07/08/2004

Motorpsycho

Velvet Rock Club, Rimini


[Non spenderò più di due righe per l'esibizione del gruppo spalla, gli italiani OJM, autori di un hard rock venato di stoner noioso, approssimativo e piuttosto inutile]
Per chi scrive si tratta della quarta esperienza dal vivo coi norvegesi Motorpsycho. La prima sorpresa in questa torrida serata riminese (ma l'interno del locale è provvidenzialmente climatizzato) è il palco: scarno, essenziale, nessuna traccia dei mille strumenti e strumentini che avevano affollato la pedana negli ultimi tour; i Motorpsycho si ripresentano in formazione originale, il power trio, senza alcun orpello a riempire il suono creato da basso, chitarra e batteria.

Il Velvet è un buon locale ma non sempre l'acustica è ottima, e i volumi folli a cui ci ha abituati il trio di Throndeim non aiuteranno certo, presagisco, la pulizia del suono. Ma tant'è, sarà il caso di farsene una ragione: quelle che ci aspettano sono due ore di rock and roll senza compromessi, uno spettacolo interamente basato sul versante più duro del loro sterminato repertorio, con cui i tre sembrano voler affermare la loro voglia di tornare un po' indietro nel tempo, prima che il "pop" degli ultimi album si impadronisse dei loro strumenti e li facesse virare verso sonorità e arrangiamenti ben distanti dal marasma sonoro che li rese noti, se non famosi, a metà anni 90; tanto più che, non avendo alcun disco in uscita da supportare, i brani della scaletta potranno essere scelti senza considerare alcuna logica commerciale.
L'inizio, a dire la verità, è affidato a una rivisitazione in chiave Neil Young (artista amato dai tre) di un loro poco conosciuto brano acustico, pubblicato solo su un ep, "Wishing Well": tanto scarno e lo-fi l'originale, quanto elettrica e dilatata (circa dieci minuti) questa nuova versione, lenta, bluesy e ammiccante, che comunque è piacevole ma non riesce a convincere del tutto - complice anche, come si diceva, un suono ancora da calibrare.

Segue, senza che molti sembrino accorgersene, un altrettanto poco conosciuto e più vecchio brano, anche questo pubblicato nascosto alla fine di un Ep, "Mad Sun": indie rock veloce ma emotivo e malinconico, un pezzo bellissimo ma che in pochi, nell'ormai numeroso pubblico, sembrano riconoscere, anche forse a causa del fatto che molti nuovi fans hanno conociuto la band con gli ultimi dischi. Bent Saether (basso e voce), look alla Gesù Cristo - capelli lunghissimi, camicione bianco, barba lunga - sorride, mormora "You might know the next one" e dà il via a "Starmelt/Lovelight", cavallo di battaglia degli show della band. Per molti il concerto comincia qui, le prime file si scatenano nel pogo e nel sing-along, finalmente l'atmosfera decolla; poco importa se il pezzo successivo è una canzone nuova (i Motorpsycho hanno l'abitudine di presentare brani inediti nei loro live), un power pop sulla falsariga di "Neverland", brano contenuto nell'ultimo "It's A Love Cult". I ragazzi dovranno fare attenzione quando lo incideranno: se appesantito da una produzione laccata, simile a quella degli ultimi dischi, il brano potrebbe risultare davvero noioso, mentre un suono più grezzo lo renderebbe sicuramente piacevole... staremo a sentire, il nuovo album dovrebbe arrivare in primavera.

Nel frattempo arriva il momento del primo tour de force : "Hogwash", dal primissimo album "Lobotomizer", è rientrata di prepotenza nelle scalette dei concerti degli ultimi anni, perdendo le sonorità prettamente seventies che aveva nella versione originale e inasprendosi in una cavalcata psych-stoner. L'unica concessione del concerto ai toni psichedelici che caratterizzavano la band sul finire degli anni 90 è l'improvvisazione centrale di questo pezzo, sonica e rarefatta; per il resto, una dozzina di minuti ipnotici e pesantissimi, col basso di Saether a martellare, la chitarra di Snah satura e corposa ad alternare riff e assoli lenti e rumorosi, e la batteria di Gebhardt a picchiare sui crash da bravo allievo di Keith Moon.
E' bello vedere questi tre ragazzoni, capelloni e barbuti (almeno i due chitarristi, perchè il batterista porta come sempre i capelli cortissimi), guardarsi e cercare l'intesa, divertirsi e improvvisare anche stravolgendo le strutture (il jazz è un'altra delle passioni dei tre, e lo si vede quando, durante un assolo, Bent comunica via via a Snah la tonalità a cui sta per portare, col basso, lo sviluppo del brano).

E poi un uno-due da ko: il gruppo ripesca prima "In The Family", capolavoro tratto da "Angels And Daemons At Play" e troppo a lungo trascurato dal vivo, e poi addirittura "Wearing Yr Smell", da "Timothy's Monster", un brano indie pop che nella sua immediatezza e nella sua malinconia scanzonata colpisce sempre al cuore. Il pubblico esplode, e d'altra parte per chi ama la musica dei Motorpsycho avere la possibilità di ascoltare dal vivo questi due pezzi è davvero una soddisfazione inaspettata. Il suono ora è molto più accettabile, i tre si divertono e si vede, i brani sono belli, la folla risponde bene; e anche quando arriva, puntuale, il tormentone di cui sopra, "Neverland", pezzo divertente ma certo non imprescindibile, l'atmosfera resta calda ed è impossibile non godersi il sound del trio. Certo che questi tre suonano davvero, eccome: seguire le dita di Bent che scivolano sul basso a comporre ricami complicatissimi mentre il ragazzo si sgola al microfono è un'esperienza.
Dopo quest tirata rock, la band ha bisogno di rifiatare ("We're going to slow it down... not so much, just a bit", ci informano): "Greener", down-tempo zeppo di chitarroni tratto da "Blissard", è un altro pezzo che mancava da tempo nelle setlist (forse però in questo caso un recupero non era indispensabile...), ma l'effetto è quello di raffreddare un po' troppo gli animi, sui quali cade anche la stanchezza di una mezz'ora precedente davvero infuocata.

La successiva "Bonnie Lee", altro inedito, invece stupisce e lascia ben sperare per la prossima uscita discografica, allineandosi al sound duro dei brani precedenti e sfoderando una prima parte martellata e una seconda metà melodica e costruita su un crescendo dinamico molto efficace. E infine, per chiudere il primo set, i Motorpsycho rispolverano "The Wheel". Un quarto d'ora di incedere marziale, almeno dieci minuti su un solo accordo a martellare i timpani, una stratificazione sonora in crescendo da lasciare a bocca aperta (personalmente ho creduto almeno tre volte che le dinamiche fossero già spinte al massimo, per poi dovermi ricredere al successivo balzo in su...): devastante, senza mezzi termini. Un pugno in faccia difficile da dimenticare, considerato anche su quel palco c'erano solo tre persone!
Quando i Motorpsycho giocano a fare i Motorpsycho non hanno rivali, e "The Wheel" è uno dei brani più rappresentativi del loro repertorio, o quantomeno di quello dei primi anni di vita del gruppo.

Rituale uscita di scena, rituale richiamo del pubblico, rituale ritorno della band. I tre non hanno nessuna intenzione di dare tregua e ripartono ancora più cattivi di prima: "Uberwagner", spogliata di tutto il vestito di tastiere e fiati che la arricchisce su disco, diventa uno stoner-pop molto efficace, grazie alla splendida linea vocale sbilenca che fa da contraltare a uno schema ritmico squadrato; i richiami ai ritmi Neu! che caratterizzano l'originale vengono sommersi da quintali di watt. Ancora più massiccia è la successiva "Vanishing Point" dal mini Lp "Barracuda", un hard rock al limite della parodia del genere, urlato e pestatissimo.
Ma è con "You Lied", alias "Walking On The Water" (terzo pezzo tratto da "Angels And Daemons", contro uno solo da "Blissard" e nessuno da "Trust Us" o "Let Them Eat Cake"!) che il concerto raggiunge il climax. Quattro minuti di ritmo travolgente e sincopato, con un riff di basso classico quanto efficace, e un ritornello fatto apposta per essere cantato a squarciagola (Bent si ferma regolarmente per lasciar cantare il pubblico): basta e avanza per far scatenare l'audience come se il concerto fosse appena iniziato. E per chiudere esagerando, il gruppo spara perfino "Loaded", un hardcore violentissimo con tanto di urla sguaiate, tratto da "3 Songs For Ruth", Ep del lontano 1991: come a dire, passano gli anni ma non li sentiamo. Cattivissimi, pure troppo... forse l'unica pecca del concerto è stata proprio che dopo un'ora e mezza sempre a pieni giri un po' di atmosfera per chiudere le danze sarebbe stata d'uopo (e lo dico perché so che i Motorpsycho sono in grado di regalare emozioni anche rallentando e diradando).

La conclusione, dopo un'altra uscita di scena, è affidata a un altro pezzo storico, "Feel", eseguito con Bent alla chitarra e voce e Snah e Gebhardt a sostituire il mellotron con dei coretti più teneri che altro; e tutto il pubblico a cantare all'unisono, a ripetere il miracolo che da dieci anni questo gruppo mette in atto sui palchi di tutta Europa: senza una copertura pubblicitaria degna di tal nome, contando praticamente solo sul passaparola, i Motorpsycho sono in grado di raccogliere (e emozionare) piccole folle adoranti, che cantano le loro canzoni all'unisono come se sul palco ci fossero i Rolling Stones. Miracoli del rock'n'roll.

Setlist

1. Wishing Well
2. Mad Sun
3. Starmelt/Lovelight
4. Trixene
5. Hogwash
6. In the Family
7. Wearing yr Smell
8. Neverland
9. Greener
10. Bonnie Lee
11. The Wheel
12. Uberwagner
13. Vanishing Point
14. You Lied
15. Loaded
16. Feel

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