
L'Astoria si presenta come un casolare fatiscente in mezzo alle benestanti palazzine ospitanti grandi magazzini e fast food omicidi: salta agli occhi la predominanza del tono scuro, i mattoni rossi e i residui dello smog della City, il tutto in perfetta sintonia con le nubi che coprono Londra, come al solito, come piace a noi.
Stare davanti a questo mitico locale londinese mi fa sentire come ai tempi delle superiori, quando si andava in gita scolastica, cercando di combinarne di tutti i colori, rendendo memorabile un momento; una sorta di inebriante stato d'animo conseguente alla crescente consapevolezza di aver fatto il passo più lungo della gamba, di aver osato, di aver agito con una certa incoscienza.
La folla davanti all'Astoria comincia a diventare importante, così verso le 17 io e il mio fido compagno di viaggio Luca (che ringrazio, è grazie a lui se sono qui) decidiamo di metterci in coda; salta subito agli occhi la differenza di abbigliamento tra noi e i discepoli di Reznor, veri e propri recipienti di comandamenti e pratiche dark-gothic: qualcuno comincia a guardarci non dico storto, ma con curiosità, come fossimo animali allo zoo.
Punto a nostro sfavore, il tono con cui un italiano medio tiene una conversazione media: molto più alto rispetto a quello dei francesi e degli inglesi... insomma, attiriamo l'attenzione, italiani-pizza-mandolino-mamma etc, ma poco male...
La coda comincia a scorrere, siamo quasi dentro quando una coppia di darkettoni comincia a buttare farina sui presenti: li schiviamo (per fortuna!) e siamo dentro.
Dentro al London Astoria e, perdonate il tremendo gioco di parole, dentro alla storia; sì, perché quasi tutti i gruppi degni di nota hanno calcato le scene di questo stupendo locale underground .
Le misure di sicurezza sono parecchio rigide e sfuma subito il sogno di poter scattare qualche foto alla band e al posto, peccato!
Saliamo una rampa di scale e la prima sensazione che proviamo è disorientamento: questo posto è un labirinto, pieno di banconi bar (tra cui è giusto ricordare il Keith Moon bar) e scale che portano chissà dove... A noi basta aver trovato la via per salire al piano di sopra; oltrepassiamo l'ultima porta e ci troviamo di fronte l'intera vista della location. Davanti al palco, uno spazio raccolto e non troppo ampio (credo possa contenere, al massimo, 1000-1500 persone), spoglio ed essenziale, in mezzo al quale è situato il banco mixer, delimitato da una griglia che fa tanto post-industriale. Il piano superiore, dove ci troviamo noi, ricorda la struttura di un anfiteatro, alla cui estremità alta è situato un altro bar; poi, man mano che si scende ci sono varie scalinate con tavolini e ringhiere che delimitano uno scalone dall'altro.
L'idea di assistere al concerto comodamente seduti sorseggiando Guinness fa salire non poco l'entusiasmo, anche perché la serata si preannuncia rovente: il settimanale inglese Kerrang!, bibbia del Metal e dintorni, ha creato un'attesa non indifferente attorno a queste due date londinesi esclusive dei Nine Inch Nails, intervistando anche il leader Trent Reznor in un numero speciale uscito proprio nel giorno del concerto, in cui il misterioso guru della band ha preannunciato la volontà da parte dei Nine Inch Nails di salire sul palco e, letteralmente, "spaccare i culi".
Stiamo quindi comodamente adagiati su morbide poltroncine, godendo della birra scura e di un dj set pre-serata davvero eccezionale in cui fanno capolino My Bloody Valentine, Pere Ubu, Pil, Lcd Soundsystem, Rapture, Jesus And Mary Chain, Joy Division e altre meraviglie.
Il locale comincia davvero a essere gremito quando salgono sul palco The Dresden Dolls, nei confronti dei quali nutro non pochi dubbi: fortunatamente vengo smentito da una performance che convince al 100% i difficilissimi fan di Reznor e il sottoscritto, contraddistinta da un drumming potentissimo e parti di piano molto dinamiche ed epiche, da una voce femminile piena di pathos e dalla bontà di questa proposta, tanto noiosa su disco quanto ottima nella dimensione live. Bravi!
Passa qualche minuto e le luci si abbassano: è il delirio. Parte un campione di rumori e sferragliate deflagranti, si scorgono le sagome dei membri della band... attendiamo ancora qualche secondo, lunghissimo, e, finalmente, sale sul palco lui, Trent Reznor: un boato lo accoglie, e lui ricambia dando il via alle danze, sfrenate e disordinate come non mai.
Si comincia subito con due nuovi brani, "Love Is Not Enough" e "You Know Who You Are" e la sensazione è che i Nine Inch Nails siano particolarmente su di giri: Reznor scuote il capo a occhi chiusi per tenere il ritmo incalzante dei brani, il chitarrista si dimena e maltratta il suo strumento, Jeordie White (aka Twiggy Ramirez, ex Marilyn Manson e A Perfect Circle) rimane immobile, concentrato sul groove, l'italianissimo tastierista si divide tra synth e campioni, il batterista tiene su i pezzi con un drumming potente e marziale.
Sono brani nuovi, ma il pubblico risponde oltre ogni più rosea aspettativa.
Dopo questo superbo inizio, è la volta di un cavallo di battaglia, "March Of The Pigs", da "The Downward Spiral": se possibile, la bolgia sotto il palco crea un vortice ancora più potente e incontrollabile.
Al piano superiore la situazione, seppur più calma e statica, è rovente: non c'è un centimetro quadrato libero, tutti sono accalcati nei pressi delle ringhiere e tengono il tempo con testa, piedi, mani e voce. A un tratto mi giro e mi accorgo di aver di fianco a me i reucci scozzesi del post-rock, i Mogwai: provo un certo stupore a osservare i loro volto interessati e i loro capi in movimento... non avrei mai sospettato la loro presenza in questi luoghi di perdizione industrial, ove anche un indie-snob come il sottoscritto non si sente al sicuro.
Dopo un mezzo collasso provocato da questo incontro del terzo tipo, mi riprendo sulle note di un altro nuovo brano, "The Line Begins To Blur", anch'esso molto buono.
I Nine inch nails continuano senza sosta ad attaccare i nostri consenzienti timpani, dimostrando di essere una band davvero impressionante, precisa, puntuale, trascinante, originale: stupisce la perfezione di questo show, vista anche la natura preventiva di questo live esclusivo.
Reznor, in particolare, è un frontman che non teme confronti nella scena rock mainstream (e non solo); convinto al 100% dei propri mezzi, incosciente quanto basta e perfetto nell'essere il catalizzatore di un'energia stratipante, risultato dell'unione di musica e corpo, di rumore e muscoli e nervi tesi.
I Nine Inch Nails pescano a piene mani dall'ultimo "With Teeth" (in uscita a maggio), non dimenticando "The Downward Spiral" e "Pretty Hate Machine", ma trascurando oltremodo quel capolavoro che è "The Fragile", i cui soli episodi ripresi sono "Even Deeper" e "Starfuckers, Inc.", che, sinceramente, dal vivo soffre della mancanza dei dettagli electro, mostrandosi leggermente statica.
Poco male, in fondo, lo show non offre cali di tensione o di qualità di nessun genere.
Le luci si abbassano ed è la volta di "Hurt", forse il brano più bello dell'intera carriera di Reznor, eseguito con toccante trasporto: il pubblico inizialmente canta a gran voce, ma poi sembra che le voci si abbassino per lasciare che Trent sfoghi tutte le sue emozioni, facendosi travolgere da ciò che egli stesso ha scritto. Dopo l'inizio di solo piano e voce, la band fa il suo ingresso e accompagna il suo leader sino alla fine di questa meravigliosa canzone.
Si chiude con "Head Like A Hole", senza bis, dopo un'ora e venti di concerto.
Le orecchie fischiano e le membra stentano a trovar pace; dentro, la consapevolezza di aver assistito a un evento clamoroso.
I Nine Inch Nails, lungi dall'essere una band finita, dimostrano di poter ancora dire la loro nel panorama rock mondiale: attendiamo con ansia l'uscita del nuovo lavoro, sperando che le atmosfere non siano troppo differenti da quelle proposte durante il live .
(Un sentito grazie a Luca Bellini, senza cui tutto questo non sarebbe stato possibile)