All'interno del "The Edge Festival" di Edimburgo si sono esibiti i Doves, una delle più interessanti band britanniche di soft rock degli ultimi anni. A dire la verità il complesso di Manchester non è da tempo sulla cresta dell'onda e a testimonianza di ciò sta la recente pubblicazione di un greatest hits dopo solo quattro album di studio (cinque se si considera la bella raccolta di b-sides "Lost Sides"), che di solito segna la fine artistica di un gruppo.
Il combo composto dai gemelli Andy e Jez Williams e da Jimi Goodwin è passato alla fama, dopo un esordio convincente, con "The Last Broadcast", album molto amato non solo dal pubblico (entrò direttamente al numero 1 della classifica di dischi UK) e dalla critica (nominato al Mercury Prize del 2002) ma anche da gran parte del gotha del rock mondiale (tra cui l'entusiasta Noel Gallagher, che considerava quest'opera "degna di un 11 in pagella" e ne caldeggiava l'acquisto in ogni intervista), al parzialmente deludente "Some Cities" sino al francamente insipido "Kingdom Of Rust", uscito l'anno scorso. Se infatti, per chi scrive, nel loro disco di maggiore successo è veramente difficile trovare una canzone debole, nell'ultimo lavoro avviene il contrario, si fa cioè fatica a trovare un brano che colpisca, ad eccezione, forse, solo delle prime tre tracce.
Dal vivo avevo già visto i Doves a Milano al Rolling Stone un lustro fa, quando aprirono per i Low: in quell'occasione mi piacquero abbastanza, anche se rimasi stupito per la scarsa presenza di pubblico e non mi convinse l'interpretazione in chiave rock anche dei loro pezzi più lenti.
Il concerto di Edimburgo si svolge all'Hmv Picture House, una piacevole e moderna venue, riaperta solamente due anni fa vicino al centro cittadino ed avente una capienza di millecinquecento posti. Il gruppo spalla sono a sorpresa i Ray Summers, i quali sostituiscono la beniamina di casa Dot Allison. Questi baldi giovani scaldano bene il pubblico con un set fatto di canzoni tutto fuorché originali (anche nell'immaginario tipicamente di fine anni 70, con capigliature ricciolute e camicie a quadri che portano alla mente Bo e Luke di "Hazzard") accompagnate da robusti suoni di chitarra più qualche fantasiosa improvvisazione che ricorda i primi dischi dei Coral.
Il locale si riempie solamente con le star della serata, che entrano dopo un'attesa abbastanza lunga intorno alla nove e mezza in maniera scherzosa, nascondendosi dietro gli strumenti e le loro custodie. Va subito detto che, anche se la maggior parte del pubblico, soprattutto le prime file, è rimasta più che soddisfatta, l'unica parte che ho trovato veramente coinvolgente del loro set è stata quella finale, in particolare il doppio bis di chiusura. Quello che non ha convinto è stata la volontà da parte della band di rendere rock, con un suono fortissimo, canzoni che sono apprezzate per il loro essere soft e vellutate, un po' come se una punk band decidesse di eseguire i propri velocissimi pezzi in maniera lenta e con una voce soave. Pure la parte vocale non è stata eccelsa, troppo spesso annegata in mezzo agli strumenti e non sempre intonatissima. A contribuire a questo sound robusto, a mio avviso eccessivo e impastato, è stato soprattutto il chitarrista Jez Williams, che cambiava continuamente i pedali della propria chitarra. Sul palco i Doves erano quattro, con l'aggiunta di un giovane tastierista dietro le quinte, sempre con l'obiettivo di rendere il suono più corposo. Nella prima parte del set si segnalano positivamente solamente "Jetstream" e "Kingdom Of Rust", ma in generale i brani eseguiti non graffiano, ed in particolare una versione "imbastardita" della canzone "The Last Broadcast" e una "Caught By The River" velocizzata e la cui parte iniziale sembra una sorellina malriuscita di "Yellow" dei Coldplay lasciano davvero l'amaro in bocca. Il pubblico applaude convinto, ma la parte migliore del concerto arriva solamente con i bis: sono infatti i vecchi pezzi da novanta quelli che riscuotono il maggiore gradimento con "Pounding", "Catch The Sun" e "There Goes to Fear", eseguite una dietro l'altra. La voce di Goodwin nella circostanza è un po' troppo roca, ma finalmente ci si emoziona e il finale del primo singolo di "The Last Broadcast", con il cantante che si defila andando a suonare la batteria e le immagini del loro noto video girato in Brasile, è effettivamente un bel sentire e un bel vedere.
La band si ritira, e la security, gentile e non arrogante, proprio il contrario di quella che si è abituati a trovare in Italia, porge alle prime file un bel bicchierone d'acqua gelata e ci prepara per il gran finale, affidato alla cover della danzereccia "Space Face", un loro pezzo del 1991 di quando si chiamavano Sub Sub e facevano musica dance, che sin da quando sono diventati Doves viene suonato alla fine di alcune delle loro esibizioni. Si nota nel finale che questo suono è davvero adatto per questo tipo di canzone, più da club disco che da live rock.
Peccato che il concerto si concluda proprio qui, sul più bello.