Nel 1966, una bomboletta spray scrive sui muri della stazione della metro di Islington: “Clapton is God”.
Eric, dopo aver lasciato gli Yardbirds, si unisce ai Bluesbreakers di John Mayall e, con la sua Gibson Les Paul collegata a un amplificatore Marshall, fa letteralmente impazzire la scena musicale inglese. Dopo l’uscita del seminale “Bluesbreakers With Eric Clapton”, infatti, quasi tutti vogliono suonare come lui. A quarant’anni da quei graffiti, Eric Clapton non è più una divinità e, forse, non vuole nemmeno esserlo. La Manolenta del blues è, oggi, un tranquillo sessantenne che ha ancora voglia di vagabondare per il mondo con la sua “Blackie”, cercando un percorso musicale che lo “riporti a casa”.
Non è soltanto un gioco verbale con il titolo del suo nuovo disco: Clapton è effettivamente tornato indietro nel tempo, ai suoi primi dischi da solista negli anni 70.
Dopotutto, la sua vita artistica e personale non è stata per niente facile. Dai continui litigi con i Cream all’amore disperato per Patti Boyd-Harrison, dall’eroina ai sospetti di imborghesimento sonoro, un’altalenante costellazione di cadute e risalite, sfregiata dalla prematura morte del figlioletto Conor.
Fino a questa infreddolita sera d’estate, a Perugia, nella splendida cornice dell’arena Santa Giuliana, poco sotto il centro storico in fermento per la nuova edizione di Umbria Jazz. In questo ritrovato itinerario musicale, Clapton torna agli stilemi di “461 Ocean Boulevard”, miscelando il blues delle sue radici con il soul e il pop plasmato e addomesticato.
Con una vibrante sezione fiati e due coriste, la band si lancia, così, in brani travolgenti al limite del funk come “So tired” e, soprattutto, una stravolta rilettura di uno dei classici dei Derek And The Dominos, “Got To Get Better In A Little While”. Sempre vigile, Eric condivide generosamente le sue parti di chitarra. E, a volte, va a finire che il mancino Doyle Bramhall II e lo splendido, intenso Derek Trucks vadano addirittura a superare la vecchia divinità del blues-rock.
“Old Love” (con Robert Cray, opening act del concerto) si dilata quasi all’infinito, tra piangenti chitarre slide e tastiere liturgiche. Certo, la voce di Clapton non riesce più a graffiare come nell’abrasivo “From The Cradle”, ma quando arrivano i riff di “Everybody Oughta Make A Change” e “Motherless Children” tutto sembra fermarsi, anche se per pochi minuti, davanti alla sua Fender bianca e nera.
I musicisti si allontanano e Slowhand si mette comodo, imbracciando una chitarra acustica. Inizia, così, la parte morbida del concerto, purtroppo rovinata dallo stesso pubblico di Perugia.
Mentre Eric suona la triste “Back Home” e la gemma “I Am Yours”, molti dei settemila paganti danno vita a un ciarliero passeggiare nemmeno si trovassero sul lungomare di Reggio Calabria. Ci fosse stato lo Springsteen del tour di “Devils And Dust” li avrebbe trucidati dopo pochi secondi.
Clapton, invece, continua a tessere accordi malinconici, a beneficio dei pochi asociali e silenziosi. E “Nobody Knows You When You’re Down And Out” e la magnifica “Running On Faith” vengono eseguite in modo molto simile al fortunatissimo “Mtv Unplugged”.
Tolta la sedia, la big band torna sul palco perché è arrivato il momento di fare sul serio. Alla fine, la terza parte del concerto porterà, con un pugno di canzoni, la folla al delirio.
La triade Clapton-Bramhall II-Trucks si lancia in una vera e propria orgia di chitarre blues e “After Midnight” fa solo da antipasto.
L’intro di “Have You Ever Loved A Woman” si trasforma nella cover di Robert Johnson “Little Queen Of Spades”, giocata su rallentamenti melodici e accelerazioni improvvise. La band cavalca il momento propizio con il riff di “Let It Rain” e poi lascia andare da solo Clapton con l’immortale melodia di “Wonderful Tonight”, accompagnata dalle numerose coppie di innamorati di tutte le età.
Si avvicina la fine e, con essa, il vertice del concerto. Il riff di “Layla”, accolto da un vero e proprio boato, suona fresco e potente come trent’anni fa, e la trascinante “Cocaine” si allunga e coinvolge nel ritornello cantato dalle due calde coriste soul.
Le luci si spengono e la band si ritira nel backstage, ma il pubblico è ormai carico e non vuole saperne di tornare a casa. Qualcuno va già via, ma si perderà un bis bellissimo. Clapton rispolvera il repertorio Cream, e “Crossroads” risplende sotto la luna perugina con potenti e graffianti incroci di chitarre blues. E’ davvero finita, adesso. Slowhand sorride, inchinandosi.
In una notte di luglio, in Umbria, ho visto in faccia Dio. Porta gli occhiali e ha parlato di cocaina.