
Sbarca anche all'Estragon di Bologna l'"astronave" elettro/rock di Bugo, tirata a lucido dal successo, più o meno equamente diviso fra pubblico e critica, che il cantautore piemontese ha saputo conquistarsi con l'ultimo album "Contatti" (a dimostrazione di questo, infatti, un tour che va avanti senza sosta da più di un anno). Laddove comunque in studio la produzione del dj house Stefano Fontana era riuscita a creare una convincente opera di restyling elettronico al rock grezzo e low-fi del cantante, curiosità c'era appunto nel verificare dal vivo come questa nuova veste indie-cool si addicesse alle famigerate, imprevedibili esibizioni del Bugatti, più legate a un esagitato e schizzoide contesto da "spettacolo rock" che alla calcolata freddezza del dj-set.
Tutto si risolve, comunque, nelle prime battute del concerto, dove la voce robotica di una lucina rossa stile "HAL 9000" ci introduce allo show domandandoci se siamo pronti ad entrare "Nel giro giusto": ovvio preludio alla omonima canzone d'apertura, che vede il Nostro entrare in scena con una improbabile quanto futuristica giacca fluorescente e una chitarra dalla forma geometricamente assurda (quasi quanto il ciuffo piastrato della sua acconciatura, ma questo è un altro discorso).
Non ci vuole molto, però, per capire che il Bugo versione "spaziale" nient'altro è che in fondo, un look di facciata: sotto sotto non può fare a meno di nascondersi ancora il menestrello fuori di testa, ironico e un po' cazzone che il suo pubblico ha imparato a conoscere negli anni, talmente abile nel prendere e prendersi in giro da non essere la maggior parte delle volte neanche capito (un esempio su tutti: la scrittura dei testi, spesso talmente strambi e stralunati, se non quasi cialtroni, da essere facilmente tacciati di stupidità).
La prima parte del concerto parte quindi sparata e tutta centrata sull'ultimo album: "La mano mia", "C'è crisi", "Love Boat", hit che hanno anche goduto di una discreta rotazione radiofonica, trovano nella riproposizione live (con tanto di band "tradizionale" a supporto) una concretezza che la produzione patinata del disco non lasciava immaginare; di contro, tutti i vecchi pezzi di repertorio proposti nella seconda parte ("Amore mio infinito", "Ggell", "Casalingo") suonano completamente riarrangiati e contaminati dalle basi elettroniche, creando un connubio felice e a tratti imprevedibile (i synth alla Kraftwerk che introducono la emblematica "Io mi rompo i coglioni", o l'incedere fluido e groove di "Ggeell").
Ma a prendere progressivamente la ribalta sul palco è proprio Bugo, che prima scherza col pubblico in maniera sorniona ("Non ho più voglia di cantare. Parliamo. Come vi chiamate?"), poi sfotte più o meno esplicitamente il suo mondo, che si tratti di "colleghi famosi" ("Benvenuti al grande concerto rock del 2 maggio!", chiaro riferimento a Vasco Rossi e al suo spettacolone televisivo del giorno prima), o piuttosto di metafore sottili (lo stralunato assolo di chitarra e le pose da rockstar su "Le buone maniere"; la finta presentazione della sua band "I Rubens", vale a dire tre musicisti con stesso nome, look e acconciatura, che deforma la coda della canzone stessa in un lungo loop campionato di quasi 10 minuti).
La parte finale diventa poi puro delirio, Bugo si lascia andare e, in modo frenetico e irresistibile, si dimena in assurdi balletti, salta fuori dal palco, incita più volte il pubblico; al punto che le canzoni rimaste ("Primitivo", "Che diritti ho su te", "Sesto senso", le uniche, queste due, a optare per un vago richiamo all'atmosfera intimista e semi-acustica delle sue prime composizioni) quasi passano in secondo piano. Le cose non cambiano nel bis: introdotto ancora in modo finto-pomposo e roboante, Bugo sancisce la sua definitiva parentela musicale col primo vero schizzato del pop italiano, vale a dire Adriano Celentano, coverizzando nientepopodimeno che la celeberrima "Prisincolinensineciusol"; ovviamente in chiave dance, ovviamente alla sua maniera, e cioè concludendola fisicamente fra le braccia del suo pubblico (dove a sorreggerlo dalla balaustra, ammissione senza pudore, si trovava anche il sottoscritto).
Insomma: che si ami o che si odi, che rimanga simpatico o che stia sulle scatole, Bugo è sicuramente uno che dal vivo merita di essere visto. Il resto, va da sé, sono nutellate di deliri.