Un'amica, che ben conosce la mia passione per la mediocrità compositiva di Lou Reed, mi ha regalato un biglietto per rifarmi della pessima esperienza che ebbi la sfortuna di vivere lo scorso anno a Torino, quando Lou Reed tenne il solito concerto-per-pagarsi-le-vacanze-nel-Bel-Paese, assieme alla compagna Laurie Anderson. Ma questa è un'altra storia...
Il teatro è gremito di persone e la tensione si taglia a fette. Lou sale sul palco alle 21,15, con una puntualità degna di un maniaco sessuale... Al contrario di quanto sapessi, ad accompagnarlo non è solo la sua chitarra bensì una band di quattro elementi. Da sinistra verso destra: Mike Rathke (chitarra e piano elettrici), Jane Scarpantoni (violoncello), Fernando Saunders (basso, contrabbasso elettrico, batteria e voce, purtroppo: mai sentito nessuno cantare peggio. Mai sentito nessuno ostentare la propria tecnica in modo così volgare) e "Anthony", un gigantesco (e risibile) tenore che ha accompagnato la performance del Nostro con inutili virtuosismi vocali, gorgheggi degni della peggior Tracy Chapman e "mossette" à la Gemelle Kessler.
Il "Trasformista" dà inizio alle danze con una versione infuocata di "Sweet Jane" che infervora amabilmente un pubblico composto da tanti, tantissimi 'ggiovani, al contrario di quanto riportato all'indomani dalla "grande" Gloria Pozzi sul Corriere della Sera...
Seguono brani tratti da "Berlin", da "New York", da "Ecstasy" e pure dall'ultimo "The Raven", oltre ad un tripudio di cover dei Velvet Underground. Dopo "Sweet Jane", il Nostro esegue dunque una lenta e dolce interpretazione di "Venus In Furs", che rievoca la versione demo contenuta nello splendido cofanetto "Peel Slowly And See"... Le immagini della mia infanzia scorrono attraverso i miei occhi e vengo colto da un principio di commozione che troverà sfogo qualche minuto più tardi, sulle note di "All Tomorrow's Parties".
A un certo punto mi è sembrato di essere da solo, in una stanza buia a contemplare la manifestazione fisica della mia Musica, del mio Rock. Reed continua a deliziare le orecchie di un pubblico ormai in visibilio con una struggente (ed evitabile) "Sunday Morning", il tributo che i Velvet Underground dovettero pagare ai Beatles per affrancarsi dal pop e conferire dignità musicale al rumore, inventando così il rock moderno.
Si prosegue con "Candy Says", il brano che apre il terzo album omonimo dei Velvet Underground, interpretata con un ridicolo trasporto da "Anthony", il tenore efebo che, per tutta la durata del concerto, ce l'ha messa tutta per far apparire grottescamente barocca la musica di Reed... Ma pazienza.
Un altro refuso presente sull'articolo del Corriere della solita Gloria Pozzi riguarda la presenza in scaletta di "Walk On The Wild Side" e "Satellite Of Love": mai eseguite (ma questi "giornalisti" andranno almeno a vedere i concerti che intendono recensire? Secondo me no...). Reed ha terminato la performance solamente con una discreta rilettura di "Perfect Day". Un bel concerto, alla fine, anche se i tempi di "Sister Ray" sono andati perduti per sempre. Anzi no...
P.S.: grandissima la pluricentenaria Fernanda Pivano in prima fila!