
Al risveglio le cose assumono sovente un carattere onirico. Niente merita di essere vissuto se non come parte di un lento, inesauribile movimento di cose, persone ed emozioni. La meta è sempre dietro l'angolo, mai a portata di mano. Conta il cammino, contano le peripezie del presente. Capita, poi, di ritrovarsi gettati in uno strano limbo di sensazioni, con la musica puttana della disperazione. C'è tutta una superficie di eventi che dell'insensatezza hanno fatto una ragion d'essere. In un modo o nell'altro, come intorno ad un grande falò di vanità sopite, scegliamo di muoverci dentro questo spazio illimitato, inseguendo qualsiasi cosa, nell'ebbrezza dell'inseguimento. Ricercavo, dunque, nel via vai di gente che affollava il SudTerranea (in via Quercia, nel centro storico di Napoli), un sapore particolare, come di grande evento straccione, circo delle assurdità di noi tutti. Pochi soldi, tanta, tanta forza di volontà. Bello incontrare sogni e prospettive, ragazzi con un mattino ben diverso dalla notte. E' il confine tra l'ovvia normalità e la tentazione dell'arte come sfogo primordiale, catalizzatore di ferocia (f-e-r-o-c-i-a) emozionale, rocciosa diatriba interiore. La sala sembra una versione più alla buona di quella del leggendario Cavern Club di Liverpool. Ha luci colorate, mesmeriche. Il palco è sullo sfondo, piccolo ma ben fatto, con tanto di sipario in drappo rosso acceso. A destra, lo spazio adibito a backstage. Il fumo delle sigarette sospende, intanto, lo sguardo dietro un velo di occhiate umide.
Partono le Viti di Titanio e sai che, in un modo o nell'altro, abbiamo fatto la cosa giusta. La band paga lo scotto di essere il puntello che rompe il ghiaccio, ma va avanti con una performance dignitosissima. "...Un giro di vite sigilla il passato...", con la bambolina seduta ai piedi del palco, a guardarci stupita, un po' donna inquieta, un po' bambina birichina. Marcello (voce) dimostra di reggere ottimamente il confronto col pubblico. L'esperienza servirà pure a qualcosa, no? Maurizio (batteria) ha dalla sua una grande capacità di movimento ritmico (sostenuto da un ottimo Paolo al basso), riuscendo ad amalgamare i vari passaggi dei brani. Tradizione rock anglosassone, pop italico e tentazioni "progressive", nonostante lo stesso Marcello, nel backstage, sottolinei: "I nostri ascolti non si concentrano sul progressive". Annuisco, rilanciando: "Eppur quelle distensioni strumentali si muovono…". Ah, novello Galileo, un po' ubriaco (manco avevo bevuto!). La platea, come si suol dire, è calda: le Viti hanno fatto il loro dovere. Qualche problemino – il flauto di Carlo un po' sommerso dal resto degli strumenti, qualche lungaggine evitabilissima… -, ma davvero niente male.
Il cambio di palco è rapido: l'organizzazione funziona, diamine! D'altro canto, mi ritrovo a spostare con gli altri piatti e chitarre, pedali e tavolini. Ovvero: la dura vita di un roadie improvvisato, senza manco l'ombra di una groupie! L'aria tappezzata di fluorescenze, tanto che le sigarette bruciano in uno strano verde lisergico – e quasi temo che Salvador stia fumando chissà cosa e che Ciro abbia una rarissima forma d'epatite, dato il colore poco rassicurante della pelle del suo viso. Che, poi, a pensarci bene, la location è davvero perfetta. Pensavo addirittura di noleggiare qualche tossico per farlo sedere all'entrata, quasi a dare un tocco simil New York fine '70, molto CBGB de noantri, molto "teniss' cient lir'" – "nun ce serv' nient!", insomma… con un Lou Reed "mentale" davvero, davvero lurido…
In due, chini sui laptop e sulle manopole di macchine umane-molto-umane, i Natege (duo di Scafati-Pompei) hanno, nel frattempo, guadagnato il palco, proponendoci un'interessantissima fusione di IDM ed ambient. Lì in mezzo, una tv riproduce immagini mute di esperimenti visivi firmati da mostri sacri quali Man Ray e Hans Richter. E la compenetrazione tra suoni e immagini è pressoché perfetta. Fotogrammi che respirano note in costante movimento, note che trascendono immagini diventando altro, pura alterità spazio-temporale. Mi emoziono, non lo nego: è il ritmo che prende forma nell'aria, come il "Rythm 21" di Richter, come le figure spaesate nell'assenza dell'"Emak-Bakia" di Ray. Vincenzo e Giuliano si scambiano sguardi furtivi, sorridono (anche se il secondo, in privato, mi dirà di aver ripetutamente insultato il primo… e vai con le risate!). La telepatia è evidente. Il talento, quello è ovvio. Il flusso sonoro, ora melodico, ora cupo e impenetrabile come una marea di pseudo-industriali aurore di benzene, satura la sala, man mano riempitasi dopo l'iniziale scetticismo. Naturale, penso: l'impatto è subliminale, non essenzialmente fisico. Gettate la mente oltre la siepe, gente! Il cervello lavoro sotto l'egida del cuore, non viceversa. E quelle immagini, possedute dal demone del tempo che le cristallizza in una vacuità di ipotesi e di interpretazioni, cominciano a parlarci, trasmettendoci il senso di un'epoca già viva prima del nostro esserci. Il brivido "glaciale" di un tempo prima del nostro tempo…. Sta tutta qui, e non è poco, la bontà della proposta Natege: l'incanto, l'estasi di un infinito interrogare le cose, intanto che la vita si compie, attimo dopo attimo. Quasi brutalmente.
Mi concedo la prima birra aspettando gli Armida, rocciosissima compagine dedita ad un ibrido metal-psichedelico-progressivo. Mi siedo sulla cassa-spia del basso. Mi aspetto molto. Fumo un paio di sigarette, una dietro l'altra. Sarò ripagato. I quattro sono animali da palco: Salvatore il batterista spacca sassi ormai detto Totor 'o martiell… (ah, povere pelli! qualcuno le salvi! qualcuno scriva la loro storia, prima che finiscano, parafrasando i Diaframma di una volta); Luca, il bassista, preciso ed estremamente versatile (e nascosto da un lembo di sipario che, a più riprese, cerco di spostare, senza esito alcuno – ma è chiaro che il Nostro preferisce starsene un po' rintanato); Peppe, il chitarrista-ingegnere, che davvero non immagineresti con una sei corde esplosiva in mano (lui di cognome fa Diotaiuti…), ma capace, invero, di tirar fuori sonorità a ripetizione, con naturale maestria); e, infine, Guglielmo, il cantante, the real front-man, ovvero: Cedric Bixler Zavala dei Mars Volta sotto falso nome (su questa cosa costruiremo, insieme, un'intera serata di cazzeggi assortiti). Il primo brano è praticamente d-e-v-a-s-t-a-n-t-e. Nasce qui e muore altrove, camminando su se stesso così come si cammina su cadaveri putrescenti. Il pubblico vorrebbe il bis, ma non si può: le regole vanno rispettate. Qualcuno, allora, prova a (ehm…) invertire gli eventi: "Nudo! Nudo!"… Alla fine dell'esecuzione, il cantante mi dirà: "Non è un buon periodo, per noi". E meno male, dico tra me e me… Massici ed incazzati. Ma con un anima: Guglielmo: "mi emoziono con "Kind Of Blue" di Miles Davis e "Reign In Blood" degli Slayer!"…). YES!!!
Corriamo nel backstage. Ennesimo cambio palco. Sarà l'ultimo. Ciro ringrazia il pubblico, invita tutti per i prossimi Venerdì e lancia gli She's A Man, trio electro-soul fondato appena tre mesi fa, ma già incredibilmente compatto, nonostante questa sia la loro primissima apparizione live. Dai laptop e dalle "macchine" di Berkana e Mood partono ritmi e sonorità tenebrose, incisive, densissime. Ogni tanto, un tonfo distruttivo, un buco nero melodico, armonie capovolte e sconvolte. Poi, Polvere, la voce: figura esilissima, quasi diafana. Un megafono, all'inizio, ce ne restituisce un vocalismo deturpato, lontano, inabissato. Ma è solo un attimo. Poi, la luce lo rapisce e lo restituisce, in un girotondo trasversale. Un tono efebico, profondamente incisivo. I tre ci credono e hanno ragione. Un ménage à trois di anime. La gente è ad un passo. Io rannicchiato sulla solita cassa-spia: guardo verso l'alto. Le casse pompano suoni ed esigono rispetto. La presenza scenica è curatissima. Molti si innamorano di Veronica, il manichino femmina bendato e con le gambe aperte (…) che (non) ci guarda dal fondo del piccolo palco. Sarà uno spasso, alla fine della serata, vederli andare via, nel vicoletto, con in mano quel corpo diviso a metà.
Ma, intanto, terminate le performance, tutti a parlare con tutti, mentre l'house riempie l'atmosfera, coppie che si baciano in libertà, baristi che versano alcol o coca-cola, buttafuori che discutono del nuovo modulo di Reja e della classe di Lavezzi. E' un giro di vite improvvisato, senza apparenze e clamori. Serata bellissima. Nei sotterranei del sud, oltre la vergogna dell'immondizia, una folla di piccoli, grandi artisti o presunti tali, umili e operai. Sono le 3. Penso: ma cosa diavolo penserebbero i miei alunni del liceo se potessero vedermi adesso? Sorrido di una gioia preziosa. Fra poco sorgerà il sole. Andiamo via, anche se non è ancora finita. Io e Ciro camminiamo in una Napoli (finalmente) bellissima, solitaria come una gatta innamorata sui tetti della notte. Scambiamo, esausti, qualche parere. Qualche piccola certezza. Qualche dubbio. Sarà dura decidere. Il buio ci inghiotte: figure già lontane. E la luna annuisce. Serena.
Ps: il prossimo appuntamento è venerdì 29 ore 22:30 sempre al SudTerranea Club di Napoli. Musica di qualità, con il rock emozionale di Lamia e Miriam in Siberia, le progressioni noise dei Nembrot, l'irriverenza sociale punk-fun dei Gino Fastidio e le contaminazioni fra canzone d'autore e musica popolare dei Rosso Rubino. Non mancate!
(24/02/2008)