
Bel concerto e ottimo successo di pubblico giovedì 9 ottobre all'Init di Roma, locale che si è già segnalato nei mesi scorsi (e altre leccornie promette nelle settimane a venire: El Guapo , Erase Errata, Nina Nastasia e Damo Suzuki Band) per l'ottima programmazione, merito dei gestori e anche della volontà della H.U.P. concerti. Mi presento verso le 22 davanti all'ingresso, dove incontro il prode Oscar Bronsky, c'è già un bel capannello di gente, bella gente, oltre alle solite facce da concerti un po' di scena dark-wave romana, facce segnate dagli anni, che rispolverano il loro chiodo o giubbotto di pelle con le spillette di 15-20 anni fa, gente più giovane... olè!
Il gruppo spalla passa pressoché inosservato, e a mezzanotte circa salgono sul palco i Wire, inizialmente al buio quasi totale, attaccano con una sorprendente "12 X U" da “Pink Flag” il loro primo lavoro, cantata da un agitatissimo e nervoso Colin Newman. In realtà ero a conoscenza del fatto che avrebbero eseguito qualche brano del loro fortunato esordio, ma un inizio così mi ha sorpreso lo stesso... Continuano le danze e l'esibizione prende il via con "99°", magnifica traccia di chiusura di "Send", e decido di spostarmi il più possibile sotto il palco, sia per scattare delle foto che per scaldarmi un po' anche fisicamente... Così, stimolato dal grande e benritrovato Flavio Zapruder, mi ritrovo proprio sotto il palco a pogare, ballare e sudare come un ossesso, trascinato dalla violenza sonora del gruppo: "Mr. Marx Table", "Read And Burn", "The art of stopping", "Agfers of Kodack", sono il combustibile che ci fa muovere in maniera epilettica e sconclusionata (beninteso: a muoverci siamo io, il mio amico Flavio, e quattro splendidi pazzi strafatti, gli altri sembrano a teatro).
Tra i brani tratti da "Pink Flag" mi pare di riconoscere perlomeno "Strange". La band dal vivo ripropone il magnifico muro dell'album "Send", privo di alcune delle sovraincisioni elettroniche volute in fase di produzione, le chitarre hanno un suono perciò più grezzo e penetrante. Lewis è praticamente un hooligan che sembra sul punto di spaccarti il boccale di pinta in faccia da un momento all'altro, Newman un agit-prop nevrotico, Lewis un glaciale Fripp del post-punk, immobile quanto fantastico nel costruire e cesellare i brani con la sua chitarra, Gotobed praticamente lo scheletrico motore di questa macchina rispolverata alla grande. Tra l'altro, è incredibile vedere il loro aspetto, così segnati dagli anni, ma così risoluti e precisi nel proporre un suono che di revival ha ben poco, nonostante la chiusura sia stata affidata all'esecuzione proprio di una “Pink Flag” che toglie il fiato (letteralmente).
C'è da considerare infatti che quest'anno i Wire ci hanno dato la possibilità di avvicinarci al concerto di un gruppo storico come il loro con il desiderio di ascoltare la loro musica intesa come quella che suonano in questo momento, né un triste e ripetitivo revival, né una via sospesa tra nostalgia e voglia di qualcosa di nuovo che non è alla portata di tutti. All'Init quella sera non c'era spazio per la nostalgia, ma solo per un'esplosione di bellezza.