
Ben 17 anni sono trascorsi da quando il vinile di "Swastikas for Noddy" dei Current 93 ha cominciato a girare nella mia mente ed è come se non si fosse mai fermato. La loro musica ha scandito i miei anni e fatto da stupefacente sottofondo alle mie ossessioni. Averli ascoltati per giorni e giorni, con immutata passione, ha fatto sì che nascesse un'intimità con la loro musica che va al di là dei "suoni", che abbraccia l'essenza delle cose materializzandosi in una fantasmagorica visione comune.
Seguire il percorso artistico di Tibet ha implicato il seguirne anche le vicissitudini umane e spirituali che lo hanno condotto dal Buio alla Luce - a fornirne traccia è l’immenso “Of ruine or some blazing starre”- , che lo hanno visto più volte prossimo alla temuta ed esorcizzata morte fisica, come testimonia lo stupendo “Bright yellow moon”.
Inevitabile, quindi, percepirlo come un amico, come una di quelle persone che quando ti parla o canta lo fa puntando dritto al cuore, mettendosi completamente a nudo, senza reticenze.
Tibet è una persona limpida. Ed è quindi, con uno stato d'animo che sfiora l'isteria mistica che mi ritrovo nel meraviglioso Teatro Juvarra. Un luogo inaspettato, celato dietro un robusto portone in legno; non penseresti mai che dietro di esso pulsi un posto così singolare, singolare come la musica dei Current 93 e la cosa mi fa sorridere.
Il Teatro è molto minimale, spoglio e spartano; ha un'acustica ottima, e se ne avrà la riprova allorché Tibet scosterà il microfono dalle labbra facendo risuonare la sua voce tutt’intorno; Cosa che avverrà due o tre volte, nel bel mezzo dei brani, e che contribuirà a rendere ancor più suggestiva la performance. Condivisibile la scelta fatta dagli organizzatori, data l'enorme richiesta di biglietti, di proiettare simultaneamente l'evento su un maxischermo allestito nella sala-bar dinanzi all'ingresso della sala del teatro.
A fare da prologo dell'evento è Simon Finn: ha una voce incredibile, bella e potente che dà il meglio di sé in quella cavalcata visionaria che è "Jerusalem", brano di chiusura del suo mini-concerto durato all'incirca 40 minuti. E' palese la sua emozione, specialmente all'inizio, e si rivela essere anche molto timido. Poche parole e notevole imbarazzo dinanzi alle continue manifestazioni d'affetto e di stima tributategli da Tibet durante la performance dei Current 93; il quale ci narrerà del suo incontro con Simon, e di quanto sia stato difficile rintracciarlo, considerato che veniva persino dato per morto, poi l'incontro, grazie a David Toop, a Montreal. Tibet s’inchinerà dinanzi a lui prima di eseguire un suo brano: "Courtyard".
Suggestiva la scelta musicale che ha fatto da sottofondo all'inizio delle due esibizioni. Non so dirvi di chi sia l’ancestrale voce femminile che si spiega nella sala, ma è davvero toccante, sembra di ascoltare una versione orientale dei canti gregoriani; per molti sarà stato un tedio assoluto, per me un'ulteriore riconferma di quanto Tibet sia ultimamente molto preso da questi canti sacrali e liturgici.
Ad anticipare l'apparizione messianica di Tibet sul palco sono lo stesso Finn — chitarra -, Joolie Wood - violino, flauto, flauto traverso -, il violoncellista John Contreras e Maja Elliott al pianoforte. La cosa che ha subito colpito è che sono tutti scalzi e sembrano venir fuori direttamente dalla copertina di “The hangman’s beautiful daughter” della Incredible String Band, foto imitata dagli stessi Current 93 per l’artwork dell’album “Earth covers earth”.
Le note sono inequivocabilmente quelle, e sono le note inconfondibili di "Sound of Silence" di Simon and Garfunkel rese in versione cameristica. Una scelta sorprendente, ma in linea con la sincera passione che Tibet nutre per la musica dei 60 e 70, come testimoniano il recupero di gioielli nascosti quali "Golem" dei Sand e "Pass the distance" di Simon Finn stesso. Fa la sua apparizione David in versione bohemien, elegante e con una bottiglia di vino bianco.
Poche strofe sussurrate con trasporto per scivolare senza soluzione di continuità in "Time of the last persecution" , brano presente nel 7" venduto al recente concerto di Toronto. Un violino straziante che si adagia sulle malinconiche note del pianoforte della Elliot, mentre Tibet si dimena, quasi tarantolato, e lascia vibrare la sua enfatica voce nell'aria.
Senza un attimo di tregua e in una sorta di trance , ci si ritroverà avvolti nei drappeggi funerei di ""It is time, only time" da "Soft black star". Molti saranno i brani proposti da quest'album, da Tibet considerato uno dei suoi migliori e che per intensità accosterei allo scurissimo "Imperium".
Il primo colpo al cuore giunge con "Maldoror is ded ded ded", semplicemente straziante. La voce di Tibet si libra in tutta la sua intensità e drammaticità. Ed è allora che per molti si è palesata la consapevolezza di essere parte di un rito, un oscuro rito privato costellato di citazioni riferimenti ed esperienze.
Tibet canta, impreca, si dispiega, si tende in un voodoo intimo e noi ne veniamo fugacemente toccati ed assorbiti. La breve "Antichrist", tutta adagiata sul pianoforte, sempre da "Soft Black Star", ci accompagna verso un'altro dei picchi emotivi della serata: "Calling for vanished faces II" è pura panacea per il cuore. Il flauto desolato della Wood, il crescendo di piano della Elliott, la spiritata voce di David, hanno toccato magistralmente le corde dell'anima. La platea seguirà rapita ed estasiata per tutta la sua durata il cerimoniale orchestrato da questo straordinario visionario che, ormai a torso nudo, scende spesso dal palco per stringerci in un ideale abbraccio, quasi fossimo suoi discepoli.
Poi è la volta di "Bells", e "Black Flowers, Please" da "Swastikas for Noddy" - la versione eseguita è quella proposta come lato B del singolo venduto al concerto di Toronto -, e inaspettata è sopraggiunta un’incantevole versione di "Niemanswasser" da "Sleep has his house".
Il cuore si stringe e gronda sangue, trafitto dallo straziante violino della Wood. Ma Tibet non smetterà di sorprenderci ed ecco che, terminata "Soft black star", la dedicherà a una ragazza, seduta in prima fila, in stato interessante, con l'augurio che possa intonarla, quasi fosse una ninnananna, nel mentre culla il suo neonato. Davvero incantevole.
Dopo "Mockingbird", sempre dall'album "Soft black star", è stata la volta di "Alone", brano di chiusura di quel disco claustrofobico e buio che è "Imperium". Un brano dal testo disperato e agghiacciante nella sua spietata lucidità, nella sua cruda analisi del destino umano. "..even death is better than this usefull life...". Pathos alle stelle. Il synth soppiantato dall'ossessivo pianoforte della Elliott e i desolanti arpeggi di chitarra di Finn saturano l'aria d'emozione purissima.
A stemperare la tensione altissima è arrivata, poi, la dolcissima e consolatoria "Whilst the night rejoices profound and still". Il sipario cala e il pubblico, sempre compito e religiosamente silente e attento, è esploso in un incessante scroscio d'applausi, sedotto dal carisma di Tibet e dalla lacerante intensità della musica offerta. Tra gli astanti, numerosi stranieri: tedeschi, francesi, spagnoli a testimoniare il seguito da autentico culto della “corrente”.
Mi hanno molto colpito la cicatrice sul ventre di Tibet, quasi fosse l'esibizione della fragilità umana, e la scelta del vino bianco per dissetarsi (a Napoli, nel 91, lo ricordo alle prese, esclusivamente, con del salutare succo di frutta!).
Il ritorno sul palco per i bis è folgorante: "Courtyard" di Simon Finn, dal suo album del 1970, reinterpretata con maestria. Prossimi all'epilogo, Tibet ci regala una toccante "A gothic love song". La commozione è sincera e palpabile. Ed ecco il commiato affidato alla nenia "At the blue gates of death", un finale beffardo, in puro stile Current 93.