Un’emozione che ciclicamente si rinnova. Ogni volta si ha la sensazione che possa essere l’ultima, eppure a distanza di anni ci si ritrova sempre immersi in un magma di suoni che scuote l’anima.
Per chi era appena adolescente nella prima metà degli anni 80, i suoni darkwave hanno accompagnato un percorso che oggi richiama un misto di sollievo e nostalgia. Il nichilismo e il disagio magari sono superati, resta l’affettuoso ricordo di tempi creativi e pionieristici.
La memoria non può evitare di tornare alle esibizioni romane dei Cure del passato: novembre 1987, all’indomani del diluvio sonoro di “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”; giugno 1989, immersi nella pioggia di tastiere di “Disintegration”, l’ultima zampata vincente del movimento dark; ottobre 1992, con le carinerie del best-seller “Wish”; ottobre 1996, con il passo falso di “Wild Mood Swing” ma l’attenzione sempre rivolta all’importante passato e i concerti divenuti piacevoli maratone; giugno 2002, con i fiori sanguinolenti di “Bloodflowers” e la certificazione definitiva di essere fra i più grandi e influenti di sempre; novembre 2004, il Colosseo a fare da magico sfondo per un evento troppo breve e troppo affollato.
29 febbraio 2008, data bisestile, Palalottomatica gremito all’inverosimile per la dodicesima tappa del tour europeo che prelude all’uscita del nuovo album (sarà un doppio?) della band di Robert Smith. Biglietti esauriti da settimane, il pubblico ha mandato a memoria gli altri undici concerti gentilmente postati su YouTube, ma l’invadenza del web nulla toglie alla tensione dell’evento: una cosa è vederli sul piccolo riquadro del proprio pc, ben altro è ritrovarseli di fronte.
Lui, Robert Smith, icona assoluta anche se un po’ imbolsita, i due amici di sempre Simon Gallup al basso (capelli tinti di rosso, più giovane di quando era giovane), Porl Thompson (marito della sorella di Smith, cosa che gli consente di entrare e uscire dalla band con una certa libertà) alla chitarra, per molti il miglior chitarrista che i Cure abbiano mai avuto, e Jason Cooper, il batterista della storia più recente.
I 65DaysOfStatic riscaldano l’ambiente con il loro buon post-rock, regalando alla platea romana una manciata di brani fra i quali spiccano “Retreat! Retreat!” e una cover dei Mogwai. Poi cambio palco, spasmodica attesa, qualche foto per ingannare il tempo, si abbassano le luci, parte il carillon che prelude al miglior inizio che i Cure possano regalare ai propri fan: “Plainsong”.
La scelta di esibirsi in quattro, senza il contributo delle tastiere, priva il suono della magniloquenza barocca da sempre trademark della band: le parti sono emulate con effetti di chitarra ben gestiti da Smith e Thompson, senza che il risultato finale ne risenta granchè, eccezion fatta per “The Walk”, che ne esce fuori un po’ forzata.
Le prime tre canzoni proposte disegnano uno scenario a forti tinte dark: dopo “Plainsong” seguono “Prayers For Rain” e l'inattesa “A Strange Day”, la più gradita sorpresa della serata, soprattutto per i fan della prima ora, roba da estasi totale.
Gli estratti da “Disintegration” dominano la prima parte della setlist, con “Lovesong”, “Pictures Of You” e “Lullaby” in bella mostra, ma il pubblico, soprattutto sugli spalti, appare un po’ ingessato.
Occorre attendere la sequenza dance-oriented “Push”-“Friday I’m In Love”-“In Between Days”-“Just Like Heaven”-“Primary” per vedere tutti saltellare come indiavolati.
L’elegante inedito “A Boy I Never Knew” funge da ponte verso la parte più rock della scaletta, con le chitarre dispiegate su “Us Or Them”, “Never Enough”, “Wrong Number”, le monumentali “One Hundred Years” e “Disintegration”, che sigillano a fuoco la prima parte dell'esibizione.
I tre bis proposti sono tematici. Il primo ripesca ben quattro estratti da “Seventeen Seconds” e si resta davvero senza parole ad ammirare dall'alto il pubblico intonare il coro di “Play For Today” ed entrare in catarsi collettiva sulle note di “A Forest”, uno dei manifesti assoluti del movimento dark.
Il secondo bis trasforma il Palalottomatica in una luminosa discoteca grazie alla riproposizione di alcuni dei loro hit più celebri: “Let’s Go To Bed”, “Close To Me” e “Why Can’t I Be You?”
Ma è il terzo bis a lasciare tutti di sasso: cinque tracce da “Three Imaginary Boys”, in pratica come essere rispediti indietro nel tempo per assistere a un mini-concerto dei Cure nel 1978: “Boys Don’t Cry”, “Jumping Someone Else’s Train”, “Grinding Halt”, “10:15 Saturday Night” e “Killing An Arab”. Non credo si possa chiedere di più: è il tripudio finale.
Trentotto canzoni, tre ore e cinque minuti di musica, palco essenziale, qualche diapositiva proiettata sul maxischermo, pochi effetti speciali, giusto un quartetto di amici rodato dal tempo e un set che rappresenta la colonna sonora delle nostre vite. Un grande concerto. Ed un’emozione che si rinnova, per l'ennesima volta.
Plainsong
Prayers For Rain
A Strange Day
Alt.End
The End Of The World
The Walk
Lovesong
To Wish Impossible Things
Pictures Of You
Lullaby
From The Edge Of The Deep Green Sea
Please Project (inedito)
Push
Friday I’m In Love
In Between Days
Just Like Heaven
Primary
A Boy I Never Knew (inedito)
Us Or Them
Never Enough
Wrong Number
One Hundred Years
Disintegration
…
At Night
M
Play For Today
A Forest
…
The Lovecats
Hot Hot Hot!!!
Let’s Go To Bed
Freak Show (inedito)
Close To Me
Why Can’t I Be You?
…
Boys Don’t Cry
Jumping Someone Else’s train
Grinding Halt
10:15 Saturday Night
Killing An Arab