
[Non spenderò più di due righe per l'esibizione del gruppo spalla, gli italiani OJM, autori di un hard rock venato di stoner noioso, approssimativo e piuttosto inutile]
Per chi scrive si tratta della quarta esperienza dal vivo coi norvegesi Motorpsycho. La prima sorpresa in questa torrida serata riminese (ma l'interno del locale è provvidenzialmente climatizzato) è il palco: scarno, essenziale, nessuna traccia dei mille strumenti e strumentini che avevano affollato la pedana negli ultimi tour; i Motorpsycho si ripresentano in formazione originale, il power trio, senza alcun orpello a riempire il suono creato da basso, chitarra e batteria.
Il Velvet è un buon locale ma non sempre l'acustica è ottima, e i volumi folli a cui ci ha abituati il trio di Throndeim non aiuteranno certo, presagisco, la pulizia del suono. Ma tant'è, sarà il caso di farsene una ragione: quelle che ci aspettano sono due ore di rock and roll senza compromessi, uno spettacolo interamente basato sul versante più duro del loro sterminato repertorio, con cui i tre sembrano voler affermare la loro voglia di tornare un po' indietro nel tempo, prima che il "pop" degli ultimi album si impadronisse dei loro strumenti e li facesse virare verso sonorità e arrangiamenti ben distanti dal marasma sonoro che li rese noti, se non famosi, a metà anni 90; tanto più che, non avendo alcun disco in uscita da supportare, i brani della scaletta potranno essere scelti senza considerare alcuna logica commerciale.
L'inizio, a dire la verità, è affidato a una rivisitazione in chiave Neil Young (artista amato dai tre) di un loro poco conosciuto brano acustico, pubblicato solo su un ep, "Wishing Well": tanto scarno e lo-fi l'originale, quanto elettrica e dilatata (circa dieci minuti) questa nuova versione, lenta, bluesy e ammiccante, che comunque è piacevole ma non riesce a convincere del tutto - complice anche, come si diceva, un suono ancora da calibrare.
Segue, senza che molti sembrino accorgersene, un altrettanto poco conosciuto e più vecchio brano, anche questo pubblicato nascosto alla fine di un Ep, "Mad Sun": indie rock veloce ma emotivo e malinconico, un pezzo bellissimo ma che in pochi, nell'ormai numeroso pubblico, sembrano riconoscere, anche forse a causa del fatto che molti nuovi fans hanno conociuto la band con gli ultimi dischi. Bent Saether (basso e voce), look alla Gesù Cristo - capelli lunghissimi, camicione bianco, barba lunga - sorride, mormora "You might know the next one" e dà il via a "Starmelt/Lovelight", cavallo di battaglia degli show della band. Per molti il concerto comincia qui, le prime file si scatenano nel pogo e nel sing-along, finalmente l'atmosfera decolla; poco importa se il pezzo successivo è una canzone nuova (i Motorpsycho hanno l'abitudine di presentare brani inediti nei loro live), un power pop sulla falsariga di "Neverland", brano contenuto nell'ultimo "It's A Love Cult". I ragazzi dovranno fare attenzione quando lo incideranno: se appesantito da una produzione laccata, simile a quella degli ultimi dischi, il brano potrebbe risultare davvero noioso, mentre un suono più grezzo lo renderebbe sicuramente piacevole... staremo a sentire, il nuovo album dovrebbe arrivare in primavera.
Nel frattempo arriva il momento del primo tour de force : "Hogwash", dal primissimo album "Lobotomizer", è rientrata di prepotenza nelle scalette dei concerti degli ultimi anni, perdendo le sonorità prettamente seventies che aveva nella versione originale e inasprendosi in una cavalcata psych-stoner. L'unica concessione del concerto ai toni psichedelici che caratterizzavano la band sul finire degli anni 90 è l'improvvisazione centrale di questo pezzo, sonica e rarefatta; per il resto, una dozzina di minuti ipnotici e pesantissimi, col basso di Saether a martellare, la chitarra di Snah satura e corposa ad alternare riff e assoli lenti e rumorosi, e la batteria di Gebhardt a picchiare sui crash da bravo allievo di Keith Moon.
E' bello vedere questi tre ragazzoni, capelloni e barbuti (almeno i due chitarristi, perchè il batterista porta come sempre i capelli cortissimi), guardarsi e cercare l'intesa, divertirsi e improvvisare anche stravolgendo le strutture (il jazz è un'altra delle passioni dei tre, e lo si vede quando, durante un assolo, Bent comunica via via a Snah la tonalità a cui sta per portare, col basso, lo sviluppo del brano).
E poi un uno-due da ko: il gruppo ripesca prima "In The Family", capolavoro tratto da "Angels And Daemons At Play" e troppo a lungo trascurato dal vivo, e poi addirittura "Wearing Yr Smell", da "Timothy's Monster", un brano indie pop che nella sua immediatezza e nella sua malinconia scanzonata colpisce sempre al cuore. Il pubblico esplode, e d'altra parte per chi ama la musica dei Motorpsycho avere la possibilità di ascoltare dal vivo questi due pezzi è davvero una soddisfazione inaspettata. Il suono ora è molto più accettabile, i tre si divertono e si vede, i brani sono belli, la folla risponde bene; e anche quando arriva, puntuale, il tormentone di cui sopra, "Neverland", pezzo divertente ma certo non imprescindibile, l'atmosfera resta calda ed è impossibile non godersi il sound del trio. Certo che questi tre suonano davvero, eccome: seguire le dita di Bent che scivolano sul basso a comporre ricami complicatissimi mentre il ragazzo si sgola al microfono è un'esperienza.
Dopo quest tirata rock, la band ha bisogno di rifiatare ("We're going to slow it down... not so much, just a bit", ci informano): "Greener", down-tempo zeppo di chitarroni tratto da "Blissard", è un altro pezzo che mancava da tempo nelle setlist (forse però in questo caso un recupero non era indispensabile...), ma l'effetto è quello di raffreddare un po' troppo gli animi, sui quali cade anche la stanchezza di una mezz'ora precedente davvero infuocata.
La successiva "Bonnie Lee", altro inedito, invece stupisce e lascia ben sperare per la prossima uscita discografica, allineandosi al sound duro dei brani precedenti e sfoderando una prima parte martellata e una seconda metà melodica e costruita su un crescendo dinamico molto efficace. E infine, per chiudere il primo set, i Motorpsycho rispolverano "The Wheel". Un quarto d'ora di incedere marziale, almeno dieci minuti su un solo accordo a martellare i timpani, una stratificazione sonora in crescendo da lasciare a bocca aperta (personalmente ho creduto almeno tre volte che le dinamiche fossero già spinte al massimo, per poi dovermi ricredere al successivo balzo in su...): devastante, senza mezzi termini. Un pugno in faccia difficile da dimenticare, considerato anche su quel palco c'erano solo tre persone!
Quando i Motorpsycho giocano a fare i Motorpsycho non hanno rivali, e "The Wheel" è uno dei brani più rappresentativi del loro repertorio, o quantomeno di quello dei primi anni di vita del gruppo.
Rituale uscita di scena, rituale richiamo del pubblico, rituale ritorno della band. I tre non hanno nessuna intenzione di dare tregua e ripartono ancora più cattivi di prima: "Uberwagner", spogliata di tutto il vestito di tastiere e fiati che la arricchisce su disco, diventa uno stoner-pop molto efficace, grazie alla splendida linea vocale sbilenca che fa da contraltare a uno schema ritmico squadrato; i richiami ai ritmi Neu! che caratterizzano l'originale vengono sommersi da quintali di watt. Ancora più massiccia è la successiva "Vanishing Point" dal mini Lp "Barracuda", un hard rock al limite della parodia del genere, urlato e pestatissimo.
Ma è con "You Lied", alias "Walking On The Water" (terzo pezzo tratto da "Angels And Daemons", contro uno solo da "Blissard" e nessuno da "Trust Us" o "Let Them Eat Cake"!) che il concerto raggiunge il climax. Quattro minuti di ritmo travolgente e sincopato, con un riff di basso classico quanto efficace, e un ritornello fatto apposta per essere cantato a squarciagola (Bent si ferma regolarmente per lasciar cantare il pubblico): basta e avanza per far scatenare l'audience come se il concerto fosse appena iniziato. E per chiudere esagerando, il gruppo spara perfino "Loaded", un hardcore violentissimo con tanto di urla sguaiate, tratto da "3 Songs For Ruth", Ep del lontano 1991: come a dire, passano gli anni ma non li sentiamo. Cattivissimi, pure troppo... forse l'unica pecca del concerto è stata proprio che dopo un'ora e mezza sempre a pieni giri un po' di atmosfera per chiudere le danze sarebbe stata d'uopo (e lo dico perché so che i Motorpsycho sono in grado di regalare emozioni anche rallentando e diradando).
La conclusione, dopo un'altra uscita di scena, è affidata a un altro pezzo storico, "Feel", eseguito con Bent alla chitarra e voce e Snah e Gebhardt a sostituire il mellotron con dei coretti più teneri che altro; e tutto il pubblico a cantare all'unisono, a ripetere il miracolo che da dieci anni questo gruppo mette in atto sui palchi di tutta Europa: senza una copertura pubblicitaria degna di tal nome, contando praticamente solo sul passaparola, i Motorpsycho sono in grado di raccogliere (e emozionare) piccole folle adoranti, che cantano le loro canzoni all'unisono come se sul palco ci fossero i Rolling Stones. Miracoli del rock'n'roll.