
La cornice destinata ad accogliere l’evento è il teatro Tendastrisce, in un sabato novembrino di freddo pungente.
Sul biglietto (acquistato una settimana prima, coll’ormai consueto e fastidioso balzello della prevendita) è scritto a chiare lettere che l’apertura dei cancelli è prevista per le ore 19.00: l’inizio del concerto un’ora dopo. Ad aprire la serata penseranno gli inglesi Anathema, band di Liverpool passata dal doom-metal degli esordi ad atmosfere più morbide e psichedeliche. Un rapido ascolto dei pezzi più recenti sul loro myspace conferma quest’evoluzione, tanto che a tratti sembra di ascoltare i Porcupine dei primi dischi.
All’arrivo al teatro, però, alle 19.50, gli Anathema hanno già iniziato il loro spettacolo: faccio appena in tempo a entrare che il gruppo attacca col secondo pezzo in scaletta, “Closer”. Il brano è interessante, anche se la voce filtrata al vocoder di Vincent Cavanagh diventa, col passare del tempo, anche abbastanza irritante. Il loro concerto non resterà negli annali, e questo non tanto per la prestazione del gruppo, ma per la durata stessa della loro performance. Alle 20.40, infatti, la band abbandona già il palco per dare spazio agli headliner, dopo neanche 40 minuti di concerto e sei, sette brani, a dire tanto. Al disappunto provato per l’inizio anticipato dell’esibizione, si aggiunge la delusione per la brevità dell’evento, eccessiva anche trattandosi di un gruppo spalla. Proprio per questo è anche difficile dare un giudizio esauriente della performance e della formazione: in sintesi, gli Anathema sono parsi un gruppo onesto e professionale, ma non certo irresistibile.
E così, con le note in sottofondo di “Angel” dei Massive Attack, inizia l’attesa per l’evento principale della serata. Già all’ingresso nel teatro, è chiaro che quasi tutti ci troviamo lì per “l’albero del porcospino”. I Porcupine Tree devono molto al nostro paese, soprattutto al pubblico della capitale. Le prime avvisaglie di popolarità il gruppo le ha ottenute qui: in Inghilterra vengono praticamente ignorati, tuttora. Tutto fa quindi sperare in un concerto particolarmente sentito da parte della band. Alle 21.00, Wilson e compagnia fanno il loro ingresso sul palco, mentre dietro di loro si susseguono su uno schermo le immagini preparate per la promozione del disco “Fear Of A Blank Planet” e del recente Ep “Nil Recurring”. Non posso, poi, fare a meno di notare, con un sorriso ironico, uno sgrammaticato striscione “keep on plaing and the planet will never be blank”.
Fin dall’inizio del concerto, ci si accorge del netto divario che separa gli headliner da chi li ha preceduti. A livello tecnico, il gruppo è agguerritissimo: Wilson, rimasto fisicamente identico a com’era quindici anni fa, è un valido polistrumentista e, a dimostrarlo, ci sono i primi due dischi della band, registrati, dal primo all’ultimo strumento, dal leader. Possiede poi una voce dal timbro avvolgente, particolarmente adatta al loro genere. Alle tastiere troviamo il veterano del combo, Richard Barbieri, erede di un glorioso passato al fianco di David Sylvian nei Japan. Alla sezione ritmica, troviamo Colin Edwin che, nel corso del concerto, non dimostrerà di essere un mostro di fantasia e improvvisazione, ma di certo un bassista preciso ed efficace; alla batteria, invece, siede il vero fenomeno della serata, Gavin Harrison, turnista tanto spaventoso tecnicamente quanto fantasioso nei fill che sciorina, e che riceverà una giusta ovazione al termine dell’evento. Ad affiancare Wilson alla chitarra, il bravo John Wesley.
Come previsto, la scaletta prevede l’esecuzione di tutto il nuovo disco, dalla title track alla lunga “Anesthetize”, col suo alternarsi di placide digressioni strumentali e sfuriate metal, fino a “Sleep Together”, forse il pezzo migliore dell’album. Trova spazio anche l’esecuzione di un pezzo dall’Ep appena uscito, “Nil Recurring”.
Per quanto riguarda i ritorni al passato, Wilson sembra ormai da alcuni anni restio a recuperare materiale dai primi tre dischi, tra l’altro forse i più interessanti della carriera del gruppo. Così, i flashback si limitano a pezzi come la romantica e orecchiabile “Lazarus”, o la furiosa “Open Car”, l’episodio più heavy del concerto, entrambe dal disco “Deadwing”.
Gran parte del concerto vede quindi protagonisti i brani dell’ultimo periodo, quasi tutti uguali a se stessi nella struttura: solito alternarsi di parti cadenzate e meditative con accelerazioni improvvise e violente. I limiti del progetto di Wilson stanno proprio in questo: da una parte, l’appena citata ripetizione dei soliti stilemi all’interno dei pezzi; dall’altra, l’eccessiva carne al fuoco buttata in brani, spesso anche troppo prolissi. Di continuo si affacciano i riferimenti ai gruppi più svariati: dagli ormai risaputi Pink Floyd, ai Tool (anche nel cantato), ai Dream Theater, fino ad arrivare a degli impensabili Rage Against The Machine! Anche per questo il concerto, pur interessante, soffre di diversi momenti di stanca.
Com’era logico che accadesse, risalita sul palco dopo aver proposto la solita manfrina della finta fine del concerto, la band sfoggia le carte migliori e va a pescare nel passato più lontano. Spuntano così, in scaletta, un’inaspettata e gradita “The Sky Moves Sideways Phase 1”, “Even Less”, dall’album “Stupid Dream” e, per chiudere in bellezza, “Halo” dal pluricitato “Deadwing”. E’ questa la parte più divertente e riuscita del concerto, e la reazione del pubblico, adesso pienamente partecipe e coinvolto, lo dimostra.
Alla fine della performance, non si può certo dire che il gruppo si sia risparmiato: sono le 23.20 circa e la band ha suonato per più di due ore. Rimane l’amaro in bocca per non aver goduto della proposizione dei pezzi più vecchi, nonché la delusione per l’assenza totale di brani dal riuscito album del 2002, “In Absentia. In ogni caso, un concerto interessante e potente, di uno dei gruppi sicuramente più validi e ineccepibili da un punto di vista tecnico, presenti sulla scena oggi. Tuttavia, bisogna riconoscere che non è stato il concerto più coinvolgente a cui si possa assistere: nelle corde dei Porcupine, non c’è questa dote, come non c’è la creatività e l’originalità di altri gruppi loro contemporanei.