13/11/2009

Motorpsycho

New Age Club, Roncade (Tv)


Il ritorno dei Motorpsycho al New Age Club di Treviso, locale da sempre affezionato ai norvegesi, coincide con i festeggiamenti del ventennale di attività di Bent Sæther (basso) e Snah Ryan (chitarra), privati di Håkon Gebhrdt, batterista storico e banjoista appassionato di bluegrass e country e rimpiazzato con il giovane Kenneth Kapstadt.

 

Logico pensare, dunque, che un loro show nel 2009 sia ancora più egocentrico, esoso e faraonico dei precedenti. Da sempre famosa per le loro maratone, tanto su disco che dal vivo, la band ha comunque ricevuto nuova linfa a partire soprattutto da un più preciso (ma pur sempre personalissimo e un po' kitsch) formato jam band del loro più recente "Little Lucid Moments", rimasto forse adombrato in dischi come "It's a Love Cult" e "Phanerothyme" (ma già in nuce nella collaborazione con i Jaga Jazzist per il decimo volume della serie "In The Fishtank").

 

Ciò li porta a proporre qualcosa di assolutamente straripante. Non a caso, il concerto attacca con una versione rielaborata di "Year Zero", fulgida di una progressione Floyd-iana da tocchi sparuti e canto in sordina a improvvisazione granitica, poi sfaldata, poi persino pirotecnica. Nuove ambizioni acid-rock emergono in una versione estesa di "Sail On".

La line-up rimaneggiata (a risentire pure dell'assenza di Deathprod alle tastiere elettroniche, non indifferente nelle loro concertazioni naif) è di certo un fattore che permette loro di concentrarsi su di un interplay psicotico e quasi lisergico, come nei 10 minuti di "Hogwash" (durante i quali Sæther spegne la candelina sulla torta del loro ventesimo compleanno), con un nuovo batterista forse non amalgamato come il precedente, ma in compenso strumentalmente persino superiore, prossimo al jazz-rock, capace di assoli bombastici in "You Lied" o di rifiniture esplosive in "The Ozzylot".

 

Il tutto mantiene le promesse annunciate dall'ultimo disco, pur lasciando l'amaro in bocca per certe tirate ipnotiche eccessive, come nel primo bis, un monolite di quasi mezz'ora che sviscera scampoli di "The Alchemyst" (uno dei brani migliori del "Moments") e "Cornucopia", li mischia all'inverosimile toccando anche punti bassi di confusione, scambiandoli per improvvisazione. Invece, vertici Hendrix-iani, da parte di un Ryan particolarmente giocherellone sono toccati da una roboante "Sideway Spiral".

 

Il set dunque privilegia un lungo divertissment hard-rock revisionato alla loro maniera (accentuando, cioè, il loro lato più eruttante e gioioso, come per una qualsiasi festa commemorativa che si rispetti). I numeri di art-pop sixties, una "Upstairs-Downstairs" viziata da qualche calo di voce di Ryan e una "Bedroom Eyes" eseguita quasi distrattamente, servono alla band per tirare fiato. Una "Feel" serve invece per saggiare, appunto, il feeling, il ritorno emotivo del pubblico, che per tutta risposta ne fa vibrare il ritornello a gran voce corale.

Il secondo bis, ancora ben acclamato nonostante le due ore di concerto, è un autentico regalo da parte dei festeggiati, una "Vortex Surfer" degna dei Dinosaur Jr, tanto ballata dolente quanto nuova scarica di fortissimi decibel distorti.

 

Esagerazioni, prove di muscoli, e allestimenti jazz-rock troppo artificiosi hanno reso comunque al meglio l'estetica della band norvegese, un impianto che i due membri storici reggono sempre e comunque con concciuta dignità, senza particolari intoppi, con cieca fede nella cieca fede dei fan: quasi uno scambio di promesse, e non solo un concerto rock vero e proprio, per i vent'anni a venire.