16/09/2006

Pearl Jam

Arena, Verona


“Ho percorso e ho strisciato per sei tortuose autostrade. Ho visto diecimila persone parlare con lingue spezzate. Ho sentito il fragore di un’onda tale da sommergere il mondo intero. Ma saprò bene la mia canzone prima di incominciare a cantare. Una dura, una dura, una dura, una dura, una dura pioggia cadrà”. Basterebbero questi pochi versi di Bob Dylan per esprimere il vero senso di una giornata di metà settembre, passata ad aspettare i Pearl Jam, nella città immortale dei Capuleti e dei Montecchi.
Sono sei anni che la band di Seattle manca all’appuntamento dal vivo in Italia, paese amato quanto ignorato, almeno dopo la chiusura del tour di “Binaural”. Oggi, una settantina di dischi dal vivo dopo, i Pearl Jam tornano in quello che Vedder definisce “uno dei tre posti al mondo in cui mi piace suonare di più”.

E’, ormai, pomeriggio inoltrato e, all’interno dell’Arena, cominciano ad accendersi le prime, deboli luci. L’attesa del pubblico è a dir poco spasmodica e sembra quasi che la città si sia fermata di colpo, come un gigantesco cuore d’innamorato che attende il ritorno dell’amore della sua vita. Ma, contemporaneamente, tutti sperano che Bob Dylan non sia davvero quel profeta che dicono. E una dura, fitta pioggia comincia a cadere. Un centro commerciale diventa, di colpo, un campo zingaresco. C’è chi suona “Daughter” con una chitarra acustica, chi beve vino rosso per riscaldarsi e chi prepara impermeabili da caccia alla balena.

Poi, verso le otto e trenta, la pioggia offre la sua tregua e tutti escono come topi dalle loro tane, con la speranza che i Pearl Jam riescano a creare la loro magia, al di sopra della stessa volontà atmosferica. Ma a godersi la tregua sono soltanto gli ottimi My Morning Jacket, alfieri di una sintesi efficace di Rem e U2. Lo scenario, all’interno di un’ arena stracolma, è splendido, nonostante le poltroncine zuppe. E, lentamente, una pioggia sottile ricomincia a cadere su un pubblico stoico, in visibilio totale.
Questa volta, però, la pioggia diventa un fattore aggiunto. Le luci si spengono e un boato assordante accoglie Vedder e soci. Poi un silenzio liturgico accompagna i primi accordi di “Release”. La nenia à-la Doors avviluppa tutti come un serpente benevolo e, quando Vedder innalza la canzone al cielo, le luci giocano con l’acqua che scende incessante. Il concerto è soltanto all’inizio, ma la magia di Verona è già compiuta.

Il Seversen III offre le prime parole alla platea e invita tutti alla sicurezza, assicurando che l’Italia è per il gruppo come una seconda “patria”. “Siete belli bagnati…” dice al pubblico, e immediatamente il gruppo lo segue nella copia zeppeliniana di “Given To Fly”. E’ soltanto la terza canzone, ma “Curdoroy” viene accolta con un boato e il duo Gossard-McCready comincia a trascinare la folla, tentando di annullare l’effetto quasi paralizzante della pioggia che viene giù sempre più forte.
Così, arriva il momento di gloria del riff: McCready salta come un indemoniato e “World Wide Suicide”, “Do the Evolution” e “Severed Hand” fanno riscaldare i piedi bagnati e infreddoliti. E quello che rimane è soltanto un po’ d’invidia per il vino rosso che Vedder sta bevendo da una bottiglia, al riparo, mentre apre la bellissima “Love Boat Captain”.
Lo show prende piede in maniera veemente e McCready esalta Verona con una prestazione incendiaria durante “Even Flow” con tanto di chitarra dietro la nuca. Il tempo di un blues (“Half Full”) e di una ballata da lucciconi agli occhi (“Gone”) e il miracolo tanto atteso si avvera. Nel momento in cui Matt Cameron comincia a martellare il ritmo di “Not For You”, la pioggia cessa di battere e uno squarcio di notte stellata illumina l’arena. Forse è un messaggio di Kurt Cobain, ovunque egli sia in questo momento.

Mentre un timido vento accarezza i vestiti bagnati, arriva il turno della splendida, intensa “Jeremy”. I Pearl Jam tornano ai loro classici del passato con un’emozionante versione di “Betterman” e una sanguigna “Blood”. Certo, Vedder non ha più la voce degli inizi, ma la carica è rimasta intatta, così come la capacità di sentire e far sentire i suoi testi.
Il frontman apre, subito dopo la nuova “Inside Job”, anche un momento di celebrazione. “Come Back” viene teneramente dedicata allo scomparso Johnny Ramone e a tutti i fan dei fratellini di Forest Hill che, all’unisono, non esitano a intonare l’immortale slogan demenziale “Hey! Ho! Let’s go!” quando la band esegue la cover di “I Believe In Miracles”.
Vedder decide che è arrivato il momento di dare spettacolo e, così, durante una vibrante “Porch” bagna di luce ogni lato dell’arena con il riflesso della sua chitarra. “Elderly Woman” scatena le ugole di tutti, seguita da una quasi gag della band che parte, per pochi minuti, in una demenziale cover di “My Sharona”, trasformata da Vedder in “My Verona”.
Al di là dell’inutilità della cosa, il pubblico si dimena, divertito dall’omaggio inaspettato.

E’ soltanto il prologo, la quiete prima della tempesta. Il finale della band, durante il secondo bis, è un crescendo sorprendente, infuocato, mozzafiato. Si parte con “Once” per sfociare nell’immortale inno “Alive”, con Vedder che si dimena, forse leggermente ubriaco, prima sul palco e poi addirittura salendo lungo le due gradinate laterali dell’arena.
Le luci si accendono del tutto e sembra di vivere uno scenario da apocalisse sonora durante la travolgente cover di “Rockin’ In The Free World” di Neil Young e, soprattutto, con il finale pirotecnico di “Yellow Ledbetter”. McCready si esalta e saluta Verona, disteso a suonare sul palco. Applausi, esaltazione, gioia. Il concerto è finito e, con esso, tutte le energie vitali di un pubblico che, mai come stasera, ha dimostrato cosa voglia dire amare una rock band.
Ci rivediamo tutti tra sei anni. O forse no?

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