Una roba psichedelica. È forse questa la migliore definizione per farvi figurare l’impatto, perlomeno visivo, dei Legendary Pink Dots. Scalzo, insaccato in un manto nero con tanto di sciarpa rosa a scorrergli addosso e capelli di un’imprecisata tonalità fra rosso e rosa, Edward Ka-Spel è una via di mezzo fra David Tibet e Antony, un Renato Zero indie con una certa tendenza all’oscurità. Ai suoi lati un sassofonista calvo (in completino ipnotico rombi nei rombi, nero e bianco) e un tastierista freak un po’ attempato (capelli grigi a cipolla e magliettina scolorita gialla-arancio a spirali). Al suo fianco un ragazzetto alto e magro in jeans e maglietta, che pare capitato lì per caso, ad occuparsi delle corde.
Io non conosco i Legendary Pink Dots, sì, cioè, è un nome che gira, per qualcuno una leggenda, probabilmente un gran bel gruppo, per qualche altro ancora essenziale. Resta il fatto che saremo un cinquanta/cento persone, e, considerando che un terzo è lì per caso o curiosità, come me, e un terzo è il classico pubblico bene che non può perdere un concerto bene (sì, sono ironico), beh, gli appassionati dell’imperdibile bla bla sono decisamente pochini. Onore comunque alla Galleria Toledo e Wakeupandream, organizzatori di questo e molti altri notevolissimi concerti in zona, nonostante tutto. Ok, pare una leccata di culo, lo è, però è gratis, senza contropartite, il biglietto lo si è pagato e i tizi in questione ignoro chi siano, e comunque non mi pare il caso di vendersi per dieci euro, fossi andato a vedere gli U2 eventuali maliziosi sospetti sarebbero stati più legittimi.
Dopo una breve declamazione sulla creazione, che tira in ballo i Pink Floyd e i Dvd, i motori sono pronti per partire e lanciarsi in un altro mondo. Già, perché la potenza dei Dots è stata questa, la capacità di trasportare lo spettatore, in coinvolgimento assoluto, nel mondo di Ka-Spel. E’ la riprova più semplice e palese di un talento, avere qualcosa da dire, e farlo capire e vedere coi propri occhi a una platea (in questo caso si potrebbe dire sentire con le proprie orecchie, ma in realtà è più che altro un fatto di testa).
Il canovaccio non ha presentato grosse variazioni, soprattutto un amalgama di elettronica a fare da base alle evoluzioni vocali del leader, teatrale creatura della foresta che sfoggia varietà di toni, dallo sciamanico all’infantile, dal pastorale al gotico; e alle intrusioni di sax, notturno e fremente. In più, una certa dose di ironia, a rendere il tutto più familiare (e quindi condiviso), come quando il sax sputa improvvisamente note nella chioma riccia di una ragazza vagamente distratta in prima fila, e finisce a ripetere il giochetto a quasi tutti gli astanti con tanto di giro fra le poltrone. Poco spazio invece alla chitarra, salvo quando viene giocata la carta acustica per tirar fuori un paio di nenie fanciullesche, e una liberatoria schitarrata sull’ultimo pezzo.
Non saprei dirvi le canzoni, o gli album cui è stato dato più o meno spazio. Ho deciso di scrivere di questo concerto, pur da ignorante, proprio perché al di là della bontà dei pezzi (che sì, erano belli, alcuni davvero parecchio), della qualità sonora (e il suono era bello compatto), del valore degli strumentisti (le tre-quattro fughe strumentali che hanno piazzato depongono a loro favore) o del cantante (eccezionale), i Legendary Pink Dots hanno colpito a livello mentale, e trascinato via da ogni singola questione critica chicchessia. Testimonianza ne è stato anche il riscontro del pubblico, che in quella stessa sede e con non pochi elementi in comune, era rimasto colpevolmente glaciale dinanzi ai pur bravissimi Faust, e che stavolta ha acclamato con convinzione (qualcuno ha urlato anche “nudo” a Ka-Spel, consiglio per fortuna non ascoltato), sia a ogni singolo pezzo, sia nei vari finali (i Dots sono tornati altre due volte sul palco, per un totale di un paio d’ore di concerto, una e mezza effettiva con nessuna sosta fra i brani).
Insomma, se capitano dalle vostre parti non resta che consigliarveli, perché probabilmente è vero, sono una grande band, e perché anche se non lo fossero, la loro rappresentazione artistica merita una visione.
P.S. Onore anche al signore, come dire, un po’ avanti con gli anni, che, palesemente in sintonia con mondi alternativi, ha regalato tre invasioni di campo, due sul palco (una all’inizio, dopo il primo pezzo, per consegnare una bottiglia di vino a Ka-Spel e una alla fine per abbracciare il sassofonista) e una sotto, a terra, strisciando a pancia all’aria sulle note di sax. E’ vero, aveva una maglietta del Morrison Hotel, ma non credo che con Re Lucertola si volesse dire esattamente questo.
Errata corrige: dalla regia ci dicono che il suddetto signore non sia poi così avanti negli anni, ma che è un problema di capelli. Ad ogni modo chi volesse saperne di più sul personaggio vada su youtube e cerchi alla voce "capajanca". Buona visione.