
Questa, dice, me l'ha scritta Tom Waits. E poi ricomincia a cantare, un filo storto di fumo che sale dalla sigaretta stretta nella mano destra. Insieme a lei, sul palco, solo la chitarra fidata di Doug Pettibone, davanti cinquecento e passa persone che sanno di essere molto vicine alla fine di una serata che non dimenticheranno facilmente. Canta, Marianne Faithfull, di piogge e di cieli, di lacrime e amori, canta "Strange Weather" e intanto disegna figure sottili nell'aria, la notte, là fuori, è fredda, è pazza, doveva essere luglio e invece è una notte d'ottobre, col vento che sferza e fa male, e porta via il tepore e le nuvole.
Perugia d'estate sa anche essere gelida, ma questo è troppo, questo è uno scherzo, questa è una notte architettata bell'e apposta così, perché rimanga tutto ben impresso, la musica e le parole e il passo incerto di questa donna per cui è impossibile dar tregua al proprio bisogno di leggendarietà. Era destinata alla leggenda quando aveva diciassette anni e cantava le canzoni che le regalava Mick Jagger, è ancorata alla leggenda oggi che di anni ne ha sessantacinque, e dà l'impressione di averne vissuti almeno cento. Questa gliel'ha scritta Tom Waits, e lei ci mette tutta l'intensità di cui ancora, dopo e nonostante tutto, è capace. Sarà l'unico bis, è chiaro. Un modo migliore per chiudere non ci poteva essere.
Era cominciata un paio d'ore prima, la serata finale di quest'edizione 2011 di Rockin' Umbria, che oltre alla Faithfull ha portato in dote gente del calibro di Joan As Police Woman, Verdena, Giovanni Lindo Ferretti e Kultur Shock. Tutti a Umbertide, questi altri, la sede storica. Mentre per lei, la vecchia sacerdotessa del rock, sono riusciti a sottrarre al cantiere infinito che lo occupa da quando fu scombussolato dal terremoto del 1997 lo splendido auditorium di San Francesco, a Perugia. Una volta era il tempio prediletto di Umbria Jazz, stanno cercando molto faticosamente di rimetterlo in sesto.
Ma Lady Marianne valeva un palcoscenico pregiato, ed era proprio il caso di dare un piccolo stop a lavori che avranno bisogno ancora di qualche anno, prima di giungere a compimento. Un luogo così è una meraviglia di per sé, e in fondo poco male se l'acustica per il momento è ancora quella che è. Da mettere in conto.
La gente venuta per la Faithfull, innanzitutto, s'era ritrovata a spellarsi le mani per un gruppo spalla sorprendente. I This Harmoy, perugini, ben meno di trent'anni. Una performance grandiosa, la loro: post-rock senza fronzoli, con un violino a fare la primadonna e trovate coreografiche e scenografiche illuminanti. Bravi, bravissimi. I ragazzi avevano cominciato che ancora si intravedeva il chiaroscuro delle nubi sul crepuscolo, oltre la vetrata che fa da coperchio all'antico abside, un tocco di magia in più subito inghiottito da quella ben più grande della voce di questa vecchia signora elegante arrivata caracollando al microfono a cui appendere alcune delle tracce più significative della sua storia.
Un po' di roba tratta dall'ultimo disco, il recente "Horses And High Heels", per cominciare, per dare subito la cifra di quel che sarebbe stato l'intero concerto: non aspettatevi accademia, qua comandano le viscere. E così via la title track dell'album, via "Why Did We Have To Part?" e via la corrosiva "Stations" dei Gutter Twins, Mr. Dulli e Mr. Lanegan. E poi "There Is A Ghost", scritta a quattro mani con Nick Cave, e "Crane Wife" dei Decemberists, e tutte le altre fino alla favolosa "Sing Me Back Home", dedicata all'anima dannata di Amy Winehouse. E qua, brividi.
Poi la tirata fulminante di "Broken English", con tutta la potenza di fuoco della band - formidabili Pattibone e la polistrumentista Kate St. John, un po' stralunato il bassista Ray McFarlane, solido il batterista Martyn Baker - al suo massimo, e subito dopo la canzone che più di ogni altra ancora oggi è Marianne Faithfull, una "As Tears Go By" quasi di corsa, fantasma di un tempo che ormai appartiene alla mitologia del rock, il modo in cui Jagger, scrisse, sì, la sua personale versione della petite madeleine di Marcel Proust. Infine, prima di andarsi a far accendere una sigaretta dietro le quinte, "Working Class Hero" ("a great song, written by a great man"), conclusa col pugno sinistro levato al cielo, e "Incarceration Of A Flower Child", che Roger Waters scrisse nel 1968 ma "never gave it to Pink Floyd".
Speciale, Marianne, perché basta sentirla intonare due parole per dimenticarsi di molto di quel che ci si dovrebbe legittimamente aspettare, a un concerto di musica rock: una cantante che si ricorda, sempre, tutte le parole, una band che non perde mai il filo, un'acustica che non fa a botte con le pietre di pareti e soffitti. E non è, semplicemente, indulgenza, ben intesi. È solo che Marianne Faithfull, in un posto come questo, come lei magnifico e antico e inesatto, va bene così. Con sé porta le gioie e il peso della leggenda, e la sua voce sa ancora ricordare tutto quel che è stata e che, in un certo qual modo, non smetterà mai di essere.
(Foto di Chiara Borgarelli)