
La seconda curiosità è relativa al pubblico, che gremisce i 2.400 posti degli Arcimboldi, la prestigiosa sala milanese che da tempio della lirica è sempre più votata, per volere anche delle istituzioni, ad accogliere tutte le forme dell'intrattenimento popolare, dal pop al rock, dal musical alla danza spettacolare. Il pubblico è prevalentemente di mezza età, probabilmente e almeno in parte, gli stessi fan delle origini, sempre fedeli alla musica cosiddetta "progressiva", che, esplosa sul finire degli anni 60, ha avuto il suo massimo fulgore artistico e di seguito popolare fino alla metà degli anni 70, per poi vivere un inesorabile e repentino declino. Un pubblico attento e composto, quello della serata, più che per motivi di età, potrei dire per un'attitudine a un ascolto di tipo cerebrale. Resto colpito dal fatto che durante lo show pochi spettatori tengono il tempo coi piedi, battono le mani o anche solo ondeggiano con le spalle per farsi trasportare da quello che a tratti è un vero furore ritmico. Poco trasporto fisico e sensuale, quindi, a cui si contrappone probabilmente un'immersione nel mondo fantastico e visionario proposto dalla musica degli Yes, un vissuto intimistico e profondo della musica di sapore squisitamente intellettuale.
La terza curiosità, per riprendere il tema del fantastico, è legata a come l'iconografia del gruppo si esprime sul palco. Presto detto, tramite una scena sobria ed elegante che rievoca tutto il surreale e delicato mondo visionario degli Yes: dietro la batteria campeggia il celeberrimo logo del gruppo, ripreso anche dalla gran cassa; sospese sopra gli strumenti si stagliano poi, con un senso di grande leggerezza, quattro sculture tridimensionali di stoffa che rimandano alla grafica "spaziale" di Roger Dean, l'autore delle storiche e suggestive copertine degli Lp. Per il resto solo gli strumenti in scena, con un light show molto soft che declina fasci di luce monocromi dal verde al lilla al celeste. Quanto basta per lasciare spazio finalmente alla grande musica di una delle band più rappresentative dell'intero movimento progressive e forse proprio la più "paradigmatica" nel trovare un equilibrio tra i tratti caratterizzanti del genere: la complessità strutturale delle canzoni (spesso superiori ai 10 minuti); la perizia, se non il virtuosismo tecnico; la vocazione epica e baroccheggiante delle orchestrazioni.
E proprio l'equilibrio è il termine-chiave della serata, un equilibrio che si regge su un baricentro musicale che ha un nome e un cognome preciso: Chris Squire. Il formidabile bassista, uno dei più devastanti artisti dello strumento elettrico a quattro corde che io abbia mai potuto ascoltare in un concerto rock è, se mi si concede il gergo calcistico, il metronomo del centrocampo, il vero baricentro della formazione, che tiene gli equilibri per un verso tra sezioni ritmica, armonica e melodica, per un altro verso tra fase di accompagnamento e fase solistica. Con uno stile personalissimo e presentissimo, la "pennata" di Squire entra ed esce nelle dinamiche compositive passando da un senso ritmico portante e precisissimo, a una versatilità che agisce sia in senso armonico che melodico. E' il basso il collante del suono Yes, ora solido nell'accompagnamento ritmico appresso a White, ora pronto a contrappuntare la chitarra del grande Howe o la tastiera di Wakeman junior, ora capace di divagare su territori solistici. Ma ciò che stupisce è la capacità di fare tutto questo nello stesso tempo, nella misura di un giro o di una battuta musicale; il tutto sempre con un suono robusto, presente e puntato, al limite dell'aggressività, oserei dire, ricco d'effettistica ma senza mai degenerare nella distorsione fine a se stessa. Spettacolo puro per gli estimatori dello strumento!
Intorno a Squire, Howe è il grande chitarrista che si conosce, faro della sei corde progressive, musicista capace di ricamare comunque partiture originali; strepitoso nelle parti solistiche e prezioso negli anfratti che non ci si aspetta delle complesse architetture musicali degli Yes. Howe, come da copione, si ritaglia un breve momento solistico acustico nel corso della serata, il tempo per proporre i suoi classici inossidabili, "Mood For A Day" e "The Clap". Alan White, il batterista che secondo la leggenda imparò il repertorio Yes in soli tre giorni a seguito della dipartita di Bruford (cosa che, se fosse vera anche solo a metà, ci indicherebbe la caratura dello strumentista) manca a mio avviso di una caratterizzazione stilistica forte dello strumento, come possono avere, per intenderci, un Phil Collins nei Genesis o lo stesso Bruford negli Yes. Oliver Wakeman, da parte sua, agisce in disparte. A dispetto di una forte somiglianza col padre, accentuata dalla medesima chioma fluente e dall'atteggiamento ieratico, offre un'esibizione abbastanza timida, dove sembra prevalere la scelta di non volere (o forse non potere) emulare i virtuosismi del padre. Questo approccio, gioca a favore dell'equilibrio strumentale complessivo e limita nel complesso della serata quell'aspetto epico, così enfatizzato a suo tempo dalle tastiere di Rick Wakeman, tanto da rischiare talora di cadere nel kitsch e nella autoreferenzialità (che rappresentano a mio avviso le derive peggiori per questo nobile genere musicale).
Il vocalist Davis Benoit fa la sua bella figura, niente da dire. La voce c'è, come certamente l'amore e l'immedesimazione nel repertorio che fu di Jon Anderson. Dopo una esibizione accademica, Benoit sveste la maschera del "clone" rompendo le righe a fine serata, nel corso dell'unico bis concesso, "Roundabout". Il cantante risale infatti sul palco, dopo la chiamata a gran voce, vestito della maglietta della nazionale italiana (i ricordi vanno inevitabili al 1982 con il Mick Jagger del Comunale di Torino vestito con la maglia azzurra dell'Italia fresca campione del mondo) e con grande energia convince la composta platea ad alzarsi in piedi fino a trascinarla nell'ovazione finale. La scaletta della serata ricalca per due terzi quella del triplo live "Yessongs" del 1973, rimarcando la centralità, nella produzione della band, della trilogia formata da "The Yes Album", "Fragile" e "Close To The Edge". Tra gli episodi più convincenti della serata, mi sono annotato l'apertura con "Siberian Kathru", "Yours Is No Disgrace", "And You And I", "I've Seen All Good People" e la pazzesca "Heart Of The Sunrise", dove, dopo una intro solistica dedicata al basso di Squire, la canzone esplode con fughe strumentali da far accapponare la pelle.
Interessante il ripescaggio di "Astral Traveller", dal secondo album "Time And A Word", la cui bellissima strofa sognante sembra volerci esortare a fluttuare nei paesaggi surreali disegnati da Roger Dean. Se inevitabile è l'esecuzione della hit "Owner Of A Lonely Heart", fugace momento di gloria per la band negli anni 80, un poco forzata appare la proposta di ben due canzoni dall'album "Drama" ("Tempus Fugit" e "Machine Messiah"), oltre quella di "Onward", brano estratto da "Tormato".Un poco di delusione resta invece per non aver potuto ascoltare la suite "Close To The Edge", probabilmente il capolavoro del gruppo.
Senza cedimenti il concerto si chiude dopo 2 ore e 20 di grande musica. Davvero uno stimolo per riprendere in mano un po' di ascolti del miglior progressive.