Wayne Coyne non è solo il cantante, il frontman e il pensatore dei Flaming Lips. E’ un autentico maestro di cerimonia; il celebratore di un rito giocosamente laico votato alla liberazione delle energie più positive dell’animo umano. Così come il concerto dei Flaming Lips non è un semplice live set, ma un circo pirotecnico dedicato alla creazione di un mondo alternativo al nostro, una fiaba in technicolor dalla quale sono banditi i toni grigi e qualunque cosa rientri nei confini dell’ordinario e del quotidiano. Prima di iniziare lo spettacolo, un emozionato Wayne Coyne girovagava incessantemente dietro le quinte, addirittura da prima dell’esibizione degli Ok Go, band di supporto dal look vagamente mod e dalle sonorità sfacciatamente glam (tra David Bowie e i Franz Ferdinand, per intenderci). Dopo lo show di questi, chiuso in bellezza da un’esilarante balletto in stile videoclip degli anni 80, c’è voluta più di mezz’ora perché il Circo Flaming Lips fosse finalmente pronto a partire. Coyne si è assicurato di persona che ogni marchingegno fosse al posto giusto, che ogni trovata scenica funzionasse; tutto questo gironzolando incessantemente sul palco e dietro le quinte, fregandosene di essere l’osannato leader della band, colui che dovrebbe comparire tra le urla della folla quando tutto sta per cominciare. L’ happening multimediale del gruppo è iniziato solo quando il cantante si è infilato in una grossa sacca di plastica gonfiata da un forzuto superman di gommapiuma. Accompagnata da un crescendo di tastiere, la sfera d’aria contenente il frontman è poi schizzata verso il pubblico, rotolando su diverse teste incredule prima di tornare sul palco. Finito il rito preparatorio Coyne si è finalmente posizionato dietro al microfono per aprire la serata con l’epico intreccio tra cori e tastiere di “Race For The Price”, direttamente da “The Soft Bulletin” (1999). Il pubblico è subito impazzito, incoraggiato dall’esplosione di una pioggia di coriandoli sparati da due appositi cannoni. Ma le sorprese non sono finite qui; perché durante il brano una ventina di Santa Claus e altrettante, graziosissime aliene dal vestitino viola hanno invaso i lati del palco ballando senza sosta per tutta la durata del concerto.
Secondo brano della serata è stata la nuova “Free Radicals”; un funk psichedelico dal passo pigro. Un pezzo di Prince suonato come se il folletto di Minneapolis decidesse di eseguire una sua canzone a velocità dimezzata. E’solo il primo di alcuni brani dove il gruppo chiede esplicitamente la collaborazione del pubblico, in questo caso corista d’eccezione per il refrain “fanatical fuck!”. Coyne ha voglia di comunicare, parla senza sosta nella pausa tra un brano e l’altro: dice dell’importanza di trovarsi lì tutti insieme, del rapporto simbiotico che si crea tra noi e lui, di come sia bello vivere nello spazio, di come sia splendido arrivarci con la musica, ecc. L’ironia con cui veste i panni del guru (post)hippie, e la voglia di far ridere il proprio pubblico, lo rendono mai stucchevole e sinceramente divertente. Tra una canzone e l’altra (non) suonerà diversi tipi di chitarre giocattolo, tutte corredate di lucine lampeggianti, adesivi colorati e quant’altro. Tutto il mondo dei Flaming Lips è all’insegna del gioco, dell’happening creativo e libero da qualsiasi canone formale, anche se poi la chitarra costantemente effettata di Steven D Drozd è tutt’altro che sconclusionata, sempre precisa nel disegnare possibili mondi più desiderabili del nostro. “Yoshimi Battles The Pink Robot Pt. 1” viene accolta da un boato e accompagnata dalle immagini dell’omonimo videoclip; in coda viene ripreso il ritornello per soli piano e voce, strofe che Coyne lascia interpretare a un simpatico bambolotto manovrato dalla sua mano oltre che dalla sua voce. Anche “The Yeah Yeah Yeah Song” lascia spazio all’improvvisazione, questa volta sull’attacco, acustico e con il pubblico di nuovo in veste di coro. Sullo schermo intanto scorrono immagini di varia natura, perlopiù inedite e create dallo stesso Coyne: paesaggi immaginari a metà strada tra la realtà e l’animazione; dove non di rado compaiono suggestioni “manga”, immagini notturne e vagamente surreali di un Giappone molto simile a quello mostrato in “Lost In Translation” di Sofia Coppola. “The W.A.N.D.”, con un riff di chitarra talmente filtrato da sembrare quello di un synth, viene eseguita con luci abbaglianti e costantemente sparate sugli occhi del pubblico.
Poco dopo arriva il pezzo più vecchio della scaletta: “She Don’t Use Jelly”, direttamente dall’album “Trasmissions From The Satellite Heart” (93). Ancora una volta si parla dello spazio, di un possibile altrove: non per nulla Steven G Drozd è vestito da astronauta... La chitarra si fa più sostenuta, a ricordare un passato in cui i nostri si dilettavano con certe distorsioni care al college-rock americano; oltre che con quella follia “zappiana” che ancora scorre nelle loro vene.
La prima parte del concerto è chiusa da una “Do You Realise” fatta di tastiere e chitarre quasi impalpabili, accompagnata dalla solita pioggia di nastri e coriandoli. Acclamatissimi dal pubblico (oltre che da “babbi natale” e aliene) i nostri riprendono lo show con “A Spoonful Weighs A Ton”, ennesimo get back direttamente al cuore degli anni 60, alle melodie più cristalline dei Beatles e dei Beach Boys. La serata si chiude a sorpresa con il brano più cupo della scaletta, una prova significativa del fatto che i Flaming Lips non sono del tutto (non ancora) fuggiti sulla luna, ma si interessano al presente e lo giudicano da una posizione diversa, fieramente alternativa. Introdotta da una dedica a George W. Bush, con la sincera speranza di Coyne che la canzone possa scuoterlo e fare tabula rasa del suo cervello, arriva una “War Pigs” dei Black Sabbath che suona anche più rabbiosa dell’originale. La chitarra di Drozd sporca il rigido riff di Tommi Iommi, portandolo decisamente verso il noise. Le immagini delle vittime della guerra, alternate agli interventi televisivi del presidente, contribuiscono a rendere il brano (e il suo testo) decisamente attuali.
All’inizio del concerto, mentre Coyne rotolava felice nella sua bolla d’aria (ma ha poi mai smesso di farlo?), sullo schermo campeggiava la scritta: “Let yourself to have an epic experience”. Dopo esserci concessi questa “epica esperienza” il vero problema è riuscire a tornare sulla terra. I Flaming Lips l’hanno definitivamente lasciata nel lontano 1985, per partire verso un pianeta dal quale continuano a osservarla e a darci preziosi consigli su come trascendere un presente tutt’altro che desiderabile.