Thomas Cohen ha solo 25 anni, ma la storia della sua vita sembra già quella di un navigato songwriter di altri tempi: una fulminea carriera da leader di una band, gli S.C.U.M., sulla cresta dell’hype alla fine degli anni Zero, e una vicenda personale in cui amore, tossicodipendenza e stampa scandalistica si intrecciano fino al finale più tragico. Una storia d’amore e morte che il giovane londinese racconta nel suo esordio solista, “Bloom Forever”, in uscita per Stolen Recordings, con il desiderio che rimanga nel cono d’ombra una volta che i riflettori si siano accesi sulla sua musica.
Ci incontriamo a Milano, seduti ai tavolini di uno dei locali più frequentati della città, all’ora dell’aperitivo.
Sei a Milano per un servizio fotografico di moda e vorrei iniziare parlando un po’ della tua immagine: ti capita spesso di lavorare come modello o è la prima volta?
No, non è la prima volta. Fare il musicista significa trovarsi in una strana terra di nessuno, perché ovviamente non sei un modello ma alla fine ti trovi a fare queste cose nel mondo della moda, che a volte sono ok, altre hanno meno senso, sta a te scegliere. Ma non ho mai voluto fare il modello, davvero. Mi piacciono molto i vestiti, ma non mi molto a mio agio con il lato fashion.
Però hai molto stile, la tua immagine è molto riconoscibile, quanto è importante questo aspetto per te? È qualcosa che ti definisce o solo una cosa che piace?
È una cosa abbastanza inconscia, certamente non qualcosa di cui mi preoccupi particolarmente. Non mi sforzo, non credo che sia più importante per me che per qualsiasi altra persona, ma è una cosa che mi diverte.
Parliamo di “Bloom Forever”. Quando ho scoperto che la tracklist era ordinata cronologicamente, la prima cosa a cui ho pensato è stata “Boyhood”, il film di Richard Linklater, che ritrae la trasformazione di un bambino in un uomo. È qualcosa che anche tu hai cercato di fare con il tuo disco?
Ah sì… non mi è piaciuto quel film! Tutti quelli che conosco l’hanno adorato, persino i miei genitori, che non vanno mai al cinema – mio padre mi ha detto: “Corri a vederlo che ti piacerà un sacco, ci ha ricordato te così tanto”. Ma a me non è piaciuto. Credo che l’ordine cronologico renda [l’album] più cinematografico, e che, volendo, ascoltandolo bene si possa seguire una specie di storia, ma non ha un riferimento diretto al film.
No, certo, mi riferivo al far trasparire dalle tracce una rappresentazione della tua crescita.
Ah sì, ok. Credo di sì. Mi chiedo solo se ci sia effettivamente stata una maturazione e una crescita. Ma credo proprio di sì.
Sì, anche io. I temi e l’approccio che hai scelto per il tuo disco non sono inusuali per un cantautore, soprattutto sapendo a chi ti sei ispirato. A volte una scrittura di questo genere serve come terapia per elaborare ciò che accade. È anche il tuo caso?
Sì, decisamente. E credo sia una cosa che si sta leggermente perdendo tra i musicisti che non lavorano da soli. Scrivere musica da solo i ti permette di esplorare sfaccettature che non prenderesti in considerazione quando si è in un gruppo, una band è una forma di socialità.
Come scrivi le tue canzoni?
Ho scritto 7 pezzi alla chitarra, uno al piano e uno in un sogno.
Arriva prima la musica, quindi?
Sì, tende a essere così. Di solito è la musica a nascere per prima e, subito dopo che ho finito con la melodia, i testi arrivano velocemente e in modo naturale. E non ho proprio dovuto far fatica per scrivere i testi di questo disco.
Nella presentazione di “Bloom Forever” dichiari che ti darebbe molto fastidio che la gente ascoltasse l’album e pensasse solo a te. Non credo di essere d’accordo con questa frase, perché se penso a uno dei nomi che citi come tua ispirazione, Van Morrison, “Astral Weeks” è impossibile da scindere da lui e dalla sua vita. Perché la tua affermazione?
Perché, anche per quanto riguarda “Astral Weeks”, quello a cui tengo è la mia relazione con quell’Lp, non la vita di Van Morrison nel 1968. Ciò che intendo con quella frase riguarda più la percezione di me che non quello di cui canto nel disco, dei testi e della musica. È inevitabile che la gente risponda con i propri pensieri e la propria esperienza alla musica, se la si ascolta seriamente. Semplicemente non vorrei che la percezione che le persone hanno di me in primis sia quella.
Te lo chiedo, perché non vivendo in Gran Bretagna, prima di preparare quest’intervista non avevo idea della mole di stampa scandalistica che esce su di te ogni giorno. Su Google, i risultati sono quasi solo articoli di tabloid… Forse hai paura che questo aspetto metta in ombra la tua carriera musicale?
No, non ho paura. Non significa essere spaventato non volere che le persone pensino solo a quell’aspetto. Però, proprio perché tutto ciò qui non esiste, non vedo l’ora di andare in tour in Europa, di avere date in Europa, perché è tutto più puro e lo adoro.
In contrasto con questo sovraffollamento, tu non hai una forte presenza online. Non hai un sito, trovare la tua musica è difficile. È una reazione, non ti interessa?
No, è solo che ho appena iniziato come musicista, spero che cambi in futuro! Per ora ho pubblicato solo due canzoni, l’album non è ancora uscito, dopo sarà diverso. Non è una cosa voluta. Vorrei avere accesso a tutte le risorse musicali che ci sono.
Ti sei trasferito in Islanda per un po’, mentre lavoravi al disco. Perché proprio lì?
Perché il mio produttore è islandese, e anche i musicisti che hanno suonato nell’album; lavoravamo a Londra e abbiamo calcolato che ci sarebbe costato 65€ al giorno in più [che] farlo in Islanda, quindi ci è sembrato scontato. Poi era una casa-studio. Non ero mai stato a Reykjavik prima, è grossa più o meno quanto questa strada, nella strada secondaria ci sono un bar e una chiesa e basta. Poi sei circondato dall’oceano, dalle montagne, nevica quasi tutti i mesi, quindi mi è sembrato il posto perfetto.
Perché, sai, conoscendo le tue intenzioni cantautoriali e avendo sentito l’album, uno si sarebbe aspettato Laurel Canyon o Nashville…
Mi sarebbe piaciuto tantissimo, ma non è stato possibile. Ma metà dell’Islanda assomiglia talmente tanto al suolo americano, credimi! Siamo atterrati all’aeroporto e abbiamo guidato fino a Reykjavik: con quei centri commerciali sembrava fosse stata colonizzata da qualche stato del sud degli Usa, è pazzesco. Però mi sarebbe piaciuto farlò lì, anche se in Islanda è stato molto bello. La prossima volta!
Hai scelto un sound molto pieno per questo disco, mentre molte volte un lavoro così intimo sarebbe stato solo voce e chitarra o piano. Come ti sei sentito ad avere altri musicisti a lavorare su materiale così personale?
Ho lavorato con tre altri musicisti, di cui uno un batterista, non c’erano molte persone. Ho dato loro fiducia perché hanno solamente improvvisato, quindi reagito a ciò che ho fatto loro sentire, ai testi, alla musica; è una cosa che ha contribuito a rendere l’album decisamente migliore. Credo che fidarsi incondizionatamente abbia permesso loro di suonare come hanno fatto. Quindi mi sono sentito bene, sono stato molto contento, e vorrei continuare a lavorare così con altri musicisti che stimo.
Hai già presentato tutto “Bloom Forever” live un paio di volte, come è stato? Come è stato suonare quelle canzoni su un palco?
Fantastico, veramente fantastico. È una cosa a cui ho pensato a lungo che alla fine è stata quasi surreale. Non mi sento così presente mentre suono, succede e basta, ed è la sensazione migliore in assoluto. Credo sia esattamente la sensazione che prova uno snowboarder professionista, quando scivola giù da una montagna attaccato a una tavola.
Quindi non hai avuto picchi emozionali?
No, no, ci sono stati, eccome. Quando dico di non essere presente non mi riferisco alla sfera emotiva quanto a quella mentale.
Te lo chiedo perché a me è capitato di scrivere un testo molto personale su una cosa successa alla mia famiglia non pensando di doverlo mai leggere in pubblico, poi invece è successo e non sono riuscita ad arrivare alla fine…
È stato difficile per te?
Sì…
No, per me non è stato difficile. Non è stato un momento felice, ma credo sia stato diverso, più la trasformazione di qualcosa molto triste piuttosto che solamente la sua dettatura. Certo, mi sono sentito anche triste in certi punti ma non è stato il mio unico sentimento.
Vorrei tornare un momento sulla tua immagine e parlare del video di “Bloom Forever”. Il modo in cui ti presenti è abbastanza strano e goffo. Ho l’impressione che mentre alcuni cantautori nascondono i loro veri sentimenti sotto strati e strati di arrangiamenti nella sonorità, cosa che tu nel disco non hai fatto, nel tuo caso lo scudo sia quello dell’immagine…
Più o meno. Sono così diverso dal video?
Sì, decisamente…
Sì?!
Sì, sei molto più serio e a tuo agio nella vita reale…
Sì, è vero. Penso che si tratti semplicemente di una rappresentazione. È un sottile velo di umorismo. Che è una cosa difficilissima da raggiungere, mi sono accorto che per me funziona tipo “è intenzionalmente divertente o no?” “Ma, a dire il vero, non lo so…”; una grande parte della mia personalità è così ed è venuta fuori nel video. Gran parte dei miei performer preferiti sono così, e anche buona parte della mia musica, non per i testi, ma per la musica è stato “forse dovrei fare questa cosa? Non lo so, ma lo faccio lo stesso…”. Ma, di nuovo, quel video è stato one shot, quindi molti musicisti avrebbero potuto dire che non andasse bene e creare di creare un aura di cool, che non ha senso.
L’ironia è uno scudo, molte volte.
Sì, l’umorismo in sé è uno scudo, assolutamente. È cercare una sorta di protezione, no?
Sì, è un filtro.
Sì, esattamente.
Ultima domanda: hai citato molti artisti degli anni 70 come fonte di ispirazione per questo disco. Cosa ascolti ultimamente?
Dunque... il nuovo di Iggy Pop, che penso sia molto buono, sono un grande fan dei suoi album solisti e anche questo mi sta piacendo; poi, vediamo [prende l’iphone]: Rolling Stones, Judee Sill, The Small Faces, Tom Waits, poco fa ho ascoltato Elton John…
Nessuno sotto i 70 anni?
I Fat White Family! Comunque… no, per lo più oltre i 70 o morti!