Satellites - In orbita attorno alla musica

intervista di Mattia Villa

Uno dei progetti che più ci ha coinvolto e affascinato negli ultimi anni è quello che risponde al nome di Satellites, moniker dietro al quale si cela il musicista britannico con base a Copenhagen Johnny Vic. Lo abbiamo contattato per farci raccontare qualcosa di più su di lui, sulla sua musica e sul futuro di Satellites.

Ciao Johnny! Grazie per il tempo che ci stai dedicando. “01” e “02” sono stati un sottofondo costante per me negli ultimi anni. Vorrei però cominciare dal principio della tua storia, perché non molte persone qui in Italia ti conoscono veramente. Con la tua prima band, i Budapest, hai pubblicato alcuni dischi e un paio di piccole hit. Quali sono i tuoi ricordi di quei tempi?
Provo dei sentimenti contrastanti veramente. Ho avuto dei momenti pessimi con il management e l’etichetta di allora; inoltre il gruppo subì alcune brutte battute d’arresto, in particolare quando il chitarrista si suicidò poche settimane dopo aver concluso il primo album. Quindi sfortunatamente il ricordo principale non è proprio ottimo. Ma ci sono stati anche momenti fantastici. Ricordo con piacere tutto quello che è collegato alla musica, come le migliaia di persone che cantavano con me al Benicassim Festival in Spagna, quando avevamo una hit in top 10. Un momento fantastico. E ascoltare il disco nella sua interezza per la prima volta attraverso i gigantesci altoparlanti del Real World Studios... non lo dimenticherò mai.

Dopo quell’esperienza, ti sei dato alla carriera solista. Sono arrivati un altro paio di dischi, ma poi sei diventato padre. E’ stata quella la molla che ti ha spinto a concepire Satellites giusto?

Sì al 100%. Registrai due album con il mio vero nome, quando mi trasferii a New York dopo lo scioglimento dei Budapest. Nonostante fossi davvero orgoglioso di quei lavori, stavo ancora cercando la mia voce e me stesso a New York. Diventare padre ha fatto scattare dentro di me un interruttore che nemmeno pensavo di possedere. Non appena ho smesso di cercare di compiacere le altre persone e ho cominciato a fare la musica che volevo davvero fare, attraverso un nuovo punto di vista, quello di un padre, del mondo in cui viviamo, tutto è sembrato mettersi a posto e Satellites è nato. Ho letteralmente scritto “In A City”, la prima canzone del primo album, il giorno successivo alla nascita di mio figlio.

Hai detto che volevi un progetto che fosse “senza volto e anonimo, per mettere la musica al centro”. Credo che ti sia riuscito bene. “01” era davvero tutta una questione di musica e basta. Hai mai pensato che, usando la tua vera idendità, avresti potuto avere una spinta maggiore? Hai qualche rimpianto a riguardo?

Sono felice del modo in cui sono andate le cose e credo fosse la decisione giusta. Si considera fin troppo la persona e la sua personalità, quando invece quest’ultima non dovrebbe influenzare se la musica è effettivamente buona o no. Inevitabilmente, quando le gente è entrata in contatto con Satellites, ha voluto anche saperne di più sulla persona che ci cela dietro (che in realtà era il piano fin dall’inizio). Non volevo necessariamente nascondermi. Volevo solo che la prima impressione scaturisse unicamente dalla musica e non da altro. Ora, con la pubblicazione del secondo disco, mi aspetto che la gente voglia conoscere più cose su di me e a me sta bene. Spero solo che la gente non resti troppo delusa!

Ai tempi di “01” scrissi che era possibile trovare al suo interno grosse influenze da parte dei National e dalla new wave britannica. Hai registrato una cover di “The Model” dei Kraftwerk successivamente, ma non hai mai nominato i National. Sei in qualche modo legato anche a loro o è solo frutto della mia immaginazione?
Amo i National e sì, canto nello stesso registro di Matt Berninger, quindi il paragone era un po’ indotto. Ma è stata più una cosa inconscia. Sono sempre stato un grande fan di Scott Walker, dei Talk Talk e dei Radiohead. Le mie radici sono maggiormente rintracciabili lì rispetto che nei National. Ma ogni paragone con loro lo capisco e lo prendo come un complimento.

Penso che “01” sia un album sulla nostagia di casa e sulla lontananza dai propri cari. Si avverte un certo senso di smarrimento al suo interno. Ho ragione?

Hai pienamente ragione. Mi sono trasferito a Copenhagen non appena ho saputo che sarei diventato padre, quindi stare in una città senza parlarne la lingua, da fresco papà lontano da casa e senza nessuno dei miei familiari o amici vicino, mi ha reso molto nostalgico. Dopo circa 6 mesi sono partito per un tour mondiale assieme a James Blunt, lasciando quel briciolo di stabilità che ero riusciuto a creare. Provavo un vivo senso di isolamento. E a quel punto ho iniziato a registrare “01”.



La Rough Trade ti ha dato una spinta sin dall’inizio. Com’è accaduto?
La Rough Trade è stata fantastica e il suo supporto costante. E’ stato il mio manager che ha proposto la mia musica a loro e da allora mi appoggiano. Credo che “abbiano capito” immediatamente. E’ stato incredibilmente importante per me. Specialmente per “01” quando, escludendo amici, famiglia e il mio manager, sono stati le prime persone ad ascoltarlo e il loro sostegno mi ha aiutato a capire che ero sulla strada giusta.

“02” è arrivato un anno dopo e, parafrasando una tua canzone, è qualcosa di più grande. Ha un suono più imponente, come se tu avessi trovato una certa stabilità nella tua vita. Ricordi niente di particolare del periodo in cui l’hai registrato?
Non ho mai smesso di scrivere tra “01” e “02”, quindi arriva dallo stesso bacino d’ispirazione. I testi sono leggermente più schietti. Stavo registrando “02” mentre “01” era fuori e i buoni riscontri ricevuti, non solo dalla stampa, mi hanno dato una fiducia che credo si possa sentire nel disco. Canto in modo più aperto e ho sperimentato un po’ di più musicalmente. Volevo mettermi alla prova da questo punto di vista. Espandere il paesaggio musicale senza perderne il valore principale. Da un punto di vista personale, credo che “02” rifletta il fatto che stavo iniziando a comprende il mio essere padre e che mi ero ormai sistemato a Copenhagen.

Ad alcuni mesi dalla sua pubblicazione, ora “02” ha una distribuzione mondiale. Significa che presto ci sarà un tour come Satellites?
Lo spero, sì. Stiamo parlando con alcuni agenti della possibilità di fare un po’ di date in Europa il prossimo anno. Non esiste nulla che preferire al fatto di andare là fuori e suonare.

A proposito di tour, tu suoni il basso per James Blunt nella sua live band. Ora sei coinvolto in un tour mondiale e stai calcando palchi enormi. Hai suonato anche in “Run” di Leonna Lewis. Non riesco a immaginare due artisti musicalmente più distanti da te. Come metti in relazione queste cose al tuo essere un musicista indipendente?
Dopo molti anni come musicista precario, combattendo tra serate open-mic e facendo il busker per strada, guadagnarsi da vivere suonando musica di qualsiasi genere è una cosa che non do per scontata. Sono in una posizione molto fortunata nella quale riesco a suonare per pagare i conti. Ricordo gli anni dei Budapest, quando dovevo fare il busker fino all’una di notte a Stratford Upon Avon per poter pagare l’affitto alle nove del mattino successivo e quindi non mangiare per i due giorni successivi. Non voglio che succeda ancora e sicuramente non voglio quello per mio figlio. Molte persone che conosco, con il loro progetto musicale, non hanno il lusso di poter fare della musica la loro fonte di reddito. Non ci sono più soldi nel music business, dove un artista underground può provvedere per la propria famiglia. Non è giusto, ma è la realtà. Suonare per altri artisti è quello che devo fare per poter essere in grado poi di creare la mia musica. Per ora almeno.

Hai iniziato a tenere un blog, dove condividi i tuoi pensieri mentre sei in giro per il mondo. Da lì ho scoperto che “03” è praticamente pronto. Puoi darci un’anteprima sulla direzione che sta prendendo? Ho visto che stai registrando praticamente ovunque…
Sì, “03” è registrato. Lo sto missando mentre stiamo parlando. E’ un disco davvero audace. Anche in questo caso, non si piega alle regole del music business. E’ l’album che volevo fare e, se devo essere sincero, l’album che ho sempre desiderato fare. Contiene elementi sia da “01” che da “02”, ma in dosi più alte. Veri fiati, veri archi, pianoforti, chitarre etc… L’ho scritto durante i due mesi in cui sono stato a Los Angeles lo scorso anno. Ho trovato la città incredibilmente d’ispirazione e la disperazione, la mentalità da “ultima spiaggia” della maggior parte delle persone ha aggiunto una speciale, unica energia al posto che già di per sé ho trovato affascinante. A differenza delle altre professioni, per farcela nel mondo del music business, non devi essere per forza il migliore nel tuo campo. Quindi il mendicante per strada o il tipo vestito da Spiderman che si fa scattare foto per soldi sull’Hollywood Boulevard possono in realtà essere bravi uguale, se non migliori, delle persone che vediamo in tv o sui giornali. Avere LA come tema ha messo di più a fuoco i testi rispetto agli altri due album. Ho registrato le basi principali delle canzoni, le batterie, il piano ecc. in Inghilterra. E poi ho registrato il resto sul mio laptop, mentre ero in tour con James Blunt in giro per il mondo. Ho viaggiato con il mio studio mobile e l’ho montato ogni giorno, ovunque fossi.

Qual è la tua canzone preferita di Satellites? E perché?
"Railway Line” è la mia preferita. Musicalmente è ben fatta per me; ha elementi di tutto ciò che mi piace. Inoltre evidenzia il momento nella mia scrittura quando mi sono lasciato il passato alle spalle e il nuovo Johnny è emerso. Lo percepivo già mentre la scrivevo. E mentre la registravo. E mi viene la pelle d’oca tuttora, ogni volta che l’ascolto.

Grazie davvero Johnny. Ti auguro il meglio per il futuro.
Quando vuoi! E ancora grazie per il vostro sostegno.



Discografia

LP
01 (Vesterbrother, 2012)7
02 (Vesterbrother, 2013)7.5
EP
Istedgade (Vesterbrother, 2014)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Neon Sun
(videoclip, 2014)

Saint Saviour: This Is All That There Is
(videoclip da 02, 2013)

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