02/07/2008

Jethro Tull

Teatro degli Arcimboldi, Milano


di Sigfrido Menghini
Jethro Tull

Un soffio lungo 40 anni.
Anche i Jethro Tull raggiungono la famigerata soglia degli "anta" e per festeggiare queste prime quattro decadi di attività, Milano apre a Ian Anderson e compagnia nientemeno che le porte degli Arcimboldi, prestigioso "teatrone" da 2.400 posti, sorto pochi anni fa alla periferia di Milano con l’obiettivo prima di ospitare gli spettacoli della Scala, chiusa qualche stagione per i lavori di restauro, poi diventato sala da concerti e teatrale a 360° con una stagione ricchissima e forse fin troppo variegata.

L’ultima volta che avevo visto i Jethro Tull era stato al Teatro Smeraldo nel 2003, sempre nel mese di luglio, ma tra le due esibizioni ho percepito un abisso, a favore decisamente di questa ultima serata agli Arcimboldi. La band mi è sembrata rivitalizzata, in buona forma, con una formazione in parte rinnovata, più affiatata, potente e vogliosa. Perché se la storia dei Jethro Tull è soprattutto quella del menestrello Ian Anderson, vocalist, flautista, compositore, leader indiscusso e immagine/icona della band, e un pochino anche quella del fido chitarrista Martin Barre, al suo fianco dal 1969, gli altri musicisti alternatisi negli anni hanno sempre avuto un ruolo secondario, lontano, come si suol dire, dalla ribalta e dai riflettori. Ma proprio cinque anni fa, in occasione dell’esibizione allo Smeraldo, avevo ravvisato la debolezza del quintetto proprio nel suo complesso, troppo fragile, accademico, poco motivato; forse una serata storta, forse l’acustica infelice, forse un momento di stanca nella lunga carriera o forse semplicemente la mancanza di una alchimia tra musicisti e strumenti. Perché da un gruppo tra il progressive e il folk-rock, come vengono per lo più definiti i Jethro Tull, ti aspetti soprattutto un sound che hai metabolizzato in testa in anni di ascolto, un suono che è un marchio di fabbrica.

I Jethro Tull agli Arcimboldi, accanto ai due elementi storici già citati, si presentano con alla batteria Doane Perry, nel gruppo dagli anni 80, con il tastierista e fisarmonicista John O'Hara, più volte vicino a Ian Anderson nei suoi lavori solisti, e col nuovo bassista David Goodier, che ho particolarmente apprezzato nell’apporto a una sezione ritmica precisa e potente che mi ha fatto ricordare, come intensità e dinamicità, lo storico primo disco live della band, quel "Bursting Out" datato 1978.

La percezione prevalente che ho raccolto dalla serata è stata quella di essere pervasa da un clima anni 70 e dintorni. A partire dalla scaletta, che ha attinto dai primi e più famosi album della band, senza dimenticare i fortunati singoli; per proseguire con le diapositive proiettate sullo schermo a retro palco, che mostravano immagini e foto di repertorio, in una parata spettacolare di iconografia rock di quegli anni; ma il clima d’altri tempi si è respirato anche in momenti un poco auto-celebrativi, ad esempio quando Ian Anderson ha lasciato, come da copione, la scena ai comprimari lanciati a turno in esibizioni solistiche - per la verità nemmeno molto originali - oppure nelle tipiche chiusure roboanti e strappa applausi dei brani, sottolineate dal crescendo di colpi in accelerazione della batteria.

Il concerto si è aperto, forse non a caso, sulle robuste note di "My Sunday Feeling", canzone di apertura di "This Was", primo album del gruppo del 1968 per poi snodarsi tra classici e meno classici secondo l’abitudine del gruppo di attingere variamente dalla sua ampia produzione musicale. La platea gremita ha seguito con passione e coinvolgimento il dipanarsi della scaletta lineare e scorrevole, esaltandosi sui cavalli di battaglia, come "Bourrée", il celeberrimo riarrangiamento di Anderson da Bach.

Ian, il pifferaio matto, pur con una voce incerta, è apparso in piena forma come frontman. Il grande palco del teatro gli ha permesso di muoversi liberamente e assumere le posizioni più plastiche, su tutte quella del classico "fenicottero" dritto su una gamba sola. Lo stile flautistico è quello di sempre, fatto di trilli, frullati, doppi, tripli, multipli colpi di lingua, suoni gutturali e onomatopeici che si mischiano a scale pirotecniche sulle tre ottave dello strumento. Colpisce la capacità di Anderson di passare dalle melodie più pulite e cristalline a folate ritmiche distorte e "sporcate" da un armamentario di tecniche non convenzionali sviluppate in decenni di musica. Del flauto traverso alla "Ian Anderson" m’è sempre piaciuto quel collegamento diretto col soffio vitale della persona, con gli umori più intimi e variegati dell’animo, dalla dolcezza all’impeto tumultuoso della passione. Non è forse un caso che il flauto è da sempre uno degli strumenti più vicini alla mistica di tante culture.

Prevedibile il finale in crescendo con una versione light di "Thick As A Brick", certamente una delle più belle composizioni del gruppo, seguita dal brano simbolo per eccellenza della band, "Aqualung", che scatena la platea composta da un variegato mix di vecchi e nuovi fan. Il solo bis concesso, preludio per una standing ovation generale, è "Locomotive Breath", capace di far accapponare ancora una volta la pelle. Il soffio di Ian ci accompagna da 40 anni ma è sempre e più che mai un soffio vitale.

(07/07/2008)

Setlist
  1. My Sunday Feeling
  2. Living In The Past
  3. Serenade To A Cuckoo
  4. Nursie
  5. Song For Jeffrey
  6. Farm On The Freeway
  7. A New Day Yesterday
  8. Bourree
  9. Nothing Is Easy
  10. For A Thousands Mothers
  11. Too Old To R’n’r Too Young To Die
  12. Dharma For One
  13. Count The Chickens
  14. Heavy Horses
  15. Thick As A Brick
  16. Aqualung
  17. Locomotive Breath