ancora di averlo mai suonato ad altri. E lui mi ha risposto così: "Certamente questo è un disco, e ovviamente voglio pubblicarlo, quindi diamoci da fare...". Avevo davvero bisogno della sua fiducia, perché non ero affatto sicura di riuscire a completare il disco.

Del tuo precedente album, "Lullaby For A Liquid Pig", avevi detto "non credo che possa funzionare se non si ascolta da soli". Quanto è importante l'isolamento e la solitudine nelle tue canzoni? E credi ancora che la città in cui vivi, Los Angeles, faccia sentire più soli?
No, adesso devo dire che vivere a Los Angeles mi piace. Ora che ho un uomo nella mia vita, non è più così buio qui, anzi, al contrario, è un posto magnifico. A proposito di "Lullaby For A Liquid Pig", credo si possa ascoltare in ogni situazione, ma che funzioni meglio se si ascolta in solitudine, per conto proprio, per sentirsi davvero dentro quel tipo di feeling e non avere qualcuno che giudica le tue sensazioni. In generale, la mia non è certo musica che si può mettere alle feste... E se qualcosa ti tocca personalmente, a volte ti senti un po’ in imbarazzo nel condividerlo con gli altri.

Ho apprezzato molto il tuo ultimo disco, "In The Maybe World", e credo che sia il tuo lavoro migliore dai tempi di "Geek The Girl". Ho ritrovato tutti i fantasmi e le paure di quel disco, ma anche un approccio più sereno alla vita e alla morte. E' così?
Grazie dell'apprezzamento, anzitutto. Credo davvero che sia il mio disco più "positivo" fino ad oggi e spero di proseguire in questa direzione.
Ho sempre pensato a "In The Maybe World" come a un disco sulla morte, e in effetti è nato da alcune riflessioni su questo tema, dopo l’operazione chirurgica di mio padre, il timore di perderlo... ma in realtà è un disco sulla vita, sulla speranza. La morte, la sensazione di perdita, diventano gli strumenti per cercare di vedere la vita in un’altra ottica, per capirne la bellezza. Ecco, se devo pensare a un vero disco sulla morte, mi viene in mente "Electro-Shock Blues" degli Eels. E' il migliore, lo adoro.

A proposito di canzoni sulla morte, due tracce di "In The Maybe World" hanno una storia particolare: "Golden Cities" è stata ispirata dalla morte del tuo gatto, mentre "Except For The Ghosts" è stata composta in memoria di Jeff Buckley, che avevi incontrato proprio poco prima della sua scomparsa...
Sì, in realtà Miamo-tutti (il suo gatto, ndr) è il vero autore di "Golden Cities". Suona bizzarro, ma è così. Lo tenevo in braccio quando era molto malato, e mi veniva da sussurrargli quella melodia per consolarlo... poi sono venute anche le parole. In quel momento non avevo compreso che era stato lui a mandarmi quella melodia, che era lui che voleva consolare me, ma credo sia proprio quello che è accaduto.
"Except For The Ghosts", invece, l'ho composta subito dopo la morte di Jeff. Lo conoscevo poco, ma sentivo che c'era del buono nella sua anima, era una persona molto dolce. Così ho sentito il bisogno di dargli il mio addio con questa canzone. Ho scritto "Except For The Ghosts" immaginando ciò che poteva aver provato nel momento della sua morte: quando la canto, penso a Jeff che nuota verso di me: suona un po’ strano, ma è così. Più in generale, per me quella canzone ha a che fare con tutti coloro che si trovano in un momento cruciale della vita, che sono vicini alla resa, soli e bisognosi di lasciarsi andare... alla morte o anche solo a un cambiamento profondo.

E’ stupefacente per me il fatto che, nella patria della musica indipendente, una delle principali artiste di quel circuito debba essere costretta a lavorare in libreria per pagarsi le bollette a fine mese. Mi sembra quasi la prova definitiva che scrivere ottima musica non possa essere un mestiere. Ti sei mai chiesta perché i tuoi dischi non vendono abbastanza? Personalmente, credo che la tua musica sia tutt’altro che inaccessibile...
Beh, non si sa mai... Io continuo a provarci, vedremo come andrà, anche se non scrivo musica con l’idea di vendere e non sono ossessionata da questo obiettivo.
Certo, la mia musica non è adatta per i megastore. E’ musica d’atmosfera, ma penso che possa parlare davvero a una persona, che ci si possa immedesimare profondamente in essa. Forse, una delle ragioni per cui i miei dischi non vendono molto è perché non riescono a parlare contemporaneamente a tante persone. Però ricevo anche lettere molto toccanti, di persone che raccontano di essere rimaste emotivamente coinvolte dalle mie canzoni. E questo mi incoraggia ad andare avanti. Continuo anche a pensare che sarebbe divertente scrivere cose più "pop". Non è una pregiudiziale, insomma, solo che non mi viene proprio di farlo, non ho quel tipo di talento.

Sei passata attraverso numerose etichette, ognuna con differenti approcci e stili (dalla Capitol alla 4AD, dalla Ineffable alla Young God). Che cosa ti è rimasto di queste esperienze, e in particolare, cosa pensi che l’estetica della Young God possa dare alla tua musica?
Ogni etichetta prova essenzialmente a vendere dischi. Sono stata molto fortunata con le varie label con cui ho lavorato, a parte il caso della Capitol, dove non si faceva altro che litigare: in realtà mi avevano ingaggiata per una sola canzone, "You Make Me Wanna Wear Dresses", pensavano potesse diventare un successo pop, ma in realtà la mia musica non fa per le major... Comunque, tutte mi hanno sempre lasciata libera di esprimermi artisticamente. Anche la Young God mi ha offerto molta libertà, e certamente la grande estetica di Michael Gira offre uno stimolo in più: spero che possa aiutarmi a esprimermi al meglio.

Le tue canzoni sono sempre molto personali, a volte sembrano quasi un flusso di coscienza. Hai mai avuto qualche rimorso per ciò che avevi "confessato", il timore di aver raccontato situazioni troppo personali ed esserti esposta troppo?
Quando scrivo una canzone mi calo nelle mie emozioni più oscure, è qualcosa che ho bisogno di tirare fuori, quasi un riflesso fisiologico, come piangere o ridere forte.
Però credo di affrontare situazioni psicologiche ed emozioni che ognuno potrebbe sentire proprie, se si calasse nello stato d’animo adatto per viverle.
Qualche volta mi capita anche di verificare l’effetto che le mie canzoni fanno sulle persone, per capire se sono troppo personali o meno. Quando ho scritto "Moon In Hell", ad esempio, pensavo che fosse davvero una canzone troppo personale. Poi l’ho fatta ascoltare a un amico che in quel periodo aveva a che fare con persone affette da problemi di droghe, e mi ha detto: "Mio Dio, hai descritto esattamente quel tipo di mondo". Il bello è che per me voleva esprimere tutt’altro, ma mi sono detta: "Beh, allora forse non era troppo personale!".

E’ vero che per "Geek The Girl" hai ricevuto moltissime lettere da ascoltatori gay?
Sì, per qualche strana ragione, per quel disco ho ricevuto più e-mail da ammiratori gay, mentre molte altre persone vi hanno visto una sorta di odio femminista contro gli uomini, anche se per me non era assolutamente così. Quei versi potevano essere per tutti, in realtà.

Quali sono i cinque dischi della tua vita?
Non posso dirlo: sembrerà strano, ma è una faccenda "troppo personale". E' un segreto...

Tra le tue varie influenze hai citato Smiths, Jackson Browne, Kate Bush...
Già, in particolare Kate Bush mi ha dato la fiducia per non temere di esporvi emotivamente. Avevo paura persino della mia stessa voce, poi ho ascoltato "Hounds Of Love" e mi ha fatto capire che non ci si deve mai porre dei limiti.

Tra gli artisti con i quali hai lavorato ci sono nomi molto importanti, da John Mellencamp, che hai accompagnato al violino nella sua band, a David Bowie, passando per Neil Finn (Crowded House), Simple Minds, Iggy Pop, Sheryl Crow, Eels... chi ti ha colpito di più?
Una delle esperienze più stupefacenti è stata quella con Bowie. E' un personaggio così famoso... una leggenda. Ed è davvero magnifico, molto genuino e creativo. Tanti artisti, ottenuto un certo tipo di fama, diventano timorosi di sperimentare, di spiazzare i loro fan. Lui invece era pieno d'entusiasmo, voglioso di sperimentare sempre strade nuove, e abbiamo parlato tanto insieme. E' stato magnifico.

La tua famiglia è di origini italiane, tu che tipo di rapporto hai con l’Italia? Sappi che, almeno nella comunità di Onda Rock, qui hai moltissimi estimatori...
L’Italia rappresenta per me l’idea di vivere la vita in tutta la sua pienezza. Il luogo dove ogni cosa è ingigantita... passione e amore per la bellezza, cibo, sesso, musica, vino, lottare, ballare, ridere e piangere.

Qual è il miglior complimento che hai mai sentito sulla tua musica? E qual è stata invece l’espressione peggiore che qualcuno ha mai usato per descriverla?
La peggiore - ma mi divertì tantissimo - venne usata per "Lullaby". Qualcuno scrisse: "Evitate questo disco a tutti i costi!".
Il miglior complimento, invece, me lo rivolse un ascoltatore in una lettera: "La tua musica non mi fa più sentire così solo, sento che qualche volta mi ha salvato la vita, grazie...". Quella lettera è il motivo per il quale continuo a scrivere musica.

(25/04/2007)