06/09/2005

Wilco

Mazdapalace, Milano


"Quello che erediti dai tuoi padri, riguadagnalo per possederlo", scriveva Goethe nel "Faust". Nessuno come gli Wilco, in questo primo scorcio del nuovo millennio, ha dimostrato di saper partire dalla tradizione folk-rock americana più classica, riletta attraverso la sensibilità alt.country, per raggiungere un’innovazione mai puramente cerebrale, in cui il ricorso all’elettronica e la ricerca rumoristica diventano strumenti di un’autentica messa a nudo dell’anima.
L’occasione di ascoltarli in un concerto gratuito alla Festa dell’Unità di Milano è quindi di quelle da non perdere. E il pubblico, anche se probabilmente preso in contropiede dalla puntualità dell’inizio della serata, arriva a riempire dopo i primi brani quasi tutto il parterre del Mazdapalace, seguendo con una calorosa partecipazione ogni nota della band americana.

L’avvio, affidato alle atmosfere madreperlacee del pianoforte di “Hell Is Chrome”, conduce subito in una dimensione intima e avvolgente, in cui la voce ferita di Jeff Tweedy lacera immediatamente ogni difesa del cuore, mentre la band costruisce un crescendo solenne e maestoso. Il basso rotondo di “Handshake Drugs” introduce una cavalcata altrettanto travolgente, in cui i liquidi assolo di un virtuoso della chitarra del calibro di Nels Cline vengono travolti dal turbine di feedback del finale.
Non c’è nessun orpello scenico a dare sostegno al concerto, con un gioco di luci ridotto all’essenziale e la sobria gestualità dei sei sul palco. Ma non se ne sente la mancanza neppure per un istante, di fronte a una musica così capace di assorbire l’attenzione.

Nonostante Jeff Tweedy lamenti qualche difficoltà tecnica, la sicurezza con cui gli Wilco creano i loro stratificati muri sonici convince senza riserve. Tra le frastagliate dissonanze di “I Am Trying To Break Your Heart”, la batteria di Glenn Kotche si destreggia riempiendo ogni spazio con i suoi rintocchi, mentre “At Least That’s What You Said”, accolta dal pubblico con un’ovazione sin dalle prime note, stordisce con il suo passaggio da rarefatta ballata a imponente distorsione.
Così, la spensieratezza pop di “Hummingbird” è solo una pausa leggiadra prima di giungere al cuore pulsante della serata, una “Via Chicago” in cui la repentina alternanza di esplosioni e silenzi lascia senza fiato, creando uno straniante contrasto tra la dimessa melodia inseguita dalla voce di Tweedy e i deflagranti climax della band, da qualche parte tra Neil Young e i Radiohead.

I plastici arrangiamenti di “War On War” e “Jesus, Etc.” conferiscono ai brani un’inedita vivacità e gli Wilco si lanciano anche a improvvisare su un nuovo, rovente rock-blues, presentato da Tweedy come un work in progress. A dominare la scaletta sono come prevedibile gli episodi tratti dai due più acclamati lavori del gruppo, “Yankee Hotel Foxtrot” e “A Ghost Is Born”, anche se non mancano un paio di canzoni tratte dai due capitoli di “Mermaid Avenue”, in cui gli Wilco hanno messo in musica insieme a Billy Bragg alcuni testi dimenticati del folksinger per eccellenza, Woody Guthrie.
Prima dei bis c’è spazio ancora per una torrenziale versione di “Spiders (Kidsmoke)”, in cui gli Wilco colorano di un blues tenebroso il kraut-rock dell’originale, fino alla catarsi prolungata del chorus chitarristico, con le luci puntate sulla platea.

Al ritorno sul palco della band, il clima si fa più rilassato e sorridente, anche se inevitabilmente meno intrigante, lasciando spazio al rock ruspante di brani come “The Late Greats”, “I’m A Wheel” e “Outtasite (Outta Mind)”, con il chitarrista che si concede persino qualche mulinello alla Pete Townshend... D’altra parte, “il rock ‘n’ roll è parte della cura”, come dichiara Jeff Tweedy prima di mettersi a giocare col pubblico nella vecchia “Kingpin”, invitando tutti a seguirlo in un urlo liberatorio.
Ma a ricordare che quello degli Wilco è ben più di un rock ‘n’ roll party ci pensa di nuovo “Misunderstood”, il brano che per primo ha scavato il solco tra le due fasi della carriera del gruppo, in cui la reiterazione dei versi finali, “I’d like to thank you all for nothing at all”, si trasforma in una martellante ossessione che lascia attoniti per la sua forza.

Perché il cerchio si chiuda, non resta a questo punto che tributare un ultimo omaggio alla “repubblica invisibile” dylaniana, con una cover di “I Shall Be Realesed” in cui brilla il riflesso leggendario della Band. Il coronamento perfetto di una serata alla fine della quale le radici della musica americana sembrano più antiche e più nuove che mai.