25/03/2010

Ruins Alone & Sabot

Teatro Sì, Bologna


di Maurizio Inchingoli
Ruins Alone & Sabot
L'associazione culturale Offset si presenta con l'incarico di organizzare una serie di concerti negli spazi del rinnovato Teatro Sì di Bologna. Per l'occasione, l'ospite d'eccezione è Tatsuya Yoshida degli storici Ruins, che torna in Italia per l'ennesima volta per presentarci il suo nuovo solo-project a nome Ruins Alone.

Prima, ad aprire le danze, c'è il duo dei Sabot, di stanza a San Francisco, composto da Chris Rankin al basso e Hilary Binder alla batteria. Che provoca la scintilla come poche volte è capitato di vedere in questi ultimi tempi. Con una maestria strumentale e un'attitudine positiva e squassante, il duo inscena un set breve e al fulmicotone, nel quale si fanno stoicamente le pulci a quel suono che gente come Don Caballero & soci aveva sviluppato e consumato fino all'inverosimile solo poco più di un decennio fa. I Sabot seguono quella scia math-noise da lungo tempo, e lo fanno con una grazia rispettabilissima; senza strafare però. Il basso di Rankin è praticamente seviziato chirurgicamente come fosse una chitarra che erutta riff in continuazione, come un corpo che vomita a comando tutto il suo malessere sotto forma di note trattenute a freno con l'adesivo. Mentre la batteria della ossuta Binder condiziona le forzute architetture sonore con una serie di funambolismi collaudati e precisi, senza mai perdere la voglia di divertire/divertirsi.
Insomma un set senza troppe pretese, breve e onesto. Questa strana coppia certamente non inventa nulla, ma dobbiamo registrare che lo fa con una discreta classe.

Dopo una pausa, costellata da im-prevedibili e noiosi problemi tecnici, e con la faccia di Yoshida che è tutto un programma - a un certo punto ci viene quasi da pensare che voglia abdicare all'esibizione - assistiamo al set di questo geniale polistrumentista che si è costruito un seguito di culto, anche in virtù delle numerose e prestigiose collaborazioni allacciate in giro per il mondo - un esempio per tutti quella con John Zorn. In circa mezz'ora di esibizione ci troviamo di fronte a un enorme frullato senza fine, composto da mirabolanti spruzzi jazzistici, pantomime letteralmente classic-oriented, e rimandi a certo rock d'assalto sempre di robusta marca zorniana, racchiuso in un folle citazionismo, sempre felice e mai fuori fuoco.
Yoshida fa ovviamente tutto da sé, con la batteria in primo piano, e un pad multi-effetto suonato e seviziato all'occorrenza, che erutta incessantemente suoni campionati delle specie più varie. Tra nevrotici assalti sonori cartoonistici, ambigue citazioni hard-prog come solo certi folli musicisti jap sanno evocare, e via elencando, si chiude come se niente fosse un set intenso e multiforme.
Con la solita, quasi banale classe, e una discreta e ancora intatta dose di follia esecutiva, l'ex (?) Ruins ci lascia e, con la sua calma zen, si aggira nel piccolo spazio come un astante qualsiasi. Il pubblico, decisamente poco numeroso ma attento, ringrazia e saluta.