22/05/2007

Violent Femmes

Alpheus Mississippi, Roma


di Mauro Vecchio
Violent Femmes
Fedro o non Fedro, da sempre, nel percorso dell’umanità, esistono le favole. La nostra ha per protagonisti tre musicisti di strada di Milwuakee, Wisconsin. E’ l’agosto del 1981 quando il fato vestito da James Honeyman-Scott (meglio conosciuto come il chitarrista dei Pretenders) decide di baciare un trio di strampalati a nome Violent Femmes. Ovvero come passare senza mezze misure da un angolo di strada ad aprire il concerto della band di Chrissie Hynde.
Mettiamo, tuttavia, in chiaro una cosa fin da principio: i Violent Femmes non hanno mai raggiunto la grande popolarità di massa. La nostra non è una favola come quella degli U2, ma un viaggio sotterraneo negli angoli più remoti della tradizione musicale americana. E se proprio vogliamo parlare di fama basta dire soltanto che il loro strepitoso disco di debutto, “Violent Femmes”, è l’unico album che è riuscito a ricevere il platino dieci anni dopo la sua uscita e, soprattutto, senza essere mai entrato nella Top 200 di Billboard. Un risultato non male per una band da sempre volutamente approssimativa e amatoriale.

In fondo, Gordon Gano non ha mai abbandonato il suo canto adenoide né Brian Ritchie il suo polistrumentismo esotico e pazzoide. Peccato soltanto che quella che, agli inizi, era la loro originalissima maniera di interpretare il folk acustico tradizionale in chiave punk (“Violent Femmes” e “Hallowed Ground”) poi si è trasformata in una direzione più mainstream, come nella cover passiva di “Do You Really Want To Hurt Me?” dei Culture Club. Non tutte le favole, dopotutto, mantengono inalterato il loro spirito durante il cammino. Ma, forse, è proprio questo che prepara il terreno per una dolce, appassionata rivincita. 

Brian Ritchie a metà concerto: “E’ un po’ di tempo che manchiamo da Roma. Forse sono passati 23 anni”. E, si sa, la vendetta è un piatto che si serve quasi ghiacciato. Così, nel piccolo, tropicale Alpheus si è consumata la “vendetta del tenero sfigato”. Aperti dalla mistura folk-punk-rock and roll degli ottimi Zen Circus, il ritrovato trio delle femmine violente (il batterista Victor DeLorenzo è tornato dopo un lungo periodo di attività solista) più che un concerto sembra voler iniziare un vero e proprio esorcismo. Per una sera, ritornare al vecchio, caro spirito popolaresco, divertito e divertente. A ritroso nel vero garage sound di provincia, per celebrare la nuova venuta del kid americano arrabbiato e frustrato sessualmente. Tra Freud e i soliti deliri adolescenziali, tre uomini che giocano a fare le donne diventano tre bambini che picchiano su strumenti che sembrano giocattoli. E si vedono i primi timidi sorrisi quando attaccano in coro l’intro sincopato di “I’m Nothing”.

Ed è pur vero che Gano si presenta sul palco vestito come un Ugo Fantozzi in pieno trip calcistico casalingo, ma quello che conta, alla fine, è lo spirito dentro la vestaglia. Gli sketch punk di “Prove My Love” e pop beatlesiano di “Please Do Not Go” sono la prova sonora che il trio ha voglia soltanto di suonare. Quella di Roma è una vera e propria festa sonora e, quando entra in scena lo stralunato ensemble degli Horns of Dilemma, il solito pubblico misto di tutte le età inizia a surriscaldarsi in barba alla mancanza d’aria. Chissà quanti di loro hanno notato che il vecchietto al sassofono ha suonato parte del “lato oscuro della luna”. Grazie a questa band improvvisata inizia un turbinio musicale senza tregua che parte con il country spettrale di “Country Death Song”, prosegue con lo scatenato ritmo da Esercito della Salvezza di “Jesus Walking On The Water” e termina sul caos sonoro di stampo free-jazz della geniale “Black Girls”.

DeLorenzo non riesce a stare fermo con le spazzole neanche fosse John Bonham e deve arrendersi soltanto alla dolcissima melodia per innamorati di “Good Feeling”. E’ solo un tenero bagliore di violino perché Gano torna alla chitarra elettrica per le cupe nevrosi di “Confessions” e l’ode à-la Patti Smith Group di “Hallowed Ground”. Ritchie gioca con un basso hendrixiano nella bellissima versione di “Gimme The Car” e il pubblico esplode in un boato che non ti aspetteresti. In fondo i Violent Femmes sono una band cult a tutti gli effetti e la filosofia del “pochi, ma buoni” funziona come un motore perfetto. Perché non si può ignorare il ritornello al fulmicotone della sgangherata “Add it up” o il magnetismo naturale dello xilophono di “Gone, Daddy, Gone”.

La vendetta delle femmine violente è, ormai, conclusa, ma né il trio americano né il suo pubblico ne hanno abbastanza. Arriva lo scontato bis della serata e, dopo un’improponibile esibizione solista di Gano in italiano da opera lirica, la sala esplode sugli accordi iniziali di “Blister In The Sun” (a cui Ritchie non partecipa per la recente polemica sulla concessione della canzone a uno spot di Wendy’s Hamburgers). Vedere, però, DeLorenzo mimare con la voce la parte di basso non è così splendido. Sicuramente meglio l’inno finale di “Kiss Off”, che si libra nell’aria con il vecchio conteggio di un tempo.
“Uno, uno, uno per il lungo concerto… Due, due, due per le emozioni… Dieci, dieci, dieci per tutto, tutto, tutto!”.