17/10/2011

Dirty Beaches

Salumeria della Musica, Milano


La Salumeria della Musica si trasforma nel Roadhouse di Lynchtown, quando Alex Zhang Hungta imbraccia la chitarra elettrica e mette in scena il voodoo psychobilly dei Dirty Beaches. Giri di basso rubati da Buddy Holly, Ritchie Valens e Françoise Hardy (il sample di "Voilà" spicca nella preghiera blasfema di "Lord Knows Best") sono intrappolati in un loop infernale che ipnotizza lo spettatore e lo trascina in un corto circuito temporale, lungo le strade perdute del rock. Su queste basi l'eco del microfono storpia e distorge una voce che sembra provenire dalle viscere degli anni 50, diventando quasi un growl psicopatico, mentre un sassofonista in occhiali e basco neri tesse velluti sonori che si dilatano in droni perturbanti.

Il moniker di Alex Zhang Hungta, taiwanese di nascita, canadese di adozione ma apolide per scelta, gioca chiaramente con l'ambiguità, evocando spiagge californiane sporcate dal sangue di qualche crimine irrisolto in un noir alla Raymond Chandler ridotto all'essenziale, mentre il titolo del suo primo album, "Badlands", è un omaggio all'omonimo primo film di Terrence Malick; ma sono solo alcune di una costellazione di citazioni che frantumano un immaginario diacronico per poi ricomporlo con sputo e brillantina nella fase performativa. Tra i molti fantasmi che aleggiano, quello di Alan Vega è il più visibile, ma manca completamente la rottura della terza parete operata dadaisticamente dal gruppo no wave. Infatti le mossette pelviche, gli abiti sixties e le luci calde concorrono programmaticamente a dare plasticità a qualcosa di imprendibile come il live, amalgamandosi in una sola texture.

Di fronte a tutto questo il pubblico, straniato e incantato, non può far altro che osservare il palcoscenico cristallizzarsi in un vecchio fotogramma in bianco e nero che ha subito un ingrandimento anamorfico. Lo show che Dirty Beaches ha costruito non è stato un concerto rock ma Cinema.

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