
In apparenza algido quanto David Sylvian, con addosso una maschera a metà fra Buster Keaton e Anthony Perkins, Bill Callahan inizia il suo concerto bristoliano con un cavallo di battaglia dai magici poteri springsteeniani come "I Was A Stranger". Ne deduco, sollevato, che nonostante tutto ci vuole riscaldare. Meno male. Una rivista locale, sul genere della londinese Time Out, aveva annunciato questo gig con toni tremebondi, poiché pare che l'ultima volta di Smog a Bristol, i suoi modi glaciali siano stati talmente indisponenti da lasciare l'amaro in bocca a buona parte dell'audience.
Ora, o Bill è cambiato o ha letto quell'articolo e ci ha pensato su. Infatti, poco alla volta e quai impercettibilmente, si trasforma. Certo, non diventa un party animal (e come potrebbe?), ma a suo modo fa spettacolo. Il che consiste in mosse da marionetta alla Gene Vincent, strizzate d'occhio simili a tic (o viceversa), momentanee caracollate, sberleffi alla Chaplin (si è forse studiato il muto americano?!), tutto in un modo legnoso e "understated", che è esattamente ciò che ci si aspetta dal personaggio. In questa messa in scena sobria e per nulla pretenziosa, è sostenuto da Jim White, l'eccellente batterista dei Dirty Three, che mentre suona ammicca e si muove gigionesco come una piovra fra piatti e tom.
Questa sera l'interpretazione del repertorio callahaniano è strettamente legata all'atmosfera di "A River Ain't Much To Love", con dominante country e minimal-folk anche se, come è giusto attendersi da un live, con iniezioni di rock potente a spezzare la piacevole narcolessi dello show. E' impressionante constatare come Bill sembri quasi godere nel mostrare la semplicità delle sue composizioni, alcune suonate a corde vuote su arpeggi usuratissimi, come "Rock Bottom Riser": la scabra superficie è squarciata con la sua sola voce, che scava una profondità immensa come solo Cohen, Reed e Cash hanno saputo fare.
Basso e chitarra sono equilibrati e calligrafici nel costruire tradizionali impalcature country-folk, mentre White stupisce con spazzole o bacchette in ogni brano, aggiungendo una dimensione improvvisativa morbida come uno sfondo flou anche quando risuona potente. L'interplay fra acustica ed elettrica rasenta una tenue psichedelia e in più di un'occasione c'è un sentore di jazz. Il tutto sovrastato dall'attitudine petrosa di Callahan, che dal vivo mostra scopertamente la sua anima ribollente di vitalità. Oltre alle canzoni dall'ultimo disco, un paio da "Dongs Of Sevotion" ("Bloodflow", quasi Gun Club, e la sempre magnifica "Dress Sexy At My Funeral"), "Our Anniversary" da "Supper", "I Break Horses", "Floating" e un bis fiammeggiante con "Cold Blooded Old Times". Infine una mia soddisfazione, o forse una semplice proiezione: averlo visto sorridere con stupore, quasi senza controllo, al calore del pubblico letteralmente esaltato dalla potenza di questa musica. Che poi cosa fa... Racconta la solitudine con una grazia rara.