
Ma andiamo con ordine. La serata inizia con il bardo scozzese Alasdair Roberts, ex -Appendix Out e titolare di una manciata di album in solo di folk minimale e introverso.
Il set, solo voce e chitarra acustica, dura più o meno mezzora, in cinque pezzi che al sottoscritto non hanno detto granché, ma che il pubblico ha gradito non poco a giudicare dagli applausi. Ok lo ammetto, non amo particolarmente la musica di Roberts, quindi… però il ragazzo ci mette passione, e la cosa alla fine paga. Maggiormente apprezzabile il suo apporto alla slide nel bis di Smog a fine concerto.
Quindi è il turno di Mr. Callahan. Allora, iniziamo con dire che il nostro si presenta sul palco con una formazione a quattro, compatta e velvettiana fino al midollo. Tanto che se non stessimo parlando di Smog, la si potrebbe scambiare per una band vera è propria, più che per la formazione d’accompagnamento di un cantautore (per quanto sui generis). Il suono è davvero potente, pochi scherzi. E Callahan, da buon direttore d’orchestra, sorveglia i suoi di continuo; si gira verso di loro, controlla che suonino secondo “spartito” nei passaggi più complessi, e torna fronte al pubblico solo quando è sicuro del risultato raggiunto. Ma i ragazzi eseguono con diligenza, e non danno motivo di rimbrotti.
La voce di Smog è profonda, cupa, molto più profonda che su disco, tanto da far pensare a un’evoluzione futura verso un crooning alla Nick Cave ultima maniera, mentre la scaletta riesce a essere equilibrata nell’alternare pezzi veloci e tirati alle consuete ballate intimiste, ancor più lente e narcotiche dal vivo. Letteralmente da applausi (che arrivano puntualmente), ad esempio, le esecuzioni di “Rock Bottom Riser” e “River Guard”. Callahan, però, non concede molto al pubblico in termini di interazione, eccetto un beffardo “Do You Like My Feet” (suona scalzo…), anche se la mimica facciale basta a dare la cifra del suo coinvolgimento nella performance. Insomma, non suona per onor di firma, e questo va’ a suo merito.
In conclusione, concerto catartico e senza la benché minima sbavatura. Ad averne così.
Foto di Pietro Previti