Finisce una giornata di lavoro a Napoli e ci vuole qualcosa di fresco per darsi un tono. Un’affollata sera a Piazza San Domenico Maggiore (noto luogo di raduno della gioventù partenopea), un tavolino di un bar, una serata calda ma non troppo. Se fossero solo questi gli ingredienti della bevanda che cerco (e dell’intervista che segue) ne verrebbe fuori un cocktail analcolico; mancano esattamente tre dita di rhum bianco. Ed ecco, infatti, che arriva Nino Bruno. Tracciarne la biografia sarebbe impossibile anche per uno scrittore esperto: artista musicale sulla scena napoletana sin dall’adolescenza, collaborazioni con diversi settori dell’arte, un’apertura mentale che non vede limiti. Nessun cliché sulla napoletanità mette i paraocchi a Nino che, dopo quattro dischi, una colonna sonora originale e persino la splendida “Every Single Moment In My Life Is a Weary Wait” scritta per il film “This Must Be The Place”, espande la formazione dei suoi Le 8 Tracce con due nuovi membri: Massimiliano Sacchi e Zaira Zigante (ex-Almamegretta). La line-up riformata pubblica dunque un nuovo Ep dal titolo “Ehi Dei”, in vista di un’apertura verso nuovi orizzonti e in attesa di un prossimo Lp.
Piuttosto che chiederti in prima istanza chi è Nino Bruno, ti chiedo: cosa rende Nino Bruno ciò che è? Qual è la caratteristica che ti rende unico?
Parto sempre da qualcosa di mio. Una certa capacità di entusiasmarmi per molte cose, per ascolti vecchi e nuovi, per qualcosa di storico e per un ragazzo che mi fa sentire la sua ultima registrazione. Letteralmente disponibilità all’entusiasmo.
Parlando della tua storia personale. Da dove inizia Nino Bruno come artista?
Comincia con un gruppo che si chiamavano Terrapin, come il brano di Syd Barrett, e in quegli anni facevo una sorta di wave con cenni psichedelici del primissimo Barrett. Questo mix era molto diverso da quello che ho realizzato successivamente, tuttavia resta un’esperienza molto coraggiosa.
Quanti anni avevi?
Tra i 16 e i 19 anni. C’era una buona dose di follia, di ingenuità; resta, però, un punto di partenza bello, un ricordo prezioso.
A quell’età quali erano i dischi di cui non potevi fare a meno?
Ho sempre ascoltato poca roba. Lo ammetto, sono un pessimo ascoltatore. Ascoltavo Pink Floyd, Rolling Stones, a un certo punto anche David Bowie, che sembrava un artista che poteva consentirmi di comunicare con i giovani della mia epoca, dal momento che era molto in voga ed era molto imitato dai gruppi. Un artista che ascoltavo tantissimo era Robyn Hitchcock, questo lo ricordo benissimo (ride). Un disco in particolare “I Often Dream Of Trains” del 1984, e penso che sia uno dei più belli che abbia mai sentito.
Sei più un tipo da ascolto domestico o da concerto?
Sicuramente domestico! E soprattutto quando cercavo di ascoltare alcuni generi nei locali, mi rendevo conto che non c'entravano niente in quei contesti.
Parliamo un po’ di “Ehi Dei”. Vorrei comprendere com’è nato, come mai l’idea di tornare così indietro nel tempo.
I pezzi di “Ehi Dei” sono quattro. Due di questi facevano parte della sonorizzazione de “L’Odissea”, un film muto del 1911 per cui abbiamo re-editato questa colonna sonora. Un’esperienza importante, anche perché è stata la prima volta che abbiamo messo in campo questa nuova formazione a cinque elementi. Difatti, in passato eravamo sempre in tre, con occasionali collaborazioni; dopodiché abbiamo cominciato a suonare in questo modo in maniera stabile e si è formato un nuovo “insieme”. “Ehi Dei” è in realtà la voce di Calipso, costretta dagli Dei a lasciar partire Ulisse, e “Itaca (Bagno di Sangue)” quando l’eroe epico torna alla sua terra. “Flow My Tears” è un brano che facevamo con Massimiliano Sacchi per un progetto parallelo di Gabriele Frasca che si chiama “Nei Molti Mondi”, vicino alla letteratura di Philip K. Dick, e poi abbiamo recuperato con la nuova formazione de Le 8 Tracce. Inoltre, io, Luigi Rubino e Zaira abbiamo proposto “Flow My Tears” anche in un ciclo di esibizioni in Cina, così è nata l’idea di fare questo disco e includere senz’altro indugio il brano.
Poi abbiamo deciso di fare qualcosa più breve, a differenza del precedente “Cuore Deserto”.
In “Ehi Dei” ho sentito un suono differente dai dischi precedenti. Ci sono passaggi quasi classicheggianti, momenti di sinfonie medievali, persino qualche suono che ricorda i Reinassance o certi King Crimson. Come mai questo cambiamento?
È cambiato il progetto. Noi prima appartenevamo rigidamente al “Dogma 8”, sottolineando questo fatto di lavorare solo su 8 tracce, solo in analogico. È ancora sostanzialmente così, ma non insistiamo più a riguardo, ponendo l’accento sul confronto tra la musica di ieri e quella di oggi. Adesso puntiamo a fare altre cose. Quindi adesso si viaggia nel tempo: avanti, indietro; non c’è più la voglia di stare fissi su una cosa. La navicella ha lasciato il pianeta (dice scherzosamente). Poi ci sono quei suoni, come quello del beat, che per me è sempre stato un suono più che un genere, che restano nel sangue della formazione. Il nostro è un po’ un what if musicale: cosa sarebbe successo se… Tutto fosse andato in un’altra direzione?
Il progetto con Le 8 Tracce quando nasce esattamente? Attraverso collaborazioni in studio o vi siete conosciuti sui palchi? Come poi vi trasformate in quintetto?
In realtà, la prima formazione è nata con Luigi Rubino e Giovanni Chianese, era questo il trio iniziale. Poi Luigi e Giovanni vanno via ed entrano Peppe Sabbatino e Giulio Fazio con un breve interludio con Angelo Beneduce e Roberto Vacca. Tutto è partito dalle prove.
Tra i nuovi membri c’è anche una voce femminile, cioè Zaira Zigante, molto presente in “Ehi Dei”. Prevedi che questa formazione resterà stabilmente con lei alla voce?
La formazione è sicuramente stabile, Zaira è anche polistrumentista, quindi validissima risorsa per la band. Sicuramente in futuro preferirò delle formazioni allargate. Certo, la voce femminile offre diverse ottave, ma non sono per una differenziazione di genere in ambito musicale. “Calipso”, oltretutto, è un brano fatto per lei. Già c’era nella colonna sonora per “L’Odissea”.
Dopo “Ehi Dei” prevedi anche un Lp, qualcosa di più esteso?
Certamente è in programma, spero di non impiegare troppo. Anzi lo voglio al più presto!
La tua partecipazione alle colonne sonore di alcune pellicole di Paolo Sorrentino è storia nota ormai. Cominciamo col parlare di altre tue colonne sonore.
La cosa più bella che ho curato è sicuramente la soundtrack di “Posidonia” di Marcello Anselmo, un documentario sui fondali napoletani. In quel caso ho avuto la possibilità di realizzare l’intera colonna sonora, da cui è stato tratto anche un disco omonimo, e sono molto fiero del risultato di quel lavoro. In quel caso si è scelto di produrre brani solo strumentali, molto ambient. Sono andato allo scheletro del discorso. Usare quei suoni, quella strumentazione entro i limiti della colonna sonora che la pellicola richiedeva. L’idea era di svelare l’essenziale e la struttura dietro i dischi di canzoni più canoniche.
Quando devi comporre una colonna sonora originale, preferisci vedere il film e comporre i brani, oppure farti una tua idea della tematica e poi lavorare separatamente in studio?
Sia nel caso di “This Must Be The Place” che in quello di “Posidonia”, sono partito dalle parole. Nel primo ho cominciato a comporre dalle parole che Paolo mi ha detto al telefono, nel secondo ho preso spunto da un soggetto che Marcello mi fece avere. Le parole mi hanno principalmente guidato. Naturalmente, prendendo visione delle prime immagini di “Posidonia”, ad esempio, sono intervenuto e ho potuto modificare alcuni passaggi. Io sono dell’opinione che la musica debba abbracciare da lontano un film, non deve commentare le immagini o risultare didascalica, e così fu per “Posidonia”.
La collaborazione con Sorrentino fu qualcosa che ti aspettavi?
No, a dire il vero fu abbastanza improvvisa. Non ci sentivamo da alcuni anni. Mi chiamò e discorrendo scegliemmo cosa inserire in “This Must Be The Place”. Avevamo già collaborato in passato durante i suoi primi cortometraggi e ne “L’Uomo In Più”.
Quali influenze dalla musica italiana senti più vicine al tuo sound?
Devo essere sincero, influenze italiane non ce ne sono mai state. Ma nemmeno influenze vere e proprie. Nel senso che le influenze sono radicate nel mio passato musicale. Non vado a pensare a qualche artista particolare che voglio riprodurre né tantomeno mi muovo sentendo quel che succede attorno a me e cercando di adeguarmi. Non è che non guardo, anzi sento, ma non lo faccio per emulare. Se voglio integrare qualcosa, preferisco collaborare. Per me una costante, invece, rimane il beat, quello italiano, che paradossalmente è più particolare e unico di quello inglese. Il beat, quello italiano e francese su tutti, aveva un suono peculiare che per me è l’influenza principale; non la canzone o l’album, ma un suono generalmente adottato in quel cosmo che è il beat.
Però c’è anche Syd Barrett.
Sì, quello sin da giovane però! Quella è una piccola malattia, la barrettite (ride). All’epoca di “Cane Telepate” si sentiva ancora molto. Da “Sei Corvi Contro Il Sole” in poi già scompare. Nel primo Ep ci sono anche due citazioni che alludono a “See Emily Play” e “Pow R. Toc H.”.
Un’ultima domanda. Se potessi ripartire da zero e percorrere un’altra via della creazione musicale, cosa ti piacerebbe fare?
Avendo il tempo e le possibilità, mi piacerebbe fare tantissime cose. Parlando per assurdo, direi un collettivo di musicisti e autori di testi in cui lavorare insieme creando liberamente. Un vero e proprio insieme di una decina di persone, con tre o quattro cantautori, musicisti che si esercitano tutto il giorno, che possano convivere in uno spazio lontano dal caos, dove le etichette di genere musicale scompaiano completamente.