
Jeff Tweedy non ha niente della rockstar. Giacchetto di jeans abbottonato, un po’ bolso, lo sguardo indeciso di chi sa che il destino avrebbe potuto riservargli una sorte molto diversa da quella di leader di una delle migliori band in circolazione a inizio millennio, ha un portamento quasi dimesso. Quella voce sottile, piena ma flebile, quei capelli arruffati. Dieci anni fa, quando giravano il mondo cantando le canzoni di Woody Guthrie rifatte insieme a Billy Bragg, i suoi Wilco erano un manipolo di ragazzotti americani con i cappelli da cowboy in testa e chitarrone folk con cui saturavano ogni centimetro cubo d’aria intorno a loro. Oggi hanno il pallino della musica rock in mano. L’hanno masticata, smontata e rimontata, le hanno innestato suoni sintetici, ritmi da marcia militare, jazz, soul, prog. E funziona. Terribilmente.
Per sentirli suonare, di questi tempi, uno deve arrivare fino a Siviglia, e tutto sommato non è questo grande sforzo. Si farebbe più fatica a reggere un set intero degli Akron/Family, ma il programma serrato del Festival Territorios impone ai tre folli new hippy americani tre quarti d’ora di concerto e nulla più, e allora si riesce a tener botta senza troppi problemi. I Wilco sono gli headliner della penultima giornata dell’edizione 2009, ma non saranno gli ultimi a suonare qui alla certosa, a due passi dal Guadalquivir, stasera. Dopo di loro toccherà, pensa tu, ai redivivi Jayhawks. Mark Olson e compagni finiranno per cominciare alle due del mattino.
Basta arrivare alle nove e mezza per godersi i tre concerti in prima fila, e questo può succedere solo in Spagna, o forse solo nell’indolente Andalusia. Da queste parti i Wilco sono popolari quanto meriterebbero, e non è un caso che un giretto in terra iberica, almeno una volta all’anno, se lo neghino raramente. Anche per questo mini-tour europeo, che precede di un mesetto l’uscita del loro settimo album da studio, non si fa eccezione: dieci date, tutte concentrate tra Spagna e Portogallo a cavallo tra maggio e giugno. Arrivano a Siviglia una manciata di giorni dopo la morte del loro ex-chitarrista e polistrumentista Jay Bennett, anima degli anni dell’esplosione del gruppo. I tempi di "Yankee Hotel Foxtrot", per intendersi. Bennett non s’era lasciato bene, con Tweedy, e qualche settimana prima di andarsene al creatore non gli aveva risparmiato una richiesta di risarcimento per una faccenda di royalties non pagate. Una brutta storia.
Se il buon padre di famiglia Mr Tweedy da Chicago non ha il piglio dell’icona rock anche il suo pubblico non è esattamente una masnada di giovinastri scatenati. Il fan medio dei Wilco, a quanto pare, ha tra i trenta e i quarant’anni, giusto qualcuno meno di loro, un’indole pacata e un’alta soglia d’attenzione. Non c’è da stupirsene. Il clima, così easy, è un po’ surreale, e dopotutto è un’esperienza surreale in sé anche starsene a quattro metri dai sei membri di una band planetaria che stanno facendo il loro mestiere. Quando entrano sono applausi e giusto qualche gridolino, quando nel buio attaccano con l’incalzare marziale di "Wilco (the Song)", una delle perle del nuovo album già circolate nelle lande della rete nelle scorse settimane, è silenzio e attesa. Dopo il classico "Handshake Drugs", succede che Tweedy, lamponi di luce blu che gli s’accendono alle spalle, intoni voce e chitarra "One Wing", altro pezzo nuovo che fino a due giorni fa si trovava nella sua studio edit pure su YouTube. La canzone cresce piano, si riempie, e prima della travolgente volata finale c’è spazio per il primo saggio della mostruosa bravura di Nels Cline. Nel 2007 Rolling Stone l’ha incluso nella top 20 dei nuovi Guitar Gods, e dire che suona da dio è forse il minimo che gli si possa concedere. Un dio, un mostro, un alieno. Fate voi.
Tweedy, da parte sua, dà voce alle sue canzoni e suona con fare nervoso, un po’ isterico. Negli Uncle Tupelo lasciava cantare quasi tutto a Jay Farrar, a lui toccava soprattutto armeggiare con la chitarra. E non avesse Cline a due metri dal suo gomito destro farebbe un figurone anche stasera. Ma anche così dà sfoggio di grande abilità, con la sei corde. Chi non l’avesse mai visto dal vivo non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. L’altro mostro si intravede là dietro, e ha il ciuffo subito pendulo e sudato di Glenn Kotche, che maneggia la batteria come fosse un’orchestra. I tre che rimangono – il cofondatore John Stirratt al basso, Mikael Jorgensen a piano e tastiere e Pat Sansone a qualsiasi altra cosa serva – sono semplicemente dei musicisti eccellenti. Il risultato è che dal vivo si ha in un attimo la prima spiegazione del perché i Wilco siano così bravi a fare dischi. Sanno suonare alla grande. Mica scontato.
Poi, certo, c’è quel qualcosa di alchemico in più. Il valore aggiunto, il peso specifico. L’inafferrabile. È da lì che vengono i brividi che ti si sciolgono dentro quando i ragazzi si lanciano nelle cavalcate poderose di "At Least That’s What You Said", "Impossible Germany" e "You Are My Face". Tre pugnalate che spezzano il concerto, che, lo capisci subito, ti faranno sanguinare fino alla fine. Tweedy si avvolge di un’aura quasi mistica, spiega le ali e si fa parte di qualcosa di più grande di te. È percorso da una sorta di febbre, mentre Kotche randella e Cline si contorce e intesse i suoi assoli da manicomio, canzoni nelle canzoni, traccianti luminosi che non hanno alcun bisogno di ricami barocchi né sguardi ruffiani.
Dopo un po’ quel fico di Kotche si regala un’ironica sbruffonata issandosi in piedi sulla batteria, braccia e bacchette tese verso il cielo di stelle di Siviglia, mentre Tweedy parte col riff southern rock di "I’m The Man Who Loves You", e via col tripudio. L’assolo stavolta tocca proprio al frontman, che ormai è sciolto, ha ingranato, va che è una bellezza. Finito il brano, prende il microfono e dice che il prossimo è l’ultimo, ma non ci crede nessuno. Eppure già a metà della debordante e martellante versione di "Spiders (Kidsmoke)" si capisce che Tweedy non scherzava.
È un finale quasi da rave, dieci minuti tondi di straniante rincorsa. La legge dei festival non ha pietà, il vecchio Olson avrà già voglia d’andarsene a dormire, bisogna proprio farseli bastare, questi quindici pezzi. D’altronde per quasi un’ora e mezzo abbiamo guardato la nuova frontiera del rock dritto negli occhi. Possiamo pure accontentarci.