
I brani, già eseguiti in questo tour, che si sperava di ascoltare erano ben altri: “Indigo”, “Hundrum”, “Moribund The Burgermeister”, “I Don't Remember”, We Do What We're Told”... E invece, riecco la solita versione “in crescendo” di “Solsbury Hill” per soddisfare una platea che magari non è che si destreggiasse bene nei meandri meno noti della discografia gabrielliana.Perché non una esibizione integrale di "IV"? Tanto il Gabriel migliore sta tutto lì. E di certo ho sempre sperato in una setlist che pescasse molto da lì: almeno una “Wallflower”, almeno una “The Family And The Fishing Net”... Invece si è giocato al teatrino dei ricordi provando ad estrarre qualche titolo da ogni album.
Gabriel non ha più la forza di fare l'istrione ma il guaio è che ci prova lo stesso. Risultando un po’ sgraziato e, alla fine, di dubbio gusto (ma quanto dovranno durare le “macchiette” di Steam?): perché non rimanere elegantemente dietro le tastiere, magari mettendoci un po’ di impegno in più? La band, nonostante un Tony Levin e un David Rhodes sempre ad alti livelli, ha perso un po’ di smalto e deve puntare di più sul muro ritmico di Ged Lynch (che fra l’altro non sembra per nulla uno “spirito affine” al calvo e baffuto bassista). Il solito insulso tastierista di turno (stavolta abbiamo Angie Pollok) riesce solo a dar vita a sonorità già da tempo archiviate negli hardware sonori di Gabriel.
In generale, comunque, la performance è stata molto carente dal punto di vista delle dinamiche dei suoni: a titolo di esempio, citerei “No Self Control”, in cui la chitarra non riesce a fare uno stacco netto quando entra la batteria. Un concerto privo colpi di reni, insomma. Anche la setlist non è stata studiata con cura al fine di evitare l’inefficacia di certe sequenze di brani.
In fin dei conti, nei confronti di questa data ho provato, per usare una espressione in inglese, "mixed emotions". A 20 anni dalla magia del “So tour”, le cose, inevitabilmente, non sono più le stesse...