17/3/2004

Stereolab + Four Tet

Trabendo, Parigi (Francia)


La prima avvertenza da fare è che il sottoscritto non è un gran conoscitore degli Stereolab. Consigliato e incoraggiato da alcuni dei grossi nomi di OndaRock, invogliato dal fatto che in cartellone ci sia anche l’interessante Four Tet, compro il biglietto e, nell’ultimo mese, mi preparo un minimo su questo gruppo che, stando a quello che leggo e a quello che sento, ha avuto un ruolo non proprio marginale nella storia della musica leggera degli anni Novanta. Scopro la tragedia che li ha colpiti nel 2002, eppure li trovo fuori dal Trabendo a conversare amabilmente con i fan in fila per entrare. Vedo anche Laetitia Sadier che perde il suo algido aplomb aristocratico per prendere a calci una porta dalla quale, sprovvista di pass e non riconosciuta, non vogliono farla rientrare.
Il concerto inizia in lievissimo ritardo, in una sala il cui palco è a ridosso degli spettatori e alto meno di un metro: volendo, allungando la mano si può toccare chi si esibisce.

Kieran Hebden, alias mister Four Tet, sembra un Erasmus spagnolo capitato per puro caso sul palco del Trabendo. Quando si piazza dietro ai due computer (incredibile: per una volta qualcuno che non usa un Macintosh!) e ad altre attrezzature elettroniche non meglio identificate, lo si crederebbe un tecnico. Ma le luci si abbassano e, inizialmente irriconoscibile, parte una chilometrica versione di quella “She Moves She” che già faceva bella mostra di sé su “Rounds”, l’ultimo album del giovane Hebden. Sull’ipnotico arpeggio di base, inevitabilmente preregistrato, Hebden fa sfilare i suoi battiti rilassati per poi virare verso sonorità più disturbate, aggiungendo interferenze elettroniche sempre più ingombranti. Un bell’inizio e un ottima presentazione della formula che fa di Four Tet una realtà interessante e della sua performance un’esibizione degna dell’attenzione e di tutti coloro che sono venuti solo per gli Stereolab. Rispetto alle sue prove su cd, Hebden privilegia l’aspetto rumoristico e più puramente elettronico delle sue composizioni, che in certi casi acquistano un’abrasività tutta nuova, pur mantenendo sul fondo una dolcezza che ricorda certo post-rock. Seguono questa linea, per esempio, una “As Serious As Your Life” dalla quale è impossibile non farsi cullare e la conclusiva “Rounds”, che riesce anche a mantenere la sua delicatezza.
Tre quarti d’ora ad alto livello, magari con i limiti di approccio al pubblico che molta musica elettronica si porta dietro, oltre ai pregiudizi di chi, in questo pubblico, ancora storce il naso se non vede nessuna chitarra né una band. Se i primi sono un (piccolo, in fondo) difetto di Four Tet e sembrano correlati soprattutto alla tenera età del ragazzo, i secondi sembrano duri a morire in un pubblico che ormai, proprio per età, dovrebbe averne viste ed ascoltate tante…

I puristi della formazione e della strumentazione rock “tradizionale” vengono accontentati dal piatto principale della serata. Gli Stereolab scendono sul palco con il seguente schieramento: Laetitia “Seaya” Sadier alla voce, trombone e ammennicoli vari; Tim Gane alla sua vecchia Fender e a tutti i suoi effetti; Andy Ramsay alla batteria; Simon Johns al basso e, occasionalmente, alla seconda batteria; completano il gruppo tre tastieristi, uno dei quali, chiamato Professor Plum (sì, come quello del Cluedo) si dedica anche a chitarra acustica e corno francese.
Si attacca con alcuni brani da “Margerine Eclipse”. A me, che come ho già detto non conosco gli Stereolab da molti anni, il loro ultimo album non è affatto dispiaciuto. A me, che come si sarà intuito non ho mai visto gli Stereolab dal vivo, “Margerine Melodie”, “Margerine Rock” (primo pezzo della serata a essere suonato con due batterie) e “Vonal Declosion” fanno proprio un bell’effetto. Mi sembrano migliori che su disco e, sebbene la band non si lasci scappare nemmeno un mezzo sorriso, si direbbe che chi è sul palco si diverta a giocare la sua parte, a dare all’amalgama un suono che ancora oggi, sebbene fonte di ispirazione per molti, mantiene una sua unicità, soprattutto nella dimensione live. Seaya si dichiara stupita dalla calorosissima accoglienza riservata a lei e al gruppo. “Forse perché siete così rari” è la bella risposta che ottiene.

Il primo salto nel passato si fa con “Diagonals”, dominata dai tastieristi e dai suoni “obliqui” che ci si aspetterebbero da un titolo del genere. Eccellente. Il concerto offre grandi cose anche là dove non le si attendono. I fan storici non hanno amato molto “Margerine Eclipse”. Me lo dicono in tanti prima del concerto. Eppure “Need To Be” e “…Sudden Stars” non solo ricevono un’accoglienza da vecchi classici, ma sono dei momenti di ottima musica. Potere dei concerti? Potere della capacità musicale e di arrangiamento live degli Stereolab? Forse erano belle canzoni e non ce ne eravamo accorti… Chissà…

“Questa la riconoscerete” dice a questo punto Seaya. A “Lo Boob Oscillator” (chiamata “Sub Pop” sulla scaletta) il pubblico riserva l’accoglienza delle grandi occasioni, e ne ha ben donde. La prima parte è quella nello stile velvettiano che tutti adoriamo. Il delizioso “pom pom pom pom” che accompagna il cantato di Seaya è affidato (oltre che agli spettatori) al corno francese del Professor Plum, che spesso lo suona con un pugno a mo’ di sordina. Proprio al corno francese è spesso assegnata la funzione di controcanto per tutto il concerto, soluzione dovuta alla rispettosa scelta di non sostituire veramente Mary Hansen. La seconda metà di “Lo Boob Oscillator” offre l’occasione per una rapida discesa in inferi musicali che mantengono sempre qualcosa di euforico, mentre le luci si fanno sempre più scure e nevrotiche. Sensazionale. La riproposizione dei nuovi brani continua con “Cosmic Country Noir” e “Bop Scotch”.

A partire da questo momento (siamo a circa metà di quella che, alla fine, risulterà un’esibizione di un paio d’ore) saranno solo canzoni attinte dal vecchio repertorio. Seaya spara subito il titolo: “L’Enfer Des Formes”. Ululato del pubblico e versione tiratissima prima di un’inventiva coda che, a partire da adesso, gli Stereolab aggiungeranno a ogni brano che non ne ha una di suo. Ci propongono dunque versioni lunghe o lunghissime di alcuni pezzi più o meno d’annata, come “Double Rocker” che, a un colpo di trombone assestato da Seaya, scatena una divertente seconda parte dominata da fiati e tastiere, con il drumming di Andy Ramsay veloce e spaventosamente regolare a fare da sostegno. In effetti, in queste code, nei frequentissimi cambi di ritmo e tempo, l’ottima sezione ritmica gioca un ruolo fondamentale: basso e batteria o due batterie che siano, sono Ramsay e Johns a dare la spinta e fissare le coordinate di ogni cambio di ritmo, ma anche di tono.

Il passato è quello prossimo con una “Mass Riff” potenziata, forte di una seconda parte decisamente ritmata, in pratica dance, o comunque ancor più vicina a quei territori dell’originale che chiudeva l’Ep “Instant 0 In The Universe”. “Come And Play In The Milky Night” chiude in bellezza con tre cambi di ritmo, e Seaya che è un piacere guardare mentre balletta, sorride (finalmente!) e suona il trombone, suona il cembalo, suona una grattugia…

Per il bis nessuno torna dentro senza la sua bottiglietta di birra e si attacca con un accenno a “The Brush Descends The Length”, che diviene “Cybele’s Reverie”. Gane, come già ha fatto in tutta la seconda metà del concerto, tira fuori dalla sua Fender ogni tipo di suono possibile, e anche un paio di impossibili. Il gran finale è affidato a un’incredibile “Stomach Worm” (la più vecchia proposta della serata, da “Peng!”, indicata in scaletta come “Jealousy”). Per l’occasione torna sul palco anche Four Tet, al quale viene affidata una chitarra e la libertà di utilizzare la montagna di effetti disponibili. Il risultato sono oltre dieci minuti (quanto oltre? Non ne ho idea, il mio orologio biologico era già andato in frantumi con “Double Rocker”) di falsi finali e vere ripartenze, cambi di strumento in corsa, fantasia, effetti, distorsioni, drumming, ora implacabile ora impercettibile, Seaya, cambi di tempo e ritmo, effetti, distorsioni, ballo, tastiere in delirio o compostissime, pubblico in trance, effetti, distorsioni, effetti, distorsioni.

Gli Stereolab se ne vanno, le luci si alzano, per la sala si diffonde la tipica musica da “e adesso sfollate, gente”. Ma i presenti non se ne vanno. Gli applausi continuano, così come le urla e l’euforia. Dopo qualche minuto di acclamazione (e nessuno - nessuno! - che parte) al Trabendo sono costretti a riabbassare le luci, e gli Stereolab rientrano, sorpresi e felici per tanto amore, per tanto entusiasmo. La Sadier, largo sorriso a illuminarla, chiede: “Vous en voulez encore?”. Scontato il “Ouiiiiiiiii” che segue. “Ok, une petite pour la route”, che in Francia è la frase dell’ultimo bicchiere. Ecco “Harmonium”, e la conclusione di una grande serata.