
Del resto, lo si capisce subito da come si presenta sul palco milanese del Magnolia, sfidando le zanzare dell'Idroscalo accompagnato da un'ironica fanfara in stile "Rocky": lattina di birra in mano, camiciola a righe e immancabile cappellino da baseball a coprire il diradarsi della chioma, è il perfetto emblema del "Big Lebowski" della porta accanto. Certo, la barba si è fatta più grigia rispetto ai tempi di "Fashion Nugget". Ma lo spirito intimamente slacker e pieno di humour è rimasto sempre lo stesso: quello che ha fatto dei Cake uno dei mattoni più solidi (e sottovalutati) dell'indie-rock americano degli anni Novanta.
È un tipo umile, McCrea, uno a cui non interessa darsi troppe arie. Si avvicina al microfono sulle note romantiche della tromba di Vince Di Fiore e intona un vecchio brano del fuorilegge del country Willie Nelson, "Sad Songs And Waltzes". Traballante, rugginoso e struggente come solo i Cake saprebbero renderlo. Poi, McCrea impugna l'immancabile vibraslap, che con il suo fremito di percussioni latine marchia da sempre le canzoni della band californiana, e si mette a giocare con i momenti più celebri (e anche con quelli meno noti) di un repertorio ormai ventennale.
La formula è perfettamente collaudata: McCrea grattugia le corde della sua chitarra acustica dando lo spunto a una sezione ritmica dal groove pulsante, su cui Xan McCurdy innesta le sue incursioni elettriche e Vince Di Fiore i suoi profumi mariachi. E la risposta della platea è sempre calorosa, sia che si tratti dell'atmosfera festosa di brani recenti come "Mustache Man (Wasted)", sia che si tratti della malinconia di vecchi classici come "Frank Sinatra".

Ma più di tutto, McCrea riesce a instaurare un dialogo con il pubblico capace di andare oltre la facciata del "Ciao Milano" di rito. Non ha paura di far riscoprire a tutti il gusto di cantare insieme, lasciandosi alle spalle le finte pose snob: sulle note di "Sick Of You" divide la platea tra "escapisti" e "arrabbiati", invitando tutti a "prendere posizione" e partecipare al coro a due voci del ritornello; in "Jolene" spinge uomini e donne a fare a gara nel canto; e a un certo punto organizza persino un vero e proprio quiz, con in palio un alberello da piantare e far crescere amorevolmente: nei panni del Gerry Scotti della situazione, McCrea interroga solo i più disciplinati (per la cronaca, la domanda riguarda l'autore della scultura del "dito medio" messa davanti alla Borsa in Piazza Affari... chi sa la risposta?) e fa giurare alla bionda vincitrice di piantare l'albero e poi mandargli una foto. Perché i Cake non vogliono semplici spettatori, ma veri compagni di strada.
In nome della filosofia del gustarsi le cose con lentezza, la band si prende una pausa tra i due set del concerto. Quando torna in scena, è per inanellare tutti i brani più amati, dall'andamento funky di "Never There" ad una sarcastica "Italian Leather Sofa", che con le sue svisate jazzistiche raccoglie l'entusiasmo del pubblico.
I bis non fanno mancare nemmeno l'arcinota cover di "I Will Survive" (quella che ha lanciato la carriera dei Cake), ma a trascinare nell'ultimo coro è l'irresistibile giro di basso con cui Gabriel Nelson annuncia "Short Skirt / Long Jacket": e ci si ritrova tutti emuli di Chuck Bartowski, tra le mura del nostro "Buy More" quotidiano a sognare una ragazza con "la mente come un diamante" e "unghie che brillano come la giustizia". Tornando a casa con la voglia di concerti in cui anche i gruppi indie sappiano ancora far sorridere e cantare con la stessa modestia e ironia.
(Foto di Andrea Leone)