05/07/2011

National

Piazza Castello, Ferrara


L'ultima immagine che avevamo dei National sul suolo italico era quella di Matt Berninger che chiudeva il concerto dello scorso novembre a Milano attraversando la folla dell'Alcatraz, per l'occasione sold out. Prima di salire sul pullman della band, parcheggiato all'uscita del locale, Berninger era sceso dal palco portandosi dietro il microfono e si era congedato dal pubblico sulle note di una "Terrible Love" cantata dispensando abbracci ai fan incontrati sul suo cammino. Già pochi minuti dopo la fine del concerto i rumors che iniziavano a circolare tra i ben informati parlavano di un possibile ritorno del gruppo questa estate in Italia, probabilmente a Ferrara. Voci che un paio di mesi si erano trasformate in certezza dando così inizio a una febbrile attesa per tutti coloro, sostenitori di vecchia data e neofiti, che non vedevano l'ora di poter nuovamente ammirare un live show dei cinque amici di Cincinnati, ma di casa a Brooklyn.

Ora che anche il concerto di Ferrara è stato affidato alla memoria (e ai supporti tecnologici con l'inseguirsi di video postati a tempo record su Youtube e affini) non resta che fissarne i momenti più belli, consci della conferma che i National sono uno dei migliori regali che la nuova ondata di revival post-punk sta offrendo alle nostre orecchie e alle nostre anime.

 

È ormai buio quando la band, preceduta dall'ottimo opening act dei Beirut, sale sul palco. Alla struggente "Runaway" è affidato il compito di creare una prima intimità con il pubblico di Piazza Castello. Berninger, al centro del palco in un elegante completo nero, rapisce gli occhi del pubblico con quel modo tutto suo di cantare mentre dondola trasognante aggrappato al microfono. I fratelli Devendorf e i fratelli Dessner sono impeccabili e le parti strumentali convincono sia nei brani più epici e stratificati come "Bloodbuzz Ohio" sia in quelli più tesi e ipnotici come "Squalor Victoria".

 

La setlist privilegia l'ultimo disco, "High Violet" uscito nella primavera dello scorso anno, ma offre anche incursioni nel passato, pescando tra le canzoni di "Alligator" e di "Boxer", rispettivamente l'album che ha decretato l'uscita da quel circuito di nicchia che costringeva alcuni componenti del gruppo a mantenersi con un secondo lavoro e l'album che li ha lanciati verso il successo mondiale anche grazie a quella "Fake Empire" che il presidente americano Barack Obama ha voluto come colonna sonora della campagna elettorale che lo ha portato alla Casa Bianca.

A discapito delle atmosfere crepuscolari che ne caratterizzano la musica, sul palco i National non hanno alcuna voglia di chiudersi dentro un involucro di malinconia né tanto meno hanno interesse a giocare con ruoli e personaggi. I tormenti esistenziali e le inquietudini che viaggiano sui versi scritti e cantati da Berninger appartengono a chiunque sia disposto a riconoscerli ed è per questo che la musica dei National accomuna persone di ogni età senza limitarsi a essere manifesto di una certa scena sonora o vacua esibizione di un'identità liquida che insegue l'ultima moda.

 

Dopo un doppio tuffo in "Alligator", con "Abel" e "All The Wine", la serata vola via in un dialogo tra "High Violet" e "Boxer", tra i cui brani più noti manca solo "Mistaken For Strangers". Sulle note di "Fake Empire", arricchita dalla presenza tra le fila dei musicisti di Zach Condon e Kelly Pratt dei Beirut, si chiude la prima parte del concerto. Il bis è scontato ma non lo è la scelta di inaugurarlo con una vecchia b-side: "Driver, Surprise Me". Il registro cambia radicalmente con la canzone seguente, una scatenatissima "Mr November", che vede Berninger nei panni di un frontman ormai incontenibile, che insieme alla giacca si è liberato di ogni freno: si precipita giù dal palco e interpreta parte del brano da una location a dir poco insolita come la reception dell'hotel che costeggia la Piazza.

 

È un crescendo di empatia e condivisione. In scaletta c'è ora "Terrible Love", il biondo cantante dell'Ohio oltrepassa le transenne e, inseguito dall'addetto alla sicurezza, si rimescola tra il pubblico che si sposta in massa cercando di seguirne i movimenti. Sembra l'epilogo, una sorta di riproposizione a cielo aperto di quanto accaduto a Milano. Non è così. Matt Berninger torna sul palco e alle sue spalle appare la band, ancora accompagnata dai due membri dei Beirut, schierata con chitarre acustiche, un tamburello e qualche ottone. "Vanderlyle Crybaby Geeks" è una buonanotte che non ha bisogno di amplificazione. Su Piazza Castello scende un silenzio surreale quando Matt Berninger si posiziona in equilibrio sulle transenne e interpreta il brano tenendo le mani del pubblico delle prime file, guarda i loro volti, sembra volerne condividere i pensieri in una ricerca di intimità lontana dalle performance muscolari, abituali per tanti divi del rock.

I National salutano e vanno via, mentre i cinquemila di Piazza Castello (per la cronaca, un nuovo sold out) si riversano lentamente verso l'uscita ancora, storditi per le emozioni vissute.

 

Quella sera d'estate di sette anni fa, quando i The National avevano suonato per pochi intimi in spiaggia all'Hana-Bi di Marina di Ravenna, sembra lontana anni luce. Ora i paragoni si scomodano e loro stessi ci scherzano su. "Sembra l'inizio di "Pride" ma nel tono sbagliato", ha detto sorridendo Matt Berninger a Ferrara, riferendosi all'attacco strumentale di "Sorrow". Ma è un bene che non sia così.

Forse un giorno i National saranno davvero, come gli U2, un gruppo da stadio. Forse non è vero che il successo quando diventa planetario ti rende meno "puro". Una parte di noi però preferisce che restino ancora un piccolo segreto da scovare.

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