23/07/2009

Simple Minds

Arena Civica, Milano


di Sigfrido Menghini
Simple Minds
Con il tour estivo 2009, che tocca alcune piazze italiane, tra le quali Milano, oggetto del presente live report, ma anche Taormina, patria d’adozione da alcuni anni del frontman e leader Jim Kerr, i Simple Minds festeggiano i 30 anni della carriera.
Ma la serata milanese all’Arena Civica, è un’ulteriore ricorrenza per me; sono trascorsi infatti ben 25 anni dall’ultima e unica volta che ho visto la band scozzese dal vivo. Allora ce ne stavamo, noi giovani fan, accaldati e assiepati sotto il mitico e scomparso Palatenda di Lampugnano che, nel giro di pochi mesi, diede l’opportunità agli appassionati italiani della cosiddetta British invasion di godere il suono live di band come U2, Ultravox, Cure, Talk Talk e, appunto, Simpe Minds.
Vivo dunque la serata con una strana tensione tra passato e presente. E non sono l’unico, credo. Un veloce colpo d’occhio al pubblico, distribuito sul prato e sulle gradinate dell’Arena, che stimo sull’ordine di qualche migliaio di presenze, mi rassicura sul fatto che a farmi compagnia sono quasi tutti coetanei quarantenni e anche oltre. Un bel colpo d’occhio, certo, ma nulla a che vedere con le circa 150.000 presenze che solo pochi giorni dopo accolgono gli U2 per due serate sold out allo stadio di San Siro sempre a Milano. Se Simple Minds e U2 si contendevano nei primi anni 80 sulla stampa musicale il titolo di migliore band emergente d’oltremanica - anche a colpi di videoclip, che velocemente stavano diventando in tutto il mondo lo strumento principe di diffusione dei nuovi suoni e delle tendenze a livello internazionale - la storia, quella fatta dagli appassionati, ha dato ragione agli irlandesi: un pubblico rinnovato e trans-generazionale ora quello di Bono e C., un pubblico essenzialmente di nostalgici quello degli scozzesi presenti all’Arena.

L’avvio della serata, con il sole ancora alto, è promettente. Si parte con "Waterftont", che risulterà l’unico brano estratto da "Sparkle In The Rain", bel vinile del 1983. Troppo poco, penso, su 21 canzoni che la band proporrà complessivamente nell’arco della serata. Disco cruciale, "Sparkle In The Rain", per la vita del gruppo e ancora ben al di sopra della sufficienza, ma che già rivela in nuce la svolta di un sound pomposamente live ed epico anche su disco; svolta confermata, involuzione annessa, anche dal successivo e decisamente brutto, "Once Upon A Time", datato 1985.
La serata prosegue con una bella sopresa, "I Travel", unica canzone ripresa dal repertorio precedente a "New Gold Dream". Con questo brano si torna al 1980, a un suono ancora grezzo ma con vene elettroniche e sperimentali di sicura originalità e dall’impatto potente. Riguardando i clip dell’epoca, sembrano tutti imparentati (e ugualmente impomatati!) i vari Simple Minds, Japan, Ultravox, figli di una stessa nidiata new wave ispiratasi all’elettronica kraut tedesca e al bowiano glam-rock.
Un ritorno alla realtà, un pochino traumatico, non lo nascondo, arriva con le successive canzoni della serata, che pescano dal repertorio più recente ("Stay Visible" e "See The Lights") con qualche sussulto grazie a "She’s A River", uno dei migliori episodi della produzione anni 90.

Decido di abbandonare le gradinate e di andare dritto verso il palco alle prime note di "Big Sleep", una delle mie canzoni preferite delle Menti Semplici. Giusto il tempo per farmi largo tra la folla che l’occhio, attonito, mi cade sul plettro del bassista Eddie Duffy (uno dei vari che si sono succeduti nella formazione degli ultimi due decenni) che esegue il riff ritmico portante del brano e, a questo punto, non riesco proprio a esimermi da una piccola digressione di natura tecnica che porta a valutazioni più ampie. "Big Sleep" va eseguito con la tecnica "slap & pull" o "pollice e strappo" che dir si voglia, di grazia! Non vuole essere un vezzo o una deformazione da bassista, quale sono stato a lungo, ma una riflessione sul ruolo che fu di Derek Forbes, elemento fondante dei primi Simple Minds.
Gli scozzesi, come molte altre band prive di un grande autore musicale, hanno costruito la propria fortuna e la propria originalità attraverso un’alchimia di suoni e di umori nella quale lo stile degli elementi del gruppo diventa fondamentale e caratterizzante. Un basso alla Derek Forbes è più che una linea ritmica riproducibile da una notazione musicale e da uno spartito. E’ un modo di sentire lo strumento, la sua musicalità, la sua ritmica, che porta a una dinamica sonora con il resto della band assolutamente unica e irripetibile. Per questo, a mio avviso, un grande autore può cambiare radicalmente i musicisti attorno a sé ed essere ugualmente credibile nel tempo o evolvere la propria musica grazie al puro talento compositivo. Al contrario, una band che si regge sul sound più che sulla qualità compositiva di un singolo autore, rischia letteralmente di perdersi con la dipartita anche di un solo elemento. Ed è esattamente quello che penso sia avvenuto ai Simple Minds con la fuoriuscita di Derek Forbes.

Dopo "Big Sleep", prima perla della serata estratta dal capolavoro "New Gold Dream", la scaletta propone alcuni brani tratti dall’ultimo "Graffiti Soul" di questo 2009 ("Moscow Underground" , "Rockets", "Stars Will Lead The Way").
La platea si scalda e canta in coro la successiva "Don't You (Forget About Me)", grande successo internazionale del 1985, canzone che ho amato con l’amaro in bocca, come ami il gol di fine stagione dell’idolo della tua squadra che sai già cambierà casacca (ogni riferimento ai cugini è puramente casuale...). E’ infatti l’ultima traccia registrata da Derek Forbes e uscita come singolo prima dell’annunciata uscita dal gruppo.

Ma ecco finalmente il cuore del concerto! Con la sequenza di "Glittering Prize", "Promised You A Miracle", "Someone Somewhere In Summertime" e la title track "New Gold Dream" viene reso omaggio al momento di massimo fulgore della band, quel 1982 che diede alle stampe, appunto, "New Gold Dream". Bando a ogni nostalgia e pregiudizio critico, questi 20 minuti mi fanno assaporare i grandi Simple Minds. La tastiera di Andy Gillespie emerge finalmente dall’oblio, posizionata come da copione in seconda linea là di fianco alla batteria del grande Mel Gaynor, ma anonima come una comparsata di massa fino a questo momento. Tra le quattro canzoni è ancora "New Gold Dream" a svettare, vero inno generazionale con quell’invocare una stagione, quella dei primi 80, che non è più.

La scaletta ufficiale si chiude tra le ovazioni con "Alive And Kicking" da "Once Upon A Time" del 1985, album che gettai dalla finestra dopo un paio di ascolti (il mio compagno di serata, caro amico e complice di ascolti quasi trentennali della band, mi sussurra che in realtà non l’ho gettato ma gliel’ho venduto. Ehm, almeno è stato un buon affare anche per me, come per i Simple Minds d’altronde, che ne vendettero uno sproposito di copie!).
Il pubblico richiama a gran voce la band che opta, in due successive uscite, per una sequenza di bis che non soddisfano il mio gusto. Si passa dalla ballata "Belfast Child", tratta da "Street Fighting Years" del 1989, l'ultimo lavoro con il glorioso tastierista Michael McNeil (altro importante tassello perso per strada), a "This Is It", tratto dall’ultimo lavoro in studio, ad altre due canzoni tratte da "Once Upon A Time", ovvero "Sanctify Yourself" e, a chiusura della serata, la potente "Ghost Dancing".

Nella bolgia, tra gli applausi del pubblico e il muro ritmico ed effettistico eretto nel finale del concerto, non posso trascurare una menzione per Mel Gaynor, batterista davvero notevole che fece la sua comparsa nella registrazione in studio di alcuni brani di "New Gold Dream" e che fu poi protagonista dei migliori show della storia della band, da collocarsi, a mio avviso, tra l’83 e l’84. Attribuisco a Mel Gaynor le più belle rullate della new wave ed è già, in parte, una contraddizione in termini. La ritmica ipnotica e funkeggiante, carattere tipico dei primi Simple Minds e di altra new wave di similare vocazione elettronica e danzereccia, incontra un grande batterista, tanto dotato tecnicamente da non riuscire a star dentro le righe. Forse anche con questo si spiega la virata del gruppo verso un suono live epico e rockeggiante nel senso più "classico" del termine, a partire proprio da "Sparkle In The Rain", il primo disco in studio che vede il batterista protagonista in pianta stabile. Ma se ancora il disco datato 1983 mantiene un equilibrio, una coerenza e una identità con momenti di grande musica (su tutti "Speed Your Love To Me" non avvistata durante la serata e, per restare in tema di assenze in scaletta, rimpiango almeno anche quelle di due hit live come "The American" e "Love Song"), dal successivo "Once Upon A Time" la bussola è via via smarrita senza sussulti degni di nota per i successivi venti anni che ci riportano al presente.
Nonostante ciò, i Simple Minds vantano ancora una discreta celebrità e seguito. Il buon Jim Kerr, uno dei frontman che più ho amato e ammirato, si gode lunghe pause tra un disco e l’altro sotto il sole della bella Sicilia. Beh, come dargli torto?

Contributi di Andrea Mochi