Abbiamo incontrato Micah P. Hinson in occasione dell’inizio del suo tour autunnale, che, dopo l'antipasto di inizio mese a Taranto, prevede altre quattro date in Italia: il 23 novembre al Teatro Comunale S. Teodoro di Cantù (Como), il 24 al Teatro del Parco di Mestre (Venezia), il 25 all’Auditorium del Carmine di Parma e il 26 al Capitol di Pordenone. È stata un’opportunità per parlare della speciale edizione in vinile di "I Lie To You", uscita per Ponderosa Music con due riarrangiamenti di brani già editi. Ma con il musicista di Abilene (Texas), abbiamo parlato anche delle radici del suo canzoniere, di tanti aneddoti del passato e delle sue sensazioni sul presente.
Cominciamo parlando del tuo ultimo lavoro, in cui presenti due brani (“Oh No!” e “People”) in una versione riarrangiata. Vuoi raccontarci qualcosa di più su queste due canzoni in particolare?
Mi ero completamente dimenticato di “Oh No!”, ma quella canzone è stata pubblicata su un piccolo Ep spagnolo che ho realizzato anni e anni fa ("Presents The Surrendering"). Vale sicuramente la pena di tornare indietro e ascoltarla, perché credo che lo spirito del brano sia lì. Ho provato a registrarlo diverse volte perché ce l'avevo con me da molto tempo, ma non è mai venuto bene. Doveva essere su "I Lie To You" e ancora non veniva fuori bene, ma alla fine ha funzionato e sono davvero contento del risultato finale. Volevo qualcosa che andasse oltre il suono di "I Lie To You". E penso che ci siamo riusciti, così come con "People". Su questa immagino che non ci sia altro da aggiungere, se non che può essere vista in diversi modi. È un brano molto pop, probabilmente una delle cose più semplici e pop che ho fatto, e quindi è sempre bella eseguirla. Le liriche del testo sono molto pesanti e penso che possano essere viste in diversi modi.
Hai deciso di registrare il tuo ultimo album con un'etichetta italiana e di iniziare il tour europeo nel nostro paese. Da dove nasce questa sensazione di vicinanza?
Per quanto riguarda il tour in Italia e l'avere Ponderosa come etichetta discografica, non sono sicuro di poter parlare di una sorta di vicinanza con il paese e in particolare: è successo quando non avevo un'etichetta discografica e non ero sicuro di cosa sarebbe successo con la mia musica in futuro. Conoscevo Alessandro "Asso" Stefana e lui mi ha aiutato a realizzare "I Lie To You", e grazie a quel legame sono entrato in contatto con le persone della Ponderosa. È stato un caso, suppongo, perché io stavo lavorando, loro stavano lavorando e ci siamo incrociati per caso, ma è un piacere lavorare con loro e si tratta di gran lunga dell'etichetta discografica più comprensiva per cui abbia lavorato. Credo che il feeling che si crea con le persone sia per certi versi più importante del lavoro. La cura e la gentilezza che c'è dietro. Ed è una cosa incredibile.
"I Lie To You" è il tuo primo album composto dopo la fase in cui hai deciso di ritirarti dalle scene. Come hai vissuto questo periodo di “tranquillità” e qual è stata la cosa più preziosa che hai imparato?
Presumo che con la parola "tranquillità" tu intenda il motivo per cui non ho pubblicato nulla. Credo che questa sia una situazione un po' diversa rispetto alla sensazione che fosse arrivato il momento di smettere. Come ho accennato nella mia ultima risposta, a proposito dell'etichetta discografica di allora, e prima di allora, ero in una piccola etichetta discografica in un paese insulare da qualche parte in Europa. Mancavano di compassione e di qualsiasi tipo di supporto di cui credo avessi bisogno. Quando ho lasciato quell'etichetta non avevo nulla all'orizzonte. Credo che in quel momento mi sia sembrato più importante far sparire tutta quella situazione e poi vedere cosa mi avrebbe portato la vita.
Un'altra cosa è che, mentre c'era la pandemia, sentivo che tutti pubblicavano dischi e facevano spettacoli online e cose del genere. E questo mi ha reso molto nervoso, perché ora siamo in una situazione in cui l'essere un musicista ti porta a interessarti all'intero mondo di Internet, ai click e allo streaming. Forse per alcune persone è importante, ma personalmente non riesco a vedere che questo valga molto. Sono arrivato a un punto quando pubblico un disco: è importante fare un tour, è importante uscire e cercare di guadagnarsi da vivere. Da qui la “tranquillità” che avevo: il mondo non si muoveva nello stesso modo in cui si muoveva prima e io non avevo la possibilità di fare le cose che avrei voluto fare. E così ha avuto senso non fare proprio nulla. Non mi sembrava che fosse un momento tranquillo della mia vita. Forse apparentemente, forse nel mio fisico... non parlavo, forse ero silenzioso, ma con le cose che pensavo nella mia mente e le cose che stavo vivendo con la musica non mi sentivo tranquillo e naturalmente la musica è direttamente collegata alla mia vita. Ma cosa ho imparato da tutto questo? È una domanda interessante. Sono cambiato in quasi tutti i modi di pensare. Continuo a dire alla mia ragazza che mi sto trasformando in un vero ragazzo "umano" e che sto cambiando il modo in cui percepisco la mia vita e la mia musica.
Ascoltando il precedente album "When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You" ho percepito un senso di grandezza ma anche di angoscia e di straziante cupezza. Nel tuo ultimo lavoro, invece, sembra che l'oscurità si sia dissolta e traspare un senso di ritrovata serenità. Condividi queste sensazioni?
Direi che sono d'accordo con quello che hai detto. Voglio dire, è sicuramente un disco piuttosto cupo: l'ho riascoltato e lo trovo davvero affascinante perché non stavo seguendo nessuna delle regole o delle linee guida che mi ero dato per registrare i dischi. Ascolto quell'album e sento un sacco di spazio, mentre prima mi sarei sentito come se avessi riempito quei vuoti. Ma anche all'epoca, quando lo stavo registrando, c'erano cose molto specifiche che stavano accadendo con la registrazione di quell'album e quindi credo di essere stato più ossessionato dalla scienza della tecnologia dei suoni e meno dalla quantità di strumenti che c'erano. Credo che questo valga anche per “Holy Strangers”. Ma anche per queste cose, potrei sedermi qui e guardare indietro e cercare di immaginare che l'ho fatto per questa o quella ragione. Forse non ero molto interessato e forse stavo facendo una specie di esercizio. Quando l'ho finito, il disco non mi è piaciuto molto, pensavo che fosse un'altra cosa. Ma riascoltandolo ora, mi sembra che sia stato un album molto importante e che stavo parlando a me stesso di cose molto interessanti di cui non ero consapevole all'epoca. Quando abbiamo iniziato a registrare "I Lie To You", come ho detto, non avevo un'etichetta e avevo solo queste canzoni e alcune nuove, e si trattava solo di registrare un album, credo. Poi, naturalmente, è arrivata la pandemia e, di nuovo, non c'era la possibilità di viaggiare e quindi, a quel punto, è finito davvero nelle mani di Alessandro "Asso" Stefana e abbiamo passato molto tempo a lavorarci, ma credo che sia stato più tempo a cercare di capire cosa non mettere che cosa mettere.
Volevamo un album di canzoni molto semplici, senza tanti lustrini e cose del genere. Nell'ultima parte della domanda parli di un ritrovato senso di serenità o qualcosa del genere con l'album? No, non credo si tratti di questo. Voglio dire, si sente sicuramente che il suono è più raccolto e sereno o qualcosa del genere, ma no, non credo che le canzoni parlino davvero in questo modo. Serenità è un concetto interessante, e non sono sicuro che sia qualcosa che rientra nel modo in cui scrivo canzoni.
Le canzoni di "I Lie To You" sono lineari con una durata che non supera mai i quattro minuti, mentre nei tuoi lavori precedenti avevi composto anche brani dalla struttura più lunga e complessa. La scelta riflette il tuo desiderio di sperimentare un nuovo modo di fare musica più incentrato sulla semplicità?
No, credo che quello che stai dicendo sia la brevità delle canzoni e la loro sinteticità. Non sono stato io a sperimentare idee o cose del genere. Voglio dire, stavamo lavorando con Alessandro "Asso" Stefana ed eravamo molto limitati in quello che potevamo fare. Credo che in qualche modo sia stato un esperimento o forse una necessità. Non lo so. Esperimento forse non è la parola giusta, ma credo che stessi sperimentando l'idea di usare molti meno strumenti e di rendere le cose un po' più fini. Noterete anche che non ho messo su questo disco il mio nome e nessun altro (Gospel of progress, Opera Circuit e quel tipo di cose). Volevo che fosse sintetico e che non creasse confusione, perché per qualcuno che mi conosce da quando ho pubblicato il disco, avere nomi diversi avrebbe potuto creare confusione. È proprio il tipo di essere umano che ho deciso di essere; ho 42 anni e sto cercando di esserlo ancora per un po'. Penso che essere più chiaro mi gioverà.
Ho notato che sulla copertina del tuo ultimo album sei tornato a inserire una foto in bianco e nero con dettagli di figure femminili, come nell'iconico artwork dei primi album. L'insolito e oscuro dipinto astratto dell'album precedente aveva un significato particolare per te?
Credo che tu ti riferisca all'artwork di "Holy Strangers". Non l'ho fatto nel modo raffinato che hai menzionato, come faccio di solito, a causa della storia di quel disco, di quello che stavo cercando di dire e di quello che stavo cercando di fare. Non era il caso di usare un artwork con lo stesso stile che avevo già utilizzato. Non avrebbe funzionato. I “musicisti dell'Apocalisse”, in realtà, è un dipinto di mio fratello, Joshua Henson. È un brillante artista Chickasaw e ha un tocco eccellente, e sta insegnando la lingua Chickasaw in alcune scuole che sta aprendo. È molto in alto nel governo Chickasaw, il popolo dei nativi americani, da cui provengo. A quel tempo mi trovavo in Oklahoma, o Territorio Indiano, e ho fatto un sogno in cui era buio. Ho visto queste frecce, tutte rivolte verso l'alto, e poi ho cominciato a vederle trasformarsi in questo quadrato e l'ho raccontato a mio fratello, ne abbiamo parlato e lui ha dipinto quel quadro durante la pandemia di Covid, che è un quadro incredibile, ma era davvero difficile da trovare. Ricordo che è stato molto difficile trovare persone che potessero scannerizzarlo, persone che potessero fare delle belle foto. Alla fine, ho trovato qualcuno nel bel mezzo di Dio sa dove a Dallas, in Texas. Tutto qui.
Nell'album c'è un omaggio alla tradizione folk americana con la cover di "Please Daddy, Don't Get Drunk This Christmas" di John Denver. Che rapporto hai con la grande tradizione folk americana?
È interessante, non avevo mai pensato che John Denver facesse parte della grande tradizione folk americana, come dici tu. Immagino che Denver suonasse al Greenwich Village con molte delle persone che facevano parte del movimento folk. Ma credo che sia andato avanti e abbia fatto qualcosa di molto, molto diverso, soprattutto in quei primi anni. Forse dieci anni o giù di lì, forse un po' meno. Una volta arrivati soprattutto agli anni 90, le cose erano molto diverse. Almeno questa è la mia sensazione sulla sua musica. In quei primi anni scriveva a un livello così personale e diverso, e le cose di cui parlava erano tristi e adorabili, ed era compassionevole. E questo era molto diverso da tutte le altre cose che credo di voler inserire nell'idea di tradizione folk americana. Credo che molta musica folk sia disconnessa. Ha senso? Sì, perché ci sono persone come la famiglia Carter che hanno dato una grossa mano al folk americano, e cantavano canzoni folk, ma cantavano canzoni che avevano comprato da altre persone. Quindi, quando ascolto la loro musica, trovo che siano canzoni straordinarie, ma manca davvero un senso di emotività o qualcosa del genere, perché chiaramente stavano suonando composizioni di altre persone. Non tutte effettivamente, ma la maggior parte, e quando le cantavano, ovviamente, era molto più facile non provare la stessa emozione della persona che aveva scritto la canzone. Quindi, sì, capisco. Potrebbe essere un po' strano. Non ci ho mai pensato, ma sì, e il folk americano non mi sembra una forma di composizione molto personale. E John Denver è stato probabilmente la più grande influenza sul mio modo di scrivere canzoni e sul modo in cui voglio scrivere. Era una persona incredibile da ascoltare. E credo che il motivo per cui suono sempre il maggior numero possibile di sue canzoni o metto le sue canzoni nei dischi sia che sento che sia stato molto dimenticato. Credo che tutte le cose hippie e un po' strane che faceva e tutto quello che pensava abbiano davvero allontanato il suo percorso da un numero importante di persone che lo ascoltavano o lo prendevano sul serio o qualcosa del genere.
Le radici della tua musica sono evidentemente americane; ciononostante hai sempre riscosso enormi consensi anche nel Vecchio continente. Come lo spieghi?
Non credo di essere d'accordo con te, perché come la metti? Le radici della vostra musica sono evidentemente americane. Non credi? Quando ho iniziato a scrivere canzoni e avevo questo interesse nel comporle, voglio dire, era tutto ok. Come abbiamo detto, ascoltavo John Denver, ovviamente, ma non solo. Ascoltavo, come ho detto tante volte, i Cure, i My Bloody Valentine, i Curve, i New Order, e poi anche al di là di questo, la roba che ascoltavo, per quanto potesse venire dagli Stati Uniti, non seguiva la tradizione americana. Cose come i Nine Inch Nails o come i Canadians, gli Skinny Puppy, Front 242 e Thrill Kill Kult. Questo tipo di cose non c'erano prima. Non rientravano nella tradizione americana o meglio nella tradizione musicale folk degli Stati Uniti… credo che usare l'espressione "americano" per descrivere uno stile di musica proveniente da un luogo molto particolare di tutto il continente sia piuttosto ingiusto. Quindi, per quanto riguarda il folk degli Stati Uniti o la sua tradizione, credo che molto di quello che si sente sia la tradizione. Voglio dire, è davvero ineluttabile.
Sono nato a Memphis e poi sono cresciuto in Texas; quindi, ha senso che io suoni una chitarra acustica. Ha senso che io scriva musica folk o country o quello che vogliamo. Ma, sì, di certo non sono stato cresciuto, come si potrebbe pensare, come Hank Williams e Johnny Cash. Certo che ho sentito queste cose in giro. Voglio dire, era inevitabile, ma non è qualcosa che ascoltavo a casa o di cui andavo a cercare i cd e cose del genere.
Cosa possono aspettarsi i fan dal prossimo tour? Sarà incentrato principalmente sul tuo ultimo lavoro o suonerete anche brani dei tuoi album precedenti?
Stavolta si tratta di una prosecuzione dell'ampio tour "I Lie To You", che si spera continui. Beh, siamo sempre io e Paolo, il mio batterista e guru del cazzo. E poi Alessandro "Asso" Stefana, ovviamente, che suona il banjo e il piano e il baritono e l'armonica. Ho detto banjo? Sì, il ragazzo suona il lapsdale. Sì, suona ogni genere di cose. Questo mese è in tour con Vinicio Capossela. Quindi si unirà a noi solo in quattro concerti. Ad esempio, stasera siamo in Belgio. E ha partecipato anche allo show italiano all'inizio della settimana. Ma la maggior parte del tour è composta da me e Paolo. Abbiamo fatto qualche concerto da soli ed è davvero una persona interessante, oltre che un fantastico batterista. Più che suonare la batteria, credo che la incarni o qualcosa del genere. Diventa un tamburo. È un essere umano speciale. Ma, sì, stiamo ancora imparando quello che stiamo facendo e stiamo suonando. Tuttavia, gran parte del materiale sarà tratto dal nuovo disco. E poi suoniamo canzoni dal Gospel o dal Opera Circuit, a volte dai Pioneer Saboteurs, a volte dalla Red Empire Orchestra. Quindi, sì, scopriamo un sacco di cose e penso che si adattino molto bene. Non mi sembra che le canzoni più vecchie suonino antiquate o strane rispetto a quelle nuove. Sì, è tutto un tutt'uno.
C'è un concerto del passato che ricordi con affetto?
Sì, certo. Uno me lo ricordo con affetto. Era probabilmente il 2008, vivevo ad Abilene, in Texas, e lavoravo in un negozio di fumetti. Ho saputo da uno dei miei colleghi del negozio di fumetti che stava organizzando un concerto in un posto chiamato Paramount Theater, che era l'unico bellissimo teatro degli anni 30 nel centro di Abilene. E stava portando Iron & Wine, Sam Beam, e io avevo fatto un tour con Sam Beam in Inghilterra. Credo che fosse il mio secondo tour di supporto e quindi lo conoscevo. E così ho finito per partecipare allo show. E suonare ad Abilene, soprattutto al Paramount, è stata una cosa davvero monumentale per me, perché avevo lasciato Abilene in modo irresponsabile. Ed essere tornato, per quanto sciocco sia, è un po' come se avessi fatto qualcosa con me stesso, una sorta di vittoria. Ma, sì, sono salito sul palco e ho suonato, e per qualche ragione, quella sera ho sentito di aver suonato tutte le canzoni correttamente. Ho detto tutte le cose giuste. Ho detto tutte le battute giuste ed è stato un concerto fottutamente incredibile. E poi il signor Sam Beam è salito sul palco e ha fatto una battuta terribilmente ridicola su uno dei nostri più famosi barbecue. Da quel momento ho perso per sempre la fiducia in lui!
(23/11/2023)
Il tormento della bellezza di Alessandra Trirè Densa, cupa, tormentata, emozionale. La musica del texano Micah P. Hinson, uno dei più interessanti volti della scena folk statunitense, è un fuoco di oscura passione che travolge gli animi e infiamma i cuori. Modesto, riservato, ma anche schietto ed estremamente disponibile: il cantautore di Abilene ci parla dei suoi progetti musicali, del suo rapporto con la popolarità, della sua passione per la fotografia e della sua collezione di macchine da scrivere. Sei in assoluto uno dei cantautori più promettenti della scena musicale indipendente. Perciò, un buon modo per iniziare questa intervista potrebbe consistere nel parlare del processo stesso di scrittura musicale. Come fa Micah P. Hinson a dare vita a una canzone? Oh! Vi ringrazio tanto. Non so se credervi o no, ma è dannatamente carino da parte vostra. Penso che il processo attraverso il quale nasce una canzone sia abbastanza semplice. Si può riassumere in pochi punti: una sequenza di accordi, una sequenza di melodie, una sequenza di parole, una certa quantità di emozione. E non necessariamente in quest’ordine anche se, per me, la musica viene sempre, sempre per prima. La musica non può formarsi attorno alle parole, solo le parole possono formarsi attorno alla musica. Da dove trai l’ispirazione per scrivere? Da queste piccolissime stronzate che costituiscono la vita. Tutti i cazzo di piccoli frammenti che ogni tanto si ricompongono e in qualche modo finiscono per diventare dannatamente importanti. Chi o cosa ti influenza maggiormente? La gente che ha scritto, che ha creato e che si è autodistrutta. E’ rimarchevole il fatto che la tua musica sia così popolare in paesi europei di origini latine come la Spagna o l’Italia, soprattutto se si fa un paragone con la popolarità che hai nella tua terra natale. Pensi che ciò possa avere a che fare con il modo in cui la gente di questi paesi vive i sentimenti e le emozioni? Ricordo ai tempi della scuola quando la maestra guardandomi mi diceva: “La musica è l’unico linguaggio universale”. Non avevo proprio idea di ciò di cui stesse parlando, ma più mi addentro in quei territori strani e interessanti e più trovo vere le sue parole. Immagino che alcuni dei miei più grandi ascoltatori non abbiano la minima idea di ciò di cui io sto parlando ora. E’ una cosa interessante sulla quale provare a fare elucubrazioni. Una sofferta tensione verso un ideale assoluto di bellezza sembra attraversare come un’ossessione la tua musica: può esistere, secondo te, bellezza senza tormento? Sì, può esistere. Ma gli esseri umani sono ossessionati dal dolore, indipendentemente che si tratti del proprio o di quello altrui. Le atmosfere del tuo ultimo album, “And The Red Empire Orchestra”, sembrano essere meno oscure rispetto a quelle della tua precedente produzione. Si tratta solo di una questione di scelte stilistiche o questo fatto riflette anche un diverso stato d’animo, magari in relazione a eventi personali? Non potrei dire se si tratta dell’una o dell’altra cosa. Con “The Red Empire” non mi ero prefissato di creare un particolare tipo di album. Sapevo solo che volevo essere chiaro com’è chiaro il sole quando le giornate si allungano e volevo essere più “rigido” rispetto ai miei precedenti tentativi. Per fare un esempio, in passato ero capace di registrare, per una singola canzone, dieci parti diverse di chitarra… maledizione, forse anche quindici. Con “The Red Empire” volevo che ce ne fosse una sola. Pertanto quella unica parte di chitarra doveva essere davvero valida, perché non avrebbe potuto nascondersi dietro ad altre nove figlie di puttana. Non ci sarebbe stato un nascondiglio per nessuno strumento. Pensavo che questo potesse essere un concetto interessante. E a un certo punto eccolo là: “The Red Empire”. Ho lavorato davvero fottutamente duro su quel disco, sono stato seduto molte volte in una piccola stanza che puzzava di sudore mettendocela tutta per farlo venire bene, il bastardo. Chissà se ci sono riuscito o meno… lo vedremo quando mi rientreranno i proventi delle vendite… ah! L’avere un crescente riscontro tanto di critica quanto di pubblico comporta anche il fatto di ritrovarsi al centro dell’attenzione non solo quando si promuove un disco o quando si suona ai concerti, ma anche nella vita di tutti i giorni. In che misura tutto questo si adatta alla tua personalità? In altre parole: come ti relazioni con la popolarità? Non mi relaziono molto bene con la popolarità. E’ una cosa alla quale in realtà non voglio pensare. Ho la sensazione che il riconoscimento della propria popolarità possa solo portare a una eccessiva autoanalisi e dare alla persona un falso senso di cosa ha veramente valore al mondo. E io non potrei volere una cosa del genere… potrei mai? Non si può dire quanto tu valga nel mondo, secondo me, in base al numero di quelli che conoscono il tuo nome, al numero di persone che tirano fuori il tuo nome nei discorsi di tutti i giorni. Questo è ridicolo e stupido. Ciò che ci rende davvero importanti in questo mondo è quanto siamo stati bravi nello sconfiggere i demoni e quel che abbiamo di conseguenza imparato, quanto abbiamo trattato bene gli altri… ci sono veramente molte cose che pesano maggiormente del concetto, o del raggiungimento, della popolarità. In tutti i tuoi album hai sempre mostrato un notevole talento come polistrumentista, e in “The Red Empire Orchestra” ti sei addirittura cimentato in una mirabolante sequela di strumenti a tastiera: Hammond, melodica, pianoforte a coda e verticale, Wurlitzer, Fender Rhodes, tastiera elettrica e persino un pianoforte giocattolo. Qual è lo strumento che ti ha divertito di più suonare, fino ad oggi? Il pianoforte. I tasti sono tutti là semplicemente esposti perché tu li possa suonare. Non devi avere particolari conoscenze di accordi o di qualunque cosa che sia relativa alla parte teorica della musica, per quanto riguarda il piano. Io non ho mai avuto delle vere lezioni di pianoforte. Mi ero iscritto a delle lezioni all’Università, ma ho miseramente fallito, perché mi rifiutavo di esercitarmi. Diavolo, potevo scrivere canzoni… di cos’altro avevo bisogno? Crescendo… Mia nonna aveva un pianoforte, che adesso si trova qui a casa mia, e che suono quotidianamente. Ho ricordi di me che suonavo quell’affare, un anno dopo l’altro. Ho sempre voluto creare qualcosa. Ho sempre voluto muovere le cose con le mie mani. Ce n’è uno che vorresti sperimentare ma che non hai ancora avuto modo di provare? Il sitar. E qual è invece lo strumento che ti emoziona maggiormente? Il violoncello. E’ l’unico strumento, credo, davvero in grado di trasmettere reali emozioni umane. Non sono sicuro di come riesca a farlo, ma dev’essere per la vibrazione delle corde, o per il modo in cui il legno viene curvato e modellato. Non sono sicuro, ma in ogni caso ai miei occhi è veramente il più favoloso ed emozionante strumento che l’uomo abbia mai creato. Hai lavorato e ancora oggi lavori con numerosi musicisti, sia in sede di registrazione che durante i concerti. Quali sono le qualità che apprezzi maggiormente nei tuoi music-mates? L’onestà. La compassione. L’empatia. La passione. Senza queste cose, un maggior numero di persone morirebbe per la strada. Durante le registrazioni hai un approccio tendenzialmente solista o ti lasci influenzare in qualche misura dai musicisti con i quali lavori per quelle che saranno le scelte finali? Ascolto le persone. Non mi tappo le orecchie davanti alle idee o alle opinioni della gente, ma quando si arriva davvero al dunque, cerco di fare tutto da solo. Gli Earlies hanno avuto un ruolo enorme nell’aiutarmi a realizzare il mio primo album. Si sono occupati della maggior parte degli strumenti di accompagnamento, oltre che della chitarra, di parte del piano, dell’organo e della batteria. Sono stati dannatamente meravigliosi, e credo che insieme abbiamo fatto qualcosa di cui essere fieri, ma per quel che riguarda la scrittura dei brani, ovvero la spina dorsale di quei bastardi, avevo già registrato e scritto tutto a casa qui, ad Abilene, e un amico, Eric Bachmann, aveva scritto gli arrangiamenti di corno e archi. Poi, con quest’ultimo “The Red Empire”, ho avuto l’assistenza del mio amico T. Nicholas Phelps e di poche altre persone di fiducia. Con “The Red Empire” penso di aver ceduto la maggior quantità di potere di sempre, non tanto per gli arrangiamenti o la struttura delle canzoni, ma per come i brani suonano fisicamente. L’ho registrato insieme a John Congleton dei Paper Chase, tutta un’altra razza di tipo rispetto a quelli con cui avevo lavorato prima. Ma, ecco, per farla breve… comando io. Ah! Gli artisti che hanno partecipato alla realizzazione dei tuoi album sono raggruppati all’interno di ensemble dai nomi curiosi, che danno poi il titolo agli album stessi: “The Gospel Of Progress”, “The Opera Circuit”, “The Red Empire Orchestra”. Come è nata questa idea? E da dove originano i tre nomi di cui sopra? L’idea di intitolare gli album in questo modo mi è venuta un sacco di tempo prima che avessi la fortuna di firmare con una label. Ero all’Università in quel periodo e suonavo con un amico batterista. Avevo chiamato la nostra piccola organizzazione “MPH and The Opera Circuit”. Pensavo che fosse un nuovo interessante modo di affrontare un titolo e il nome di un gruppo. Comprendeva due aspetti: il titolo dell’album e il nome della band. Chiaramente già altri in passato avevano chiamato il proprio gruppo “Blahblah and the Blahblah’s”, ma non avevo mai visto quel nome cambiare insieme agli album. Mi sembra che questo approccio dia una diversa atmosfera a ciascun album e consenta di distinguere un album da tutte le altre registrazioni. Dà anche a ciascuna band una identità separata. Nel tuo ultimo tour europeo eri accompagnato da una formazione ristretta (solo Nicholas e tua moglie Ashley). Fino a che livello credi sia stato possibile ricreare quell’atmosfera che di solito c’è quando la tua band è al completo? Non ho più avuto una vera e propria band da quando, anni fa, ero in tour con gli Earlies, che mi facevano da backing band ogni sera. Dopodiché, si è sempre trattato di una diversa serie di tre o quattro persone in viaggio in ogni specifica occasione, e addirittura qualche volta mi sono arrangiato ad andare in giro da solo. So che suona ridicolo al giorno d’oggi, con tutti questi gruppi enormi e questa musica rumorosa. Lo confesso, la scelta è legata principalmente a una questione finanziaria. Siccome questa faccenda della musica è il mio lavoro a tempo pieno, devo in qualche modo essere capace di guadagnarci dei soldi, e andare in tour è chiaramente il modo migliore per farlo. Trovo che sia meglio tenersi una piccola band e pagarla bene, mantenendola ben nutrita, piuttosto che avere una band enorme dove ognuno è sottopagato rispetto a quello che vale. Inoltre penso che un piccolo gruppo unito sia d’aiuto per la salute mentale, quando si è in viaggio. E’ difficile mantenersi mentalmente equilibrati quando si è in viaggio, perciò è importante circondarsi di brave persone. Sono certo che chi viene ai concerti si aspetta una band enorme di quindici componenti, in grado di tirare fuori le stesse registrazioni fatte in studio, ma non è quello che riceveranno. Credo sia importante rimescolare le cose, dare alla gente qualcosa di diverso. Se la registrazione è stata fatta da un gruppo di dieci musicisti, la suonerò da solo. Se il brano è stato registrato in versione solista, ci metteremo dietro una parte imponente di batteria e qualche distorsione di Hammond e tutto ciò che ci sta bene. Quali sono le diverse emozioni che cerchi di scatenare nel pubblico quando sei sul palco? Alla fine, penso che il mio scopo sia quello di scatenare ogni tipo di reazione, perché ce ne sono molte da provocare. Se le ottieni tutte, avrai un miscuglio di cose differenti: gli alti e i bassi, le cose buone e le cattive, quelle meravigliose e quelle brutte. Trovo che questa sia una gran bella cosa. In alcune date dei tuoi tour ti capita di suonare davanti a poco più di cinquanta persone (comunque entusiaste). Credi che valga la pena farlo? La critica è sempre piuttosto attenta e positiva, ma spesso il pubblico sta alla larga da concerti “di nicchia”... Ne vale sempre la pena. Ho suonato anche per meno di cinquanta persone. Trovo incredibile che ci siano cinquanta persone in un paese in cui raramente sono stato, in una cittadina di cui non ho mai sentito parlare. E’ uno spettacolo da vedere. E’ roba come questa che mi scalda dentro. Sono cose come queste che fanno sì che ne valga la pena. Suonare la musica che mi sta a cuore per quelle anime che sono lì per ascoltarla. Incredibile. Dal vivo a volte sembra che tu ti ponga in modo totalmente diverso rispetto a quanto fai su disco, come se sul palco ci fosse un altro Micah, più aggressivo… E’ facile essere confinati dietro a un microfono o in una registrazione. C’è solo una certa quantità di spazio. Dal vivo trovo che ci sia più spazio vitale, più posto per girovagare, più energia per creare, più atomi che vibrano nell’aria, più tutto. Suppongo che quel che faccio dal vivo sia solo un po’ più esplosivo rispetto alle mie registrazioni. Come vivi il rapporto con il pubblico, quando sei sul palco? Trovo che il pubblico sia una cosa strana. Non lo considero come una serie di singoli volti che mi fissano di rimando, ma come una massa ondeggiante. Un organismo. E qualche volta può essere felice insieme a te, e qualche volta può essere arrabbiato con te. E quando è arrabbiato con te… quella può essere la volta migliore. E’ chiaro che la tua vita si riflette nelle tue canzoni. Ma guardandole invece da un punto di vista cronologico, pensi che ci sia una corrispondenza con le diverse fasi della tua vita? Le canzoni su ciascun album non sono state tutte scritte proprio per l’album dove poi sono finite. Alcune di esse risalgono a quando avevo sedici o quindici anni… e poi altre sono state scritte settimane prima che i dischi venissero completati. La vita tende a muoversi in modo circolare, perciò cose che erano vere dieci anni fa possono ancora suonare vere oggi. Sebbene le parole cambino di significato. Sebbene le canzoni si trasformino qui e là. Ma alla fine posso guardare ciascuna delle copertine dei miei album e percepire da ognuna di loro una certa sensazione, una certa energia, perciò sì, suppongo che rappresentino davvero tutti quei capitoli. Quali sono i tuoi progetti musicali più imminenti? Ho appena finito un album di cover per la mia label inglese, la Full Time Hobby Records. Contiene prevalentemente canzoni vecchie, di artisti folk come Patsy Cline, Leadbelly, John Denver, Santo & Johnny, Roy Orbison, i Lovin’ Spoonful eccetera. L’ho registrato con un mio vecchio amico a Dallas, in Texas, in un posto chiamato Tomcat Studios. Dovrebbe uscire appena prima che l’estate ci sferzi il viso. Ho pure lavorato con il mio amico T. Nicholas Phelps a un side-project chiamato “Broken Arrows”. Abbiamo lavorato piuttosto duramente su questo progetto e, se tutto va bene, convinceremo qualcuno a pubblicarlo a breve – dita incrociate. Finora questa è la cosa più rumorosa e più strana che io abbia mai fatto. Forse sto soltanto tenendo qualche demone in esercizio. Ho anche registrato un set di tre Ep con la mia etichetta spagnola, la Houston Party Records. Ne sono usciti due, finora, e ho recentemente finito il terzo con l’aiuto di T. Nicholas Phelps. Sono tutte registrazioni in presa diretta, dei live in studio che includono voce, chitarra acustica e banjo. Non so esattamente quando uscirà l’ultimo, ma una volta che saranno stati pubblicati tutti e tre, ho intenzione di registrarli di nuovo per intero, quei bastardi, di impastarli tutti insieme, di comandarli a bacchetta e quindi di far uscire in tutto il mondo un full-length del prodotto finito. Dopo di che, credo che inizierò a lavorare per un nuovo full-length e farò di tutto pur di farlo uscire per l’inverno del 2010. Ma ecco, questo è quanto… Parliamo degli artwork. I ritratti di donna che si ritrovano nei booklet dei tuoi album sono tutti opera della macchina fotografica di Micah P. Hinson. Come e quando è nata la tua passione per la fotografia? Credo di aver sempre trovato le fotografie affascinanti: l’idea della vita che viene rubata su un pezzo di carta con l’aiuto di qualche strana macchina. Ho preso lezioni di fotografia alle scuole superiori e a volte lasciavo il Campus con la mia macchina per andarmene a fare foto alle cose che incrociavo per strada, fumando erba scadente e sigarette... Ecco quando ho iniziato. Per le scritte presenti sui tuoi album utilizzi sempre lo stesso font “da macchina da scrivere”, che insieme alle tinte dark dei digipack e alle fotografie in bianco e nero di figure femminili rappresenta oggi una specie di leitmotiv della produzione a firma Micah P. Hinson, donando agli album una cupa sensualità e un’eleganza “d'altri tempi”. C’è un legame (voluto) tra le scelte grafiche nei tuoi album e le atmosfere che vi si respirano? Limitatamente alle cover art, per me è necessario che le cose vadano di pari passo e che abbiano un tema o un’idea che da dietro spinga tutto. Non direi che esiste un legame tra le canzoni degli album e le cover, chiaramente, poiché non tutte le mie canzoni parlano di donne o di scene in bianco e nero. Volevo solo qualcosa che fosse così stranamente oscuro come mi sentivo io nei miei brani. Inoltre, il “font” da macchina da scrivere che uso non è affatto un “font”. In ciascun album ho utilizzato una diversa macchina da scrivere trovata qui nei negozi di usato di Abilene. La prima è stata una vecchia Royal del 1930, la successiva era una Remmington degli anni 50, e così via. Le conservo ancora tutte, lì a prendere spazio e polvere nel mio garage. Scrivo ancora quotidianamente sulla mia Remmington, però. Giuro che il nastro deve avere più di quarant’anni, ma sembra non volersi asciugare mai. Mi è stata data dal mio defunto nonno, L.J. Nichols, che riposi in pace. Spero che la Remmington possa vivere in eterno. E’ una bella macchina, fatta quando la gente ci metteva ancora della cura. Come inquadreresti, in quest’ottica, “The Baby & The Satellite”? Questo album e i tre Ep spagnoli non rientrano, per me, nella stessa categoria dei full-length veri e propri. Sono cose a parte. Cose che voglio far sentire, ma che non si adattano alle mie idee per gli Lp. Rappresentano un modo per potermi esprimere e per mostrare un aspetto diverso di me stesso. Il noir con le donne in bianco e nero è riservato solo ai miei full-length e ai singoli presi da quegli album. Il noto fotografo americano Paul Strand parlando del suo lavoro ha detto: “Your photography is a record of your living, for anyone who really sees.” Sei d’accordo? Ti sentiresti di trasporre questa sua affermazione anche alla musica e a tutta l’arte in generale? Penso che tutto quello che una persona fa sia una registrazione della sua vita, sia che faccia foto o che metta in posa mattoni, che aggiunga numeri di telefono o che prenda chiamate, che scriva canzoni o che guidi camion o che consegni cibo da asporto… solo che viviamo o sembriamo vivere in una società globale che non si erge a difesa dell’essere umano comune, dell’uomo, della donna o del bambino comune. Tutti noi selezioniamo pochi individui che teniamo nella più alta considerazione, non riuscendo a capire che ciascuno di noi ha caratteristiche di gran lunga superiori a quelle cui diamo la precedenza. L’ultima domanda è una specie di “domanda aperta”: c’è qualcosa che non ti abbiamo chiesto ma che vorresti comunque condividere con noi e con i lettori? Ho due cani, Bandini e Totiana. Sembrano due piccoli orsi e si azzuffano come se lo fossero. (15/04/2009) Questa intervista, nella sua versione inglese e in una versione olandese, è pubblicata anche sul sito Stilllife. Un ringraziamento speciale va a Patrick Kuiper, senza il quale realizzarla non sarebbe stato possibile. |
Micah P. Hinson And The Gospel Of Progress(Sketchbook, 2004) | 7,5 | |
The Baby And The Satellite(Sketchbook, 2005) | 6,5 | |
Micah P. Hinson And The Opera Circuit(Sketchbook, 2006) | 7,5 | |
A Dream Of Her(Ep, Houston Party, 2007) | 7 | |
The Surrendering(Ep, Houston Party, 2008) | 6,5 | |
Micah P. Hinson And The Red Empire Orchestra(Full Time Hobby, 2008) | 7,5 | |
All Dressed Up And Smelling Of Strangers(Full Time Hobby, 2009) | 6 | |
Micah P. Hinson And The Pioneer Saboteurs(Full Time Hobby, 2010) | 6,5 | |
Micah P. Hinson And The Junior Arts Collective(Sindedin, 2012) | 6 | |
Wishing For A Christmas Miracle With The Micah P. Hinson Family(Ep, Yellow Bird, 2013) | 6 | |
Micah P. Hinson And The Nothing(Talitres, 2014) | 7 | |
Micah P. Hinson Presents The Holy Strangers(Full Time Hobby, 2017) | 7,5 | |
When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You(Full Time Hobby, 2018) | 7,5 | |
I Lie To You(Ponderosa, 2022) | 7 |
Beneath The Rose (da The Gospel Of Progress , 2004) | |
Stand In My Way (live, da The Gospel Of Progress , 2004) | |
Yard Of Blonde Girls (Jeff Buckley) (da Dream Brother: The Songs Of Tim And Jeff Buckley , 2005) | |
Diggin' A Grave (live, da The Opera Circuit , 2006) | |
Tell Me It Ain't So (live, da The Red Empire Orchestra , 2008) | |
Are You Lonesome Tonight? (live, da All Dressed Up And Smelling Of Strangers, 2009) | |
Take Off That Dress For Me (live, da The Pioneer Saboteurs, 2010) | |
Oh, Spaceman (live, da The Holy Strangers, 2017) |
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